Un adolescente aspira a diventare cowboy. Acquistata la sua prima pistola, si unisce ad un gruppo di mandriani. Durante il viaggio, sconvolto dai sanguinosi scontri con alcuni ladri di bestiame, banditi violenti e cinici proprietari di pascoli, il ragazzo cambia i progetti sul suo futuro.
La nuova segretaria di Peter Derns non solo è molto sexy ma è anche efficiente, precisa e parecchio ambiziosa, tanto da riuscire in una rapida carriera nell’azienda. Anche troppo rapida (e forse troppo fortunata). Peter, infatti, comincia a sospettare degli “incidenti” che hanno eliminato uno alla volta i vari concorrenti della ragazza.
L’attacco alla base americana di Pearl Harbor apre un nuovo fronte delle ostilità in Giappone. Desmond Doss, cresciuto sulle montagne della Virginia e in una famiglia vessata da un padre alcolizzato, decide di arruolarsi e di servire il suo Paese. Ma Desmond non è come gli altri. Cristiano avventista e obiettore di coscienza, il ragazzo rifiuta di impugnare il fucile e uccidere un uomo. Fosse anche nemico. In un mondo dilaniato dalla guerra, Desmond ha deciso di rimettere assieme i pezzi. Arruolato come soccorritore medico e spedito sull’isola di Okinawa combatterà contro l’esercito nipponico, contro il pregiudizio dei compagni e contro i fantasmi di dentro che urlano più forte nel clangore della battaglia.
Architetto nero di New York, con moglie e figlia, ha una relazione con la segretaria italoamericana, che ha il babbo e due fratelli a carico. Male accolta nei rispettivi ambienti, la loro storia li fa espellere dalle famiglie. Passata la febbre, vi rientrano. L’intrigo, semplice, del 5° film dell’afroamericano Lee serve per affrontare 2 temi principali: i rapporti interrazziali e quello della droga (da lui condannata con lucido furore). Concretezza, lucidità, energia e irridente umorismo sono le qualità del film, al servizio dell’efficacia del disegno dei personaggi. Superba compagnia di interpreti, colonna musicale curata da Stevie Wonder con le voci di Frank Sinatra e Mahalia Jackson. Premio a Cannes per S.L. Jackson.
Charley Partanna, killer di “Cosa Nostra”, prende una sbandata per una bionda misteriosa, che ha conosciuto durante una festa di nozze della “famiglia”. Charley sposa la biondina dopo averla inconsapevolmente resa vedova. E qui la situazione precipita: la bella sposina, che nel frattempo si è scoperto essere a sua volta una professionista dell’omicidio, si è intascata un milione di dollari di proprietà del clan. Per sbrogliare la matassa, Charley si vedrà costretto a far fuori la dolce metà.
Alla fine dell’Ottocento, il bandito texano Bean diventa giudice e amministra la giustizia con metodi poco ortodossi, servendosi parecchio della forca. Il magistrato è anche barista e venera l’attrice inglese Lily Langtry che non ha mai visto. La civiltà arriva anche in quelle lande selvagge e il pittoresco personaggio sparisce, ma tornerà verso il 1920 a difendere, pistola in pugno, la propria figlia dalle prepotenze di un avido capitalista rappresentante della nuova America, ancor più spietata della vecchia.
Con la promessa di uno sconto di pena Jake (Washington), condannato a vent’anni per uxoricidio involontario, ottiene sette giorni di libertà vigilata per tornare a Coney Island e convincere il figlio diciottenne Jesus (Allen), famoso e conteso giocatore di pallacanestro delle scuole superiori, ad accettare una borsa di studio della Big State University, cara al cuore del governatore dello Stato. Compito difficile: il figlio lo odia. Con questo suo film (n. 11) didattico, manicheo e predicatorio Lee conferma la sua vocazione di “fulminante moralista del mondo nero, antitradizionale predicatore della cultura sociale afroamericana contrapposta alla Gomorra dei costumi bianchi” (R. Menarini). Il basket è uno sport che si presta bene a essere filmato per molte ragioni, ma qui diventa un veicolo di comunicazione (quasi un codice simbolico-espressivo nel rapporto tra padre e figlio), metafora esistenziale, strumento di critica sociale. Nessuno aveva mai analizzato con lucidità altrettanto caustica un mondo e un sistema dominati dall’industria, dal potere, dal denaro, dalla politica dei bianchi, dai trafficoni italoamericani, dagli agenti mafiosi, dagli sfruttatori del circo mediatico.
Verso il 1820, un nobile inglese fa una spedizione di caccia nelle zone inesplorate del Nord America e viene catturato dai Sioux. Gli indiani, che non hanno mai visto un bianco, lo trattano come se fosse un cavallo da soma, ma l’inglese… a poco a poco riesce a farsi accettare come guerriero e diventa addirittura capo quando sconfigge i nemici della tribù adottando la tattica della fanteria britannica. Solo la morte della pellerossa, che era diventata sua moglie, lo farà decidere a tornarsene in Europa.
Nicole, figlia di Bonnet, noto mecenate, vuole rubare da un museo di Parigi una statuetta del Cellini prestata dal padre. In realtà, la ragazza sa che la statuetta è falsa. Trova aiuto in un giovanotto che si innamora di lei ed escogita un astutissimo piano per portare a termine il furto. Però il giovane non è un ladro, come lei crede, ma un detective esperto nello scoprire falsi.
Dopo cinque anni in coma per un incidente, Johnny Smith, prof. di letteratura, scopre di avere poteri medianici che gli permettono di “vedere” il passato e il futuro delle persone con cui entra in contatto fisico. È un ‘dono’ che gli succhia a poco a poco la vita e dal quale cerca di fuggire, specialmente quando diventa celebre perché salva vite altrui o individua un assassino periodico. In modo diverso dal romanzo (1979) di Stephen King, da cui è liberamente tratto con la sceneggiatura di Jeffrey Boam, la “zona morta” è quel tanto di imprecisione che esiste nelle sue visioni del futuro (applicazione letteraria del principio di indeterminazione del fisico tedesco Werner Heisenberg, premio Nobel 1932) e che gli dà la possibilità di cambiarlo. Come il tragico epilogo conferma. Pur girato in esterni canadesi, è il 1° film hollywoodiano di Cronenberg (onore a Dino De Laurentiis che l’ha prodotto) e, tolto Shining , il migliore tra i tanti desunti dalla narrativa di King. È il più conciso, compatto e “classico” del geniale regista canadese a livello narrativo anche se meno originale di altri per la tematica. Memorabile interpretazione del 40enne Walken che rende con dolente intensità l’infelicità del protagonista.
L’unica figlia di una famiglia di rancheri bianchi è in realtà un’orfanella pellerossa, ma i suoi tre fratelli lo ignorano. Quando la tribù dei Kiowa la reclama, esplode il dramma. Uno dei due western di Huston che lavorò nelle migliori condizioni possibili: alto costo, due star, uno sceneggiatore d’ingegno (Ben Maddow con cui aveva lavorato in Giungla d’asfalto, 1950), un operatore tedesco di merito (F. Planer), un musicista di successo (D. Tiomkin). In questa vicenda che capovolge quella di Sentieri selvaggi (1956) di John Ford, anch’esso ispirato a un romanzo di Alan Le May, il tema del razzismo è affrontato in modo indiretto, ma efficace: non contano tanto il sangue e il colore della pelle quanto le affinità con una civiltà. La cultura pesa più della natura. Il passar del tempo ha lavorato per il film invece di logorarlo: sono più evidenti le sue ambizioni di tragedia corneilliana (conflitti tra passioni e doveri); la simbiosi tra uomo e natura, specialmente nella 1ª parte; le magnifiche folate di invenzione cinematografica. Parzialmente riuscito e meno vitale di L’uomo dai sette capestri (1972).
4ª regia (esclusi i documentari) di Huston, che l’ha scritto con Richard Brooks dal dramma omonimo (1939) di Maxwell Anderson. L’ufficiale in congedo Frank Mc Cloud arriva a Key Largo, isoletta a largo della Florida, a far visita alla vedova e al padre di un commilitone morto a Cassino che gestiscono un alberghetto. L’hotel è occupato da una banda di criminali, guidati da Johnnie Rocco, espulso dagli USA dove sta rientrando illegalmente. Intanto è in arrivo un uragano. La parentela con La foresta pietrificata (1936) è evidente, ma il film ha altri temi: la disillusione postbellica, la corruzione politica, l’analogia tra fascismo e banditismo. Aiutato dalla fotografia in profondità e dai piani sequenza di Karl Freund, Huston riesce a mitigare la verbosità teatraleggiante del testo, a sveltire al montaggio l’azione concentrata quasi sempre su un solo set e a cavare il meglio dagli interpreti: l’istrionismo ben temperato di Robinson, la sobrietà della coppia Bogart-Bacall e su tutti l’umiliata Gaye Down della Trevor, premiata con l’Oscar della non protagonista.
Da un romanzo breve (1941) di Carson McCullers. Groviglio di nevrosi in un campo militare della Georgia: un maggiore adocchia un bel soldato semplice; sua moglie se la fa con un suo collega la cui consorte s’è mutilata con le forbici. Sottovalutato dalla critica e ignorato dal pubblico, l’una e l’altro disorientati da una vena grottesca che fu scambiata per involontaria parodia, è un film inquietante e suggestivo in cui Huston racconta con distacco lucido i personaggi senza dare valutazioni morali né spiegazioni psicologiche. Un quartetto d’attori di prim’ordine e un interessante uso del Technicolor, denaturato in laboratorio per ottenere una dominante di oro-arancio.
Una coppia di sposi in cattive acque entra casualmente in possesso di un’enorme somma di denaro rubato. Lui vorrebbe avvertire la polizia, ma lei lo persuade a nasconderla in un posto sicuro. Il ladro tenta di recuperare la refurtiva, ma la donna uccide lui e il marito, scappa oltre confine e muore mentre fugge da un poliziotto.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
1959. Michael Courtland e sua moglie Elizabeth hanno appena finito di celebrare nella loro lussuosa casa di New Orleans il decimo anniversario di matrimonio quando la tragedia irrompe nelle loro vite. Elizabeth e la figlioletta Amy vengono rapite e moriranno in un fallito tentativo della polizia di liberarle coinvolgendo Michael. Da quel momento l’uomo vive nel rimorso. Un sentimento che potrebbe trasformarsi in senso positivo quando Michael, nel 1975, incontra a Firenze in San Miniato (la chiesa in cui aveva conosciuto Elizabeth) una giovane che restauratrice che le somiglia in modo incredibile. Brian de Palma non nasconde il proprio debito nei confronti di Vertigoma, grazie alla sceneggiatura di Paul Schrader (ricca di inverosimiglianze a cui però ci si adegua senza fatica) e alla musica di Bernard Herrmann offre alla sua macchina da presa l’occasione di esibire ancora una volta la propria originalità di sguardo. Perché anche qui il regista più manierista (nel senso buono) della storia del cinema contemporaneo ci offre una varietà di scelte di inquadratura e di movimenti di macchina (ralenti compresi) costantemente finalizzati alla narrazione. De Palma ce lo dichiara sin dai primi minuti quando ci “sbatte” in primissimo piano la pistola infilata nella cintura di un cameriere impegnato a servire alla festa di anniversario. Quello che il regista ci chiede non è “guardare” ma osservare rendendoci conto che ogni scelta visiva è fondamentale per l’ambiguità della narrazione. Fino all’ultimo.
Dal romanzo Anne Pedersdotter di Hans Wiers-Jenssen e dal dramma (1918) di Karl Gustav Vollmoeller: nella Danimarca del 1623 l’amore tra il figlio di un pastore protestante e la sua giovane matrigna che, accusata di stregoneria dopo la morte del marito, dinanzi all’atteggiamento dell’amante, anch’egli convinto della sua colpevolezza, preferisce morire attribuendosi un delitto non commesso. Di altissima tenuta stilistica nella sua maestosità (Dreyer: “Non il montaggio è lento, ma il movimento dell’azione. La tensione si crea nella calma.”), di grande ricchezza psicologica e sapiente rievocazione storica, è una vetta nell’itinerario di Dreyer e nella storia delcinema. Per il regista danese _ al di là delle interpretazioni che se ne possono dare _ la più terrificante sequenza musicale della liturgia cristiana diventa un inno alla vita e alla libertà contro il fanatismo, l’intolleranza, la cecità spirituale degli uomini.
Una ragazza scompare nello stesso punto in cui anni prima una sua coetanea era stata trovata uccisa. La sua amica la cerca con l’aiuto di un giornalista. In preda ai sospetti, la giovane si rifugia in una stazione di polizia retta da un solo agente. Colpo di scena finale.
Dopo essere stata ripetutamente violentata, Thana impazzisce e massacra tutti i maschi che le capitano a tiro, tra pistolettate vendicatrici e accurati squartamenti.
Un paesino è dominato da una banda di furfanti che eleggono come sceriffo un vecchio ubriacone. Questi, in un risveglio di dignità, chiama in aiuto il figlio d’un famoso pistolero pensando che sia degna progenie del padre, ma invece il giovane ostenta d’odiare le pistole. Disperazione degli onesti. Il ragazzo, però, è estremamente astuto e riuscirà a trovare le prove per incastrare i banditi. Inoltre, quando i fuorilegge uccideranno l’ubriacone, farà vedere di essere in gamba anche coi pugni e con le armi.
Jack Holcombe è un detective della polizia dell’Alaska in procinto di ritirarsi dal servizio. Gli viene affidato un caso estremamente complesso. C’è un serial killer che attira giovani donne, le incatena, le violenta e poi le uccide. Jack sospetta di una persona apparentemente tranquilla: Robert Hansen. Occorrono però prove schiaccianti contro di lui e potrebbero arrivare dalla testimonianza di Cyndy Paulsen che è riuscita a scappare prima di essere uccisa. Cyndy però è una ragazza complicata e indurla a testimoniare non è facile. Ispirato a delitti realmente accaduti questo film torna a mettere l’uno di fronte all’altro Nicholas Cage e John Cusack che non si incontravano dai tempi di Con Air. Questa volta il confronto è a distanza con l’eccezione dell’ultima parte del film e la bilancia pende a favore di un maggiore spazio offerto alla psicologia del detective (Cage) rispetto a quella del killer (Cusack). Se infatti di Jack comprendiamo le motivazioni (spora a tutte un senso di protezione paterna) che lo spingono a cercare di risolvere il caso, Robert viene soprattutto mostrato in azione e i motivi (se così si possono chiamare) per cui uccide vengono più detti degli altri che non fatti emergere dalla sua presenza sulla scena. In realtà però il film (che ripercorre luoghi ormai più che comuni del genere) ha il pregio di centrare l’attenzione sulla fragilità di Cyndy Paulsen interpretata con grande adesione da Vanessa Hudgens. Non è facile rendere le variazioni di umore, le paure, le insofferenze, le ricadute di una ragazzina finita nel giro della prostituzione soprattutto quando la vera Cyndy è tuttora vivente. In proposito va segnalata una nota stonata nei titoli di coda. Le immagini che vi appaiono (che si spera siano state autorizzate) contrastano con la musica che le accompagna. Quello che avrebbe dovuto essere un omaggio si trasforma in un macabro elenco.
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