Sette banditi rapinano una banca e scappano attraverso il deserto. Arrivano a un villaggio abbandonato, dove trovano una ragazza e un vecchio che cerca l’oro. Un classico del western, robusto e asciutto.
Un film di Abbas Kiarostami. Con Farhad Kheradmand, Puya Paevar Titolo originale Zendeg edamé dârad. Drammatico, durata 91 min. – Iran 1992.
Girato con la partecipazione degli abitanti di Rostamabad e Roudbar, il film è un ideale proseguimento di Dov’è la casa del mio amico?. Siamo in Iran nel 1990. Il regista percorre in auto col figlio le zone terremotate per cercare gli attori di quel film. Difficile da raccontare, è una storia per chi cerca profonde emozioni, lontano da logiche commerciali.
I subita nella versione 720p sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Un giovane barbiere di paese (siamo negli anni Venti) è paralizzato agli arti inferiori per una malattia psicosomatica. I medici credono che la malattia sia legata alla fine della sua love story con una ricca ragazza del posto. Infatti è vero: il giovane riprenderà l’uso degli arti quando riconquisterà per sempre il cuore della bella. Prima però accadranno tante cose (inclusa l’incarcerazione per antifascismo del giovanotto).
Una forma di vita extraterrestre si riproduce sulla Terra dando origine ad una strana pianta i cui baccelli hanno la capacità di duplicare nelle fattezze e nella personalità gli esseri umani colti nel sonno e di sostituirsi ad essi. Elizabeth Driscoll che ha trovato una di queste piante e incuriosita l’ha portata a casa, comincia ad avvertire l’agghiacciante sensazione che il suo compagno Jeff sia diventato un’altra persona. La ragazza si confida con il collega Matthew Bennell. Questi, appreso dall’amico psichiatra David che numerosi pazienti lamentano le stesse ansie, si risolve ad avvertire le autorità, incontrando da un lato scetticismo e incredulità e dall’altro sospetta disponibilità. Matthew non sa più di chi fidarsi, ma è tardi. I baccelli, ormai, hanno invaso la città.
Da un romanzo di Ken Follett: due storie che alla fine s’intrecciano. Un’inafferrabile spia nazista che si nasconde in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale e una giovane coppia che, dopo nozze infauste, va ad abitare al largo delle coste britanniche. Comincia come un film d’inseguimento, continua come un thriller, si conclude come una tragedia d’amore, ma è una spy-story . Tutto funziona, ma il vero punto di forza è D. Sutherland che dà credibilità a un personaggio multiforme.
Charlie Croker e la sua banda hanno messo a segno un colpo miliardario sottraendo lingotti d’oro da un palazzo veneziano. Ma qualcuno all’interno del gruppo ha deciso di tenersi tutto per sè, non esitando a eliminare il vecchio John, padre spirituale del gruppo, pur di mettere le mani sul malloppo. Urge vendetta: e quale vendetta migliore che riappropriarsi del maltolto, inscenando il più gigantesco ingorgo della storia per poter scappare indisturbati o quasi a bordo di tre Mini? Che la fantasia ad Hollywood sia in drastica diminuzione si sa da tempo, e “The italian Job” lo conferma appieno: qui si va addirittura a ripescare un titolo non memorabile del 1969 pur di portare a casa uno straccio di idea. Ma l’idea in sè non basta, se non valorizzata da una sceneggiatura all’altezza. E qui, escludendo il buon inizio veneziano e l’adrenalinica mezz’ora finale, ci sono almeno sessanta minuti sonnacchiosi. Cast sulla carta notevole, ma decisamente sottoutilizzato: il regista viene dal video – clip, e purtroppo si vede benissimo. Smorto.
Da un romanzo di Jack Higgins. Nel 1943 un commando di paracadutisti tedeschi atterra in una località della costa occidentale inglese col proposito di rapire Winston Churchill. Sturges è un regista rispettabile per il mestiere, soprattutto nelle sequenze d’azione e nella cura dei particolari. Duvall dà malinconica dignità al suo colonnello guercio
1962. Due matricole del College Faber, Larry e Kent, vogliono iscriversi a uno di club studenteschi. Rifiutati dall’Omega, frequentato dagli studenti di buona famiglia, trovano accoglienza allo sregolato Delta in cui l’elemento di punta è John Blutarsky (‘Bluto’), sporco, decisamente sovrappeso e assolutamente maleducato. Il rettore però ben presto decide di smantellare il club. La vendetta sarà devastante e Bluto ne costituirà lo stratega.
Nel 1855, durante la guerra di Crimea, un furbo avventuriero, coadiuvato da una banda, riesce a rubare con astuzia un’ingente quantità di lingotti d’oro di proprietà del governo britannico. È, insieme, un film di genere e un film d’autore, sulla scia della tradizione britannica dei ladri non tanto gentiluomini quanto intelligenti. Un bel ritmo narrativo si coniuga con una gustosa ricostruzione ambientale. In USA s’intitola The Great Train Robbery . Sceneggiato da Michael Crichton e basato su un suo romanzo (1975).
Sette professori ospitano una sciantosa ricercata dalla polizia. Uno s’innamora, ricambiato. Parafrasi sarcastica di Biancaneve e i sette nani, un cocktail ad alta gradazione alcolica di glottologia e gangsterismo con dialoghi ricchi di battute spiritose. Billy Wilder tra gli sceneggiatori. Rifatto dalla stesso Hawks con Venere e il professore (1941).
Il Big Kahuna è il grande colpo, la grande vendita. Tre agenti di una società in crisi cercano di agganciare un possibile ricco cliente. Parlano, parlano, del lavoro, di se stessi, della vita. Un vero “Kammerspiel” (tutto in una, anzi, due stanze). Si aspetta, si aspetta. Per niente. Si salva De Vito, più bravo del “doppio oscar” Spacey, che pure si è costruito il film addosso.
Film di guerra in costume, di alto costo, imperniato su un cavallo: nato sulle verdi colline del Devon, contea dell’Inghilterra del Sud, comprato all’asta da un contadino, affascinato dalla sua bellezza, è battezzato Joey da un suo figlio adolescente. Nell’imminenza della guerra 1914-18, la povera famiglia lo vende all’esercito britannico. Joey passa da un esercito all’altro, dall’amore di un ragazzo a quello di una bambina, ma rimane l’eroe, mentre i coprotagonisti umani non lasciano segno di sé. Scritto da Richard Curtis e Lee Hall, basato su un romanzo di Michael Morpurgo e una successiva pièce teatrale, il film è prolisso ma non si tira indietro con efficace realismo nelle sequenze di battaglia, una più sanguinosa e fangosa dell’altra, citando alcune immagini epiche di La grande parata (1925) di King Vidor, finché negli ultimi 20 minuti il cavallo si lancia al galoppo contro ogni ostacolo verso la terra di nessuno. Il doppiaggio italiano è inadeguato al plurilinguismo del film e diventa ridicolo nel dare le voci ai tedeschi.
Nella cittadina di Goksung (Corea), l’arrivo di un giapponese coincide con l’inizio di un’epidemia mortale. La polizia brancola nel buio fino a quando la figlia del detective Jong-hoo si ammala. Thriller rurale tipico della produzione sudcoreana di genere dell’ultimo ventennio – a partire dal capolavoro Memories of murder (2003) in poi – con un ritmo non serrato, efficace nel catturare lo spettatore. Ma la sceneggiatura mescola (male) diversi elementi horrorifici che solo la bravura dei protagonisti tiene insieme. Interessante la tematica religiosa: lo sciamanesimo e i suoi riti sono ancora molto considerati in alcune zone, dove la superstizione popolare resiste e sfrutta la chiusura mentale delle generazioni passate.
L’ex-poliziotto e attuale lenone Jung-ho si insospettisce dopo che un po’ delle sue ragazze scompaiono nel nulla. Temendo una fuga o peggio un acquisto sottobanco da parte di terzi, decide di indagare per conto suo sul mistero, finendo così per scoprire un orrore ben più profondo. Sono diversi i motivi per cui Chaser alla sua uscita ha rappresentato una splendida sorpresa. In primis il fatto che per Na Hong-jin si tratti di un debutto (e un debutto di questo livello in Corea non lo si vedeva da anni), secondariamente il fatto che, pur aggiungendosi alla già nutrita galleria di film coreani sui serial killer, riesca a brillare per più di un verso. Antesignano e pietra di paragone per tutto ciò che concerne il binomio serial killer-polizia inefficiente è (e rimarrà) il capolavoro Memories of Murder, ma il fattore doppiamente inquietante di Chaser è la differente ambientazione; se il film di Bong Joon-ho era ambientato durante il disfunzionale e sanguinario regime militare degli anni ’70-’80, Chaser mostra che anche in tempi di democrazia i mali che affliggono la società sono i medesimi. La politica, ancora una volta, si piglia la precedenza anche quando non dovrebbe e il personalismo del sindaco, preoccupato solo degli attentati e della popolarità, finirà per causare un meccanismo domino con ripercussioni gravissime sull’intera faccenda.
Alfie ha lasciato la moglie Helena perchè, colto da improvvisa paura della propria senilità, ha deciso di cambiare vita. Ha iniziato così una relazione (divenuta matrimonio) con una call girl piuttosto vistosa, Charmaine. Helena ha cercato di porre rimedio alla propria improvvisa disperata solitudine cercando prima consiglio da uno psicologo e poi affidandosi completamente alle ‘cure’ di una sedicente maga capace di predire il futuro. La loro figlia Sally intanto deve affrontare un matrimonio che nonfunziona più visto che il marito Roy, dopo aver scritto un romanzo di successo, non è più riuscito ad ottenere un esito che lo soddisfi. Sally ora lavora a stretto contatto con un gallerista, Greg, che comincia a piacerle non solo sul piano professionale…
Estate 1977 a New York: la più torrida del secolo. Mentre nel Bronx un assassino periodico (lo psicotico David Berkowitz che si firma “il figlio di Sam”) fa le sue vittime con una calibro 44 tra donne sole o coppiette appartate, scatenando la paranoia del sospetto e della caccia all’uomo, la calura provoca un blackout che sferra un’ondata di saccheggi per mano di neri e portoricani poveri. È l’estate in cui nel baseball gli Yankees vinsero il campionato ed esplose la disco music. Su questa tela di fondo nella chiusa comunità italoamericana si svolgono le vicende di due giovani coppie, Vinny (il colombiano Leguizamo) e Dionna (Sorvino), Ritchie (Brody) e Ruby (Esposito). Scritto da Victor Colicchio e Michael Imperioli con il regista-produttore, è – come Fa’ la cosa giusta (1989) – un complesso e convulso film corale che ha per temi principali l’intolleranza, la paura aggressiva per i “diversi”, il ruolo dei media nel far lievitare panico e paranoia collettiva (con lo stesso S. Lee che si ritaglia ironicamente una piccola parte di telecronista), la mentalità cattolico-machista degli immigrati italiani. Gronda di sangue, vomito, lacrime, sesso, violenza. E di musica: Talking Heads, Who e quella originale di Terence Blanchard che condiziona il montaggio sincopato e contratto (di Barry Alexander Brown). Nella fotografia di Ellen Kuras s’impastano bene frequenti ricorsi al video. Qualche noia con la censura USA, con la distribuzione che ha chiesto la riduzione e con la comunità italoamericana di New York.
Non è un giallo perché si sa subito chi è il colpevole. Non è un thriller perché manca di azione. È soltanto in parte un dramma giudiziario sebbene la soluzione sia squisitamente legale. Che cosa è allora? Una battaglia di parole e di sguardi tra due maschi – l’autore di un (tentato) uxoricidio e un procuratore distrettuale che rappresenta l’accusa. È un film che fa aspettare anche se lo spettatore un po’ sveglio indovina presto il finale. Quel che conta in un buon criminal film è l’itinerario per raggiungerlo. Scritto e ben dialogato da Daniel Pyne e Glenn Gers, ha soltanto una palese smagliatura, ricucita col filo bianco, nel detective che arriva nella villa del delitto: è lui l’amante della vittima che raccoglie la confessione del colpevole. È improbabile che abbia avuto per mesi un’appassionata relazione con una signora sposata ignorandone nome e indirizzo. E come faceva Crawford a sapere che sarebbe intervenuto proprio lui? Il vero protagonista non è un Hopkins già visto, ma Gosling, giovane attore emergente alle prese con un personaggio complesso. Come il solito, Hoblit dirige con una elegante sicurezza che tracima qua e là nel calligrafico sullo sfondo di una Los Angeles altoborghese.
Dopo la festa di fidanzamento di Anna, arriva nella sua casa un ragazzino che sostiene di essere Sean, il marito morto dieci anni prima. Nonostante il rifiuto di tutta la famiglia, la donna inizia a credere nel bambino, convinta dai ricordi del nuovo Sean e dalla speranza di ricreare l’antico rapporto, mai dimenticato. Nonostante la confezione raffinata di Glazer e l’interesse che il film suscita nella prima mezzora, Birth delude per la sceneggiatura superficiale e prevedibile, e, spiace dirlo, per la stucchevole espressività di Nicole Kidman che, dalla Macchia Umana in poi, sembra aver perso l’intuito nella scelta dei copioni.
Tratto da un racconto folcloristico coreano, Two sisters, fa parte del filone orrorifico del cinema orientale degli ultimi anni. Inquietante e lentissimo, simbolico e con qualche buco di sceneggiatura, il film di Kim Jee-Woon è la storia di due sorelle inseparabili tornate a casa dopo una lunga malattia in seguito alla tragica morte della madre. Su Mi, la maggiore, nutre un grande rancore nei confronti della matrigna e del padre, considerati colpevoli del dramma, e cerca di proteggere la sorellina Su Yeon, terrorizzata dalla situazione domestica. Incubi notturni, immagini del passato, morti che appaiono vivi nella mente. Qualcosa di terribile si nasconde nella mente di Su Mi e nei suoi ricordi. Formalmente impeccabile, con inquadrature geometriche di spazi e persone, Two sisters esplora i luoghi bui della nostra mente, ricreando fantasmi ed esperienze traumatiche che rimangono segni indelebili di una vita. Sebbene siano presenti violenze di diverso tipo, il sangue appare in un simbolico rosso, privo di ogni elemento granguignolesco, ma estremamente efficace nel generare uno stato di ansia in chi guarda. La sceneggiatura, sfortunatamente, pecca di eccessiva complessità e di alcune contraddizioni che coinvolgono i personaggi, lasciando più di qualche quesito irrisolto nello spettatore. Un lento (anche troppo) e inesorabile viaggio nei tormenti della psiche.
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