Nel 1985, Steve Spielberg e altri fortunati cineasti della sua generazione resuscitarono la vecchia serie fantascientifica che li aveva fatti strabiliare nella loro adolescenza. I primi due episodi portarono la firma del master of horror Wes Craven.
The X-Files ha rappresentato una delle serie tv di culto degli anni 90. Nata dalla fantasia dello sceneggiatore Chris Carter, ha debuttato nel 1993 per poi concludersi nel 2002. Nel 2016, la serie è tornata in tv per due nuove stagioni ottenendo un discreto riscontro. Oltre al prodotto televisivo, The X-Files ha generato due film, due serie spin-off, libri, videogiochi e fumetti. Un fenomeno mediatico che, al culmine della sua popolarità fra il 1994 e il 1998, ha rappresentato un unicum nel panorama televisivo mondiale.
Le avventure degli agenti FBI Fox Mulder e Dana Scully, interpretati da David Duchovny e Gillian Anderson, sono riuscite a sdoganare la fantascienza in tv dopo anni di magra. Precursori delle ondate complottiste che, grazie a internet, sono tornate di gran moda hanno attinto da un immaginario smisurato dandogli nuova linfa. Nel corso della sua storia, The X-Files ha conquistato cinque Golden Globes e 16 Emmy Awards, trasformandosi in uno dei maggiori successi per la Fox. I suoi due protagonisti sono diventati personaggi noti anche a chi non avesse mai visto un episodio, vere figure iconiche del mondo della serialità. A distanza di alcuni anni, cerchiamo di analizzare attraverso la nostra recensione questo fenomeno televisivo e capire quanto davvero abbia inciso sul mondo televisivo.
Arkadin, un miliardario magnate della finanza, assume avventuriero per ritrovare vecchi complici dei suoi delitti e ammazzarli a uno a uno. Come summa dei più eterogenei motivi wellesiani è esemplare: c’è il barocco più sfrenato e il gotico più allucinato, il romanticismo nero inglese e l’espressionismo tedesco. E il consueto repertorio di alta acrobazia stilistica con una memorabile galleria di personaggi. Conosciuto anche come Mr. Arkadin , 1° titolo originale. O. Welles curò anche i costumi e doppiò alcuni degli attori tra cui M. Auer. Fu girata anche una versione spagnola con un altro montatore e qualche attore diverso.
Un vecchio libro che contiene sei storie sul vecchio West apre le sue pagine per trasferirle, una dopo l’altra sullo schermo. Si va da Buster Scruggs pistolero cantante fino a una diligenza stipata di persone dirette passando attraverso impiccagioni e filoni d’oro. I Coen, come è praticamente loro regola, minimizzano. Affermano di aver scritto dei racconti western e di aver poi desiderato di metterli insieme come nei film a episodi degli anni Sessanta italiani. Volevano i migliori registi disponibili e sono lieti che entrambi (cioè loro) abbiano accettato.
Un critico musicale russo, in Italia per ricostruire un episodio della vita del musicista russo Pavel Sasnowskj, incontra a Bagni Vignoni, una località termale presso Siena, un singolare personaggio, chiamato “il matto”, il quale afferma che per pacificare il mondo è necessario attraversare con una candela accesa la piscina di Santa Caterina. Dopo un soggiorno a Roma, dove il matto si dà fuoco in Campidoglio, il critico compie la traversata della piscina con la candela, ma muore d’infarto per l’immane fatica. Ancora un film sul tema, ossessivo per Tarkovskij, del “sacrificio” che è necessario per raggiungere la pace.
Tra una direttrice di scuola e un macellaio nasce un’affettuosa amicizia. Nel frattempo nei dintorni del villaggio viene trovato il corpo di una ragazza uccisa. Poco dopo viene scoperto un altro cadavere. È sospettato il macellaio. Uno Chabrol controllato senza essere evasivo, limpido senza essere superficiale, trasparente senza essere freddo. Un film angoscioso che è anche _ come La bella e la bestia _ una struggente storia d’amore.
Marilyn Rexroth nutre un’autentica vocazione per il denaro che accumula collezionando, come figurine, mariti miliardari.Tra lei e i sogni a più zeri, lui, Miles Massey avvocato brillante di Beverly Hills, che prima la incastra, poi la sposa, poi le soccombe e poi la redime,si redime, irrimediabilmente. Tornano i fratelli Coen con una commedia feroce a camminare lungo i marciapiedi assolati “degli angeli”;a raccontare,questa volta, co-sceneggiati e all’ombra di ville iperboliche, della classe alto-borghese, quella annoiata intorno ad asettiche piscine “depurate” da poco opportuni amanti. Si avviano così le pratiche di divorzio,si organizzano cinicamente strategie post-matrimoniali dove gli avvocati drammatizzano, proprio come in un film dei Coen, persone e azioni con l’unico scopo di vincere, vincere e vincere. Massey, allora, costruisce davvero la sua perfettissima storia, anticipando successi e sconfitte del cuore,il suo, fino al romanticissimo epilogo sulle labbra Marilyn. Incredibile macchina spettacolare, quella dei Coen, governata dall’armonia totale degli elementi che dentro al loro cinema si corrispondono come una melodia. Una melodia che si avvia dalla “parola”, quella scritta,autoriale e definitiva dei Coen, quella che gli attori, pure superlativi, devono solo “dire” perchè al pubblico della prima come dell’ultima fila,arrivi nella sua “intollerabile” perfezione.
In una Russia messa a ferro e fuoco dalle invasioni asiatiche e sconvolta dalle lotte di potere tra piccoli potentati, il monaco Rublëv (1360 ca.-1430), pittore di icone, passa attraverso 9 capitoli (Il volo, Il buffone, Teofane il Greco, La passione secondo Andrej, La festa, Il giudizio universale, La scorreria, Il silenzio, La campana) che compongono un vasto affresco del Medioevo russo. Nel 1° è assente, in altri fa da spettatore o “passeggero”, nell’ultimo _ una delle più alte pagine filmiche di epica del lavoro umano _ è in disparte, testimone silenzioso. È uno dei grandi film degli anni ’60 (completato nel 1967, presentato a Cannes nel 1969, distribuito in URSS nel 1972 e in Italia nel 1975) il capolavoro di Tarkovskij è il più maturo risultato, in campo cinematografico, della cultura del dissenso nell’URSS. Epilogo a colori, 10 minuti di documentario sulla pittura di Rublëv: l’autore scompare, rimane l’opera.
Finita la guerra civile, il maggiore Dundee, fanatico ufficiale nordista, assolda un gruppo di disertori e prigionieri sudisti per inseguire in territorio messicano gli Apaches, autori di massacri impuniti, ma si scontra con le truppe francesi. Benché gravemente mutilato (10 sequenze scorciate) e rimaneggiato al montaggio dalla Columbia e dall’infame produttore Jerry Bresler, è un film capitale nella storia del western moderno e di grande influenza sui suoi sviluppi (su Sergio Leone, per esempio), specialmente nella rappresentazione di una violenza integrale che coinvolge inseguiti e inseguitori, carcerieri e prigionieri, annullando ogni linea di separazione. L’azione fa perno sulla figura tragica di Dundee, un po’ eroe fanatico, un po’ angelo caduto in preda a una furia di (auto)distruzione, ma la scissione della personalità è anche degli altri personaggi.
Da un romanzo di Horton Foote. Detenuto evaso raggiunge casa. Sua moglie e lo sceriffo locale cercano di convincerlo a costituirsi, ma i suoi concittadini gli danno una caccia feroce. Nonostante una certa enfasi melodrammatica e le interferenze del produttore Spiegel sul lavoro di A. Penn (soprattutto nel montaggio), il film, scritto da Lillian Hellman, è un dramma civile che taglia come un rasoio con un Brando massiccio, opaco e masochista e un Redford ancora in bozzolo.
Da un celebre racconto di H.G. Wells, lo specialista di genere Haskin dirige un film che la Paramount avrebbe fortemente voluto affidare ad Orson Welles come debutto, dopo la clamorosa farsa radiofonica che questi fece e che è ricordata con lo stesso nome di “war of the worlds”. Forte di un budget di tutto rispetto, in gran parte utilizzato per la cura degli effetti speciali, La guerra dei mondi racconta di un tranquillo paesino della provincia americana, dove un giorno si schianta un meteorite. Lo sgomento della popolazione è ancora più grande quando si scopre che non si tratta di un corpo celeste bensì di un’astronave aliena. E lo sgomento si fa panico quando gli extraterrestri palesano la loro ferma volontà di conquistare il mondo.
A dodici militari condannati a morte per reati gravi viene offerta una possibilità di salvezza: partecipare ad una pericolosa missione nella Francia occupata dai tedeschi al comando del maggiore Reisman. Quest’ultimo riesce a fare di quel gruppo di delinquenti una pattuglia legata da un vero spirito di corpo, e la missione riesce: gli ufficiali tedeschi saltano in aria insieme al castello che li ospitava. Ma della pattuglia di disperati soltanto uno torna a casa.
Megan Turner, appena arruolata nella polizia di New York, si trova di fronte a un evento che le cambierà la vita. Al suo primo turno di pattuglia notturna vede un rapinatore armato di pistola in azione alla cassa di un supermarket. Megan gli intima di gettare l’arma e poi, dinanzi alla reazione violenta dell’uomo, lo uccide. La pistola del rapinatore è però intanto finita a terra e un cliente del supermarket, non visto, se ne impadronisce. Megan viene temporaneamente sospesa dal servizio per eccesso di difesa e incontra Eugene Hunt, un operatore di Borsa, che è proprio colui che aveva rubato la pistola. Eugene, mentre cerca di sedurla, ha avviato un’attività di serial killer utilizzando proiettili su cui ha inciso il nome “Megan Turner”. Il ‘gioco’ di Hunt proseguirà fino al punto di rivelare alla donna il suo comportamento e,al contempo, impedendole qualsiasi azione perché mancano prove a suo carico. Su Megan e su chi le sta vicino incombe ormai il rischio di morire. Dopo la realtà liminare dei ‘non morti’ erranti di Il buio si avvicina Kathryn Bigelow passa ad esplorare quella di un molto più realistico ‘vampiro’ metropolitano. Una persona ‘normale’ come l’agente di Borsa Eugene Hunt che, dinanzi alla possibilità inattesa data dal possesso di un’arma, sente scatenare in sé le pulsioni omicide covate probabilmente da sempre. Ma questo alla Bigelow non è sufficiente. Ha bisogno di metterlo a confronto con qualcuno (una donna) che ha fortemente ‘voluto’ essere dalla parte della Legge per superare traumi che la sua famiglia ancora vive dolorosamente (suo padre percuote la madre che non si ribella). L’attrazione tra Megan e Eugene è forte. L’uno la desidera sadicamente, l’altra non ha superato quell”ingenuità’ che nella splendida sequenza iniziale le ha fatto mettere a repentaglio la vita. È un mondo in cui nulla è come appare quello che interessa alla regista. Un mondo che finisce con il coincidere con l’ambiguità del reale che, proprio in quanto tale, merita di essere esplorata e narrata.
Il poliziotto Azuma (Kitano) della Squadra Omicidi è un duro: indisciplinato verso i superiori, rude con le reclute che scozzona senza seguire il regolamento, poco rispettoso delle forme nel praticare il mestiere.Quando scopre che un superiore ha le mani in pasta nel traffico di droga, dà fuori di testa. Dalla sceneggiatura di un poliziesco come tanti, Kitano, al suo esordio di regista, cava un film anomalo, stilisticamente eccitante sino alla provocazione, imperniato su una figura di “perdente”, che viola una delle regole principali del codice hollywoodiano del cinema d’azione. Non aveva tutti i torti Variety a definirlo: “Il tempo lento e l’aspetto arty lo rendono adatto agli appuntamenti con i festival”.
Amori e disavventure di un giovane parrucchiere per signora, scatenato dongiovanni. All’inizio si giostra un terzetto di belle donne (una attrice, una signora del bel mondo, la moglie di un miliardario) e gli va bene finché il caso (o meglio una combinazione d’affari, il tentativo da parte del parrucchiere di farsi aprire un negozio dal miliardario) non le fa incontrare.
Dal romanzo di Rona Jaffe. Tre giovani provinciali carine trovano lavoro e perdono le penne della loro virtù negli sterilizzati uffici di una casa editrice di New York. Sottoprodotto del fortunatissimo I peccatori di Peyton , non tralascia alcun effetto per raggiungere i suoi scopi melodrammatici. H. Lange è la migliore della compagnia. La Crawford sopra le righe.
Poliziotto di S. Francisco è morbosamente attratto da una scrittrice sospettata di un omicidio commesso durante un amplesso. Thriller erotico in forma di giallo ( whodunit ) di imbecillità costernante e di svergognata disonestà nell’accanita ricerca dello choc. Verhoeven e il suo strapagato sceneggiatore Joe Eszterhas (3 milioni di dollari!) mimetizzano i loro intenti mercantili, e la misoginia, con pomposi alibi tematici. Celeberrima la scena dell’interrogatorio in cui la fatale Stone, senza slip, accavalla le gambe. È tutto dire. M. Douglas, spesso con le brache abbassate, sembra la copia carbone del padre Kirk nelle sue peggiori interpretazioni.
Un film di Raoul Walsh. Con Gary Cooper, Mari Aldon, Richard Webb Titolo originale Distant Drums. Western, durata 101 min. – USA 1951. MYMONETRO Tamburi lontani valutazione media: 3,40 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Verso il 1840, nelle paludi della Florida si celano i terribili indiani seminole, riforniti di armi dai contrabbandieri spagnoli. A distruggere la base di questi ultimi viene inviato un ufficiale di marina e un contingente di volontari comandati da un capitano che continua a rimpiangere la moglie indiana uccisa dai soldati ubriachi. La missione ha successo e il capitano trova una nuova moglie.
Ottobre 1994. Heather Donahue, Joshua Leonard e Michael Williams, tre studenti dell’Università di Cinema di Montgomery, si avventurano nei boschi attorno alla cittadina di Burkittsville (in passato chiamata Blair), nel Maryland, per girare un documentario sulla leggenda della strega di Blair. Armati di telecamera sedici millimetri in bianco e nero, destinata al racconto della storia, e di una piccola videocamera otto millimetri a colori, per le riprese di una sorta di backstage, i tre si mettono al lavoro, spinti dall’entusiasmo della ragazza, decisa a girare il suo primo film. Il soggetto è succulento: Elly Kedward, accusata di stregoneria, viene cacciata dalla città di Blair alla fine del 1700. Dopo la sua fuga nei boschi, molti ragazzini scompaiono in quelle stesse foreste e, negli anni ’40, un serial killer uccide sette bambini e sostiene di averlo fatto su ordine del fantasma della strega. Dopo aver intervistato alcuni abitanti della cittadina, i tre aspiranti filmmakers si spingono nel bosco alla ricerca della chiave del mistero. Ma ben presto si perdono, pedinati da un’oscura e terrificante presenza. Prima ancora che il film inizi, siamo avvisati della scomparsa nei boschi dei tre ragazzi protagonisti. Un caso rimasto insoluto. Le uniche tracce lasciate dai tre sono contenute nel materiale audiovisivo da loro girato. Il film che segue è il frutto di un semplice montaggio in ordine cronologico di questo materiale ritrovato: il diario di viaggio di tre giovani, prima eccitati, poi sempre più spaventati. La tensione sale progressivamente, sino al climax finale. Ma il film sta tutto qui: nello stato emotivo ansiogeno dei protagonisti persi nel bosco, accentuato solo da qualche sinistro rumore in fuori campo. Se lo spettatore sta al gioco e si lascia coinvolgere, l’angoscia assale anche lui. Altrimenti l’involontario effetto del ridicolo è dietro ogni angolo e sequenza, in questo film che non è un film, dato che non c’è un’azione o un intreccio, né un copione apparente. E tutto sembra lasciato all’improvvisazione dei tre attori esordienti, abbastanza credibili con la loro interpretazione più che naturalistica, eccezion fatta per la capogruppo Heather Donahue, un po’ troppo forzata. I due registi, Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez, anche loro esordienti, pensano bene di scomparire e, con l’espediente del falso documentario e della conseguente artigianalità delle riprese, con fotografia sporca e macchina a mano, confezionano un prodotto privo di stile e senza alcun interesse cinematografico, neppure per i cultori del genere horror, con cui questo film ha poco a che fare. Neppure è nuova la trovata del mockumentary (che presenta eventi fittizi come se fossero reali) applicato all’horror, dato che ci aveva già pensato nel 1979 con Cannibal Holocaust l’italiano Ruggero Deodato, che aveva persino preso in considerazione l’ipotesi di una denuncia per plagio. Il colpo di genio, quello che fa parlare del mistero della strega di Blair a più di un decennio dalla sua uscita in sala, sta nell’operazione di marketing congegnata per il lancio di un film low budget e straindipendente. Un evento mediatico partito dalla rete, con il lancio di un sito internet che racconta nei dettagli il caso dei tre ragazzi scomparsi, presentandolo come un fatto spaventosamente reale. Il passaparola generato online e il successivo battage pubblicitario hanno fatto il resto, portando un film costato 60 mila dollari a incassarne 240 milioni nel mondo. Un fenomeno simile, però, può riuscire soltanto una volta. Non a caso, l’interesse intorno alla saga della strega di Blair si è esaurito già alla seconda puntata (BW2 – Il libro segreto delle streghe). Della terza, solo progettata, non è rimasta neppure l’ombra e dei due furbi e corteggiati registi non si è più sentito parlare.
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