Titolo originale Kidou senshi Gundam 0083: Zeon no zankouTitolo ingleseMobile Suit Gundam 0083: The Last Blitz of Zeon Titolo Kanji機動戦士ガンダム0083 -ジオンの残光-Nazionalità Giappone Categoria Film Genere AzioneFantascienzaGuerraMecha Anno 1992
Anno 0083 dell’Universal Century. Nella base australiana di Torrington è atterrata una nave spaziale di classe Pegasus. La corazzata federale si chiama Albion, e sotto il comando del capitano Synaps trasporta due nuovi modelli di Mobile Suit Gundam. Insieme all’amico e collega Keith il giovane pilota collaudatore Kou Uraki si intrufola nella nave per ammirare in anteprima i Gundam appena approdati alla base, ma proprio in quel momento, il maggiore Gato, un superstite del principato di Zeon, riesce a sottrarre alla Federazione Terrestre una delle due unità. Kou sale sul Gundam Numero 1 per impedirgli, anche se invano, di fuggire con l’MS federale… Inizia così l’avventura di Kou Uraki e dei tre piloti veterani che con lui dovranno recuperare il Mobile Suit caduto nelle mani nemiche… (trama tratta dal sito dell’editore italiano, Dynit).
Un film di Takashi Imanishi. Titolo originale Mobile Suit Gundam – The Origin I. Animazione, Ratings: Kids+13, durata 65 min. – Giappone 2015. – Nexo Digital uscita martedì 23giugno 2015. MYMONETRO Mobile Suit Gundam – The Origin I valutazione media: 3,00 su 1 recensione.
0068 U.C. (Universal Century): la Repubblica Autonoma di Munzo è in subbuglio per l’attentato al suo capo, Zeon Deikun, ordito dalla famiglia rivale Zabi. Questi ultimi assumono il controllo politico e militare della nazione, offrendosi di ospitare gli eredi Deikun per potersene in realtà sbarazzare agevolmente. Il generale Ramba Ral, tuttavia, organizza un piano che permetta ai piccoli Casval e Artesia di fuggire sulla Terra e salvarsi. Il mito di Mobile Suit Gundam, serie meglio nota in Italia come Gundam, si dimostra intramontabile a 35 anni di distanza dalla nascita dell’anime. Una ricorrenza che la Sunrise ha voluto celebrare con una tetralogia di quattro film sulle origini della saga, un gigantesco prequel che si concentra sugli avvenimenti antecedenti rispetto alla serie classica.Il primo episodio, sottotitolato Blue-Eyed Casval, è dedicato all’infanzia di Casval, destinato a diventare un giorno Char Aznable, campione di Zeon e arcirivale di Amuro Ray. Poco più di un’ora sufficiente a far emergere i tratti della personalità del biondo antagonista già noti ai fan: senso del comando, orgoglio e coraggio. Il piccolo Casval ne dà dimostrazione in un duello impari con Kicylia Zabi, membro della famiglia che ha congiurato contro suo padre, e poi guidando un Guntank in una scena che prefigura gli epici scontri tra robot che caratterizzano la serie. Mobile Suit Gundam – Le Origini I si rivolge soprattutto ai fan e a soddisfare la loro curiosità sulla genesi di una delle serie più amate (Gundam fu culto assoluto nell’epoca d’oro dei cartoni animati della Tv italiana anni Ottanta), mettendo in scena immagini fin qui solo sognate, come la morte del padre di Char (sottolineata da uno zoom improvviso nella soggettiva di Casval). Si presta difficilmente, invece, a un interesse del neofita per l’episodio autonomo in sé, specie considerata l’agguerrita concorrenza in materia di oggi. Ma il taglio “umanista” di Gundam, con un’attenzione particolare dedicata ai risvolti psicologici dei personaggi e ai loro vizi e virtù, è conservata intatta, anche grazie alla scelta felice di affidare la sceneggiatura all’autore originario Yasuhiko Yoshikazu.
Un ex detenuto accetta di lavorare come camionista nonostante le difficoltà e i rischi dell’impiego. Il suo capo è prepotente e violento e diventa immediatamente un acerrimo rivale. Dopo un incidente che ha messo in pericolo la vita di un amico, il protagonista propone all’avversario una gara al volante.
L’avido uomo d’affari (sfortunati) Kenny Wells impara che non è tutto oro ciò che luccica: nel 1993 è convinto di aver trovato una miniera d’oro in Indonesia. Segue quotazione in borsa. Ma è una frode: i primi campioni trovati erano solo ricoperti di polvere d’oro. Il film si ispira a uno scandalo finanziario realmente accaduto, ma la sceneggiatura (Patrick Massett e John Zinman, veterani della TV) è esagerata e compiaciuta, raccontata con i toni di un film d’avventura e le rifiniture epiche del sogno americano. Il regista ce la mette tutta, ma vuole imitare (seriamente) The Wolf of Wall Street (2014), e lo fa male. La trasformazione fisica di McConaughey per questo ruolo è fin troppo morbosa e non supportata da una scrittura drammatica del personaggio.
In servizio attivo a Londra, una coppia di sicari è spedita dal boss in vacanza forzata a Bruges, in attesa di ordini. Nell’ultimo lavoro, il più giovane dei due ha ucciso per sbaglio un bambino. Nell’antica città fiamminga, mentre il veterano s’innamora della bellezza gotica della città, dei canali e del celebre Groeninge Museum, come capita a qualsiasi turista colto, il giovane la odia e smania, tormentato anche dai sensi di colpa. La telefonata che aspettano è un’atroce sorpresa. Oltre agli incanti di Bruges, Venezia del Nord, che diventa, grazie al regista, un vero personaggio, esistono altri motivi per non perdere quest’opera prima trascurata dal pubblico e sottovalutata dai critici: l’intelligente contaminazione dei toni e dei generi, la pittoresca galleria delle figure minori, il brio degli interpreti, la capacità di scavo psicologico dei due protagonisti.
“La verginità di una donna è un orzaiolo nell’occhio del diavolo” così recita un detto irlandese e quando il diavolo ne soffre, a causa della giovane e bella Britt, decide di mandare sulla terra Don Giovanni assieme al fidato scudiero Pablo. La missione è semplice: sedurre la fanciulla, figlia di un pastore protestante, facendo così scomparire l’affezione oculare. Ma, al contrario delle aspettative, la figlia è meno arrendevole della madre (che interessa a Pablo) e l’amore è in agguato. Bergman passa con consumata abilità dal rigore narrativo e stilistico de La fontana della vergine a questo divertissement che nasconde tra le pieghe, come sempre, più di una riflessione di livello alto. A partire da quella sull’amore di cui Don Giovanni, che non ci ha mai creduto, si trova a dire: “Ho veduto l’amore da vicino. È un dono eccezionalmente raro. I mortali capaci di amare sono in numero ristretto e la loro sofferenza è grande. Pare che essi siano vicini a Dio, che siano il suo specchio e riflettano la sua luce e rendano la vita sopportabile agli altri che brancolano nel buio. Forse sarà così … Io ho scelto un’altra strada che si chiama disprezzo e indifferenza”. In una sola battuta di questo film, diviso teatralmente in tre atti, il regista riesce a condensare una riflessione sul sentimento inserendovi un collegamento con il Dio costantemente cercato. Ovviamente è ben lungi da romanticismi svenevoli e ci ricorda (lui ormai giunto al quarto matrimonio) che il talamo coniugale è il luogo più adatto per spegnere l’amore. Lo fa con la riservata sposa del pastore che non resiste alle lusinghe di Pablo che soddisfa il diavolo più del suo padrone, costretto ad agire in tempi diversi da quelli in cui era abituato ad intervenire e destinato ad essere al contempo sconfitto da Britt ricevendo però da essa il dono (non contraccambiato) del sentimento d’amore. La fanciulla corrisponderà non ai canoni imposti dallo stereotipo sulla donna scandinava ma alle caratteristiche descritte al seduttore prima dell’inizio della sua impresa. Basterà però la promessa matrimoniale perché anche per lei scatti l’ora della bugia. I finali dei film bergmaniani, anche i più apparentemente consolatori, hanno sempre un po’ di veleno nella coda.
Peter Egerman è un uomo benvoluto da tutti, figlio di un’attrice molto nota, marito di Katarina, una donna conosciuta per la sua efficienza. Peter Egerman uccide una prostituta. Da questo momento il film si suddivide in capitoli di breve durata preceduti da una didascalia. Apprendiamo così che quattordici giorni prima dell’omicidio Peter aveva chiesto aiuto a uno psichiatra perché provava da due anni il desiderio di uccidere la consorte. Lo psichiatra ne parlerà con la donna cercando di avere un rapporto sessuale con lei che però lo respinge proprio perché sente il marito sempre dentro di sé. La scoperta della personalità di Peter si dipana su un percorso temporale che non si sviluppa in modo cronologicamente continuo. Considerevoli problemi con il fisco svedese avevano spinto Bergman a un esilio produttivo che aveva trovato il suo porto d’approdo in Germania. Un mondo di marionette è l’ultimo film realizzato con attori tedeschi e successivo alla riconciliazione del regista con la propria patria. Bergman ricordava: “Alcuni anni fa scrissi un soggetto non del tutto riuscito che s’intitolava ‘Amore senza amanti’. Era diventato un panorama della vita in Germania occidentale, credo fosse pervaso dalla rabbia impotente del prigioniero, la cosa certa è che non era giusto. Da questo gigante morto di morte naturale tagliai una fetta di carne che divenne un film per la televisione con il titolo Un mondo di marionette Non piacque, ma è uno dei miei film migliori, opinione questa condivisa da pochi”. Da un punto di vista estetico il film rappresenta una sorta di ‘ribellione’ al colore al quale vengono affidati solo l’apertura e la chiusura. Il ritrovato bianco e nero per Bergman sembra favorire una maggiore possibilità di lavorare sull’interiorità. Se la lettura psicoanalitica può risultare in materia la più facile da esercitare su un testo costruito come questo non va però dimenticato che al regista continua ad essere quasi connaturale l’indagine sulle dinamiche di ciò che definiamo amore coniugale. Come tante altre coppie bergmaniane Peter e Katarina vivono l’inferno di una relazione in cui il sentimento non riesce ad abbattere le mura dell’egoismo individuale. Il delitto che sta alla base dell’indagine acquisisce così una dimensione simbolica che diviene cartina al tornasole di tutte le paure del protagonista. Non a caso lo psichiatra, quando lo invita a ricoverarsi presso la sua clinica, gli dice: “Siamo fenomenali nell’annullare la personalità degli altri. Se non c’è l’Io non c’è paura”.
Nell’anno col più alto tasso di crimini della storia di New York, Abel Morales, immigrato diventato onestamente imprenditore di successo nel commercio del petrolio, rischia di perdere tutto: proprio quando acquista un nuovo impianto di distribuzione, versando un ingente acconto e impegnandosi al saldo entro un mese, le sue autocisterne vengono assalite e svuotate da ignoti malviventi. Un procuratore lo rinvia a giudizio per irregolarità contabili. La banca che lo aveva sempre finanziato gli chiude la linea di credito. Il 3° LM di Chandor, anche sceneggiatore, è un crime drama sociale imperniato su un dilemma morale: rimanere onesti o accettare il malaffare? Non è tutto oro (nero) quel che luccica. Dimentichiamo l’imprenditore calvinista di Max Weber per il quale “honesty is the best policy”. Per Chandor l’onestà non è ormai che un espediente concorrenziale. Ben intonata la fotografia caravaggesca di Bradford Young.
Condannata all’ergastolo, con trent’anni in un carcere di massima sicurezza, una ragazza accetta di entrare in un centro di addestramento per diventare un sicario agli ordini dei servizi segreti francesi. Besson fa un film nero in tutti i sensi dimostrando di saper combinare l’efficienza di un regista hollywoodiano nelle scene d’azione con la sottigliezza di un regista europeo. La Parillaud recita con tutto il corpo su ampio registro. La Moreau appare in 2 brevi scene e lascia il segno. Rifatto a Hollywood con Nome in codice: Nina (1993) e divenuto in seguito una fortunata serie TV.
La giovane Maggie è condannata a morte per l’omicidio di un agente. Dopo una finta esecuzione viene invece addestrata, grazie alla sua particolare aggressività, per diventare una killer professionista. Così da un lato viene introdotta alle tecniche di difesa e di offesa e, al contempo, le vengono insegnate le buone maniere. Il suo primo incarico sarà quello di eliminare un individuo minaccioso insieme alla sua scorta. Ma c’è una trappola che l’attende. Il titolo italiano rimanda con intenti commerciali al film di BessonNikita (e difatti di remake si tratta) ma in The Assassin c’è anche dell’altro. C’è da un lato l’attenzione nel seguire una psicologia che viene progressivamente plasmata per uccidere non più in nome del crimine ma della legge e c’è alla regia un Badham nella sua veste più positiva. Il regista offre un ritmo serrato a una protagonista come Bridget Fonda che riesce a mostrare con raffinatezza (per quanto possibile in un film di azione) come il potere possa trasformare una personalità ai propri fini. Anche se… c’è poi (e non poteva mancare) uno sguardo made in Usa che cerca quanto e più vicino a un possibile happy end. L’Europa è lontana.
Star, adolescente senza stelle in cielo e un padre abusante in terra, trova in Jack, un ragazzo più grande e (in)sicuro di lei, la spinta per andare, lasciandosi dietro una madre assente e due fratellini innocenti. Reclutata per vendere abbonamenti porta a porta, sale sul furgone di Krystal, ‘titolare’ in costume del business e amante incostante di Jack. Lungo le strade del Midwest, tra una sigaretta, una canna e una canzone di Rihanna cantata a squarciagola, Star e Jack si innamorano. Lei ha un sogno, lui un capitale per comprarlo ma il viaggio è ancora lungo e probabilmente non porta da nessuna parte.
Cory Lambert è un cacciatore di predatori nella riserva indiana di Wind River, perduta nell’immensità selvaggia del Wyoming. Sulle tracce di un leone di montagna che attacca il bestiame locale, trova il corpo abusato ed esanime di una giovane donna amerinda. Il crimine prolunga il dolore di Cory che ha perso tre anni prima una figlia in circostanze altrettanto brutali. Per fare chiarezza sul caso, l’FBI invia Jane Banner, una recluta di Las Vegas senza esperienza. Tosta e disposta ad imparare, Jane chiede a Cory di affiancarla nell’indagine. Fortemente legato alla comunità indiana, è l’uomo giusto per aiutarla.
In una città americana, il caporedattore di un giornale appena acquistato dall’editore D. B. Norton, fa licenziare numerosi impiegati per “fare pulizia” di personale. Tra questi c’è Ann Mitchell (Barbara Stanwyck) che, prima di lasciare il posto, fa pubblicare per la sua rubrica la falsa lettera di un disoccupato disperato che minaccia di gettarsi dal palazzo del municipio a mezzanotte della vigilia di Natale. La lettera crea subito scalpore, i centralini del municipio vengono inondati di telefonate da parte di cittadini e datori di lavoro pronti ad “adottare” il misterioso John Doe. Attorno a quest’uomo così determinato nella sua disperazione cresce l’interesse della gente.
Lui è un tassidermista mite, amante dei bambini e degli animali e vorrebbe solo vivere in pace ma la moglie bacchettona e manipolatrice lo fa passare come un uomo crudele e vizioso, rendendogli la vita impossibile fino a quando… Gustosa satira del bigottismo e dell’ìpocrisia della Chiesa in cui de Córdova interpreta un personaggio speculare rispetto a El: nel capolavoro di Buñuel era un marito che ossessionava la moglie con la sua folle gelosia, qui è un brav’uomo martirizzato dalla consorte. Dove vada a parare lo si comprende dal titolo, ma questo non compromette il divertimento.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Da un romanzo di Edna Sherry. Ereditiera di San Francisco e commediografa sposa un attore. Scopre che lui progetta con una ex amante di ucciderla. Decide di escogitare un contro piano, ma avrà abbastanza sangue freddo? Nero di buon artigianato, con una bella colonna sonora di Elmer Bernstein e una suggestiva fotografia di Charles Lang Jr. Entrambi nominati agli Oscar, J. Crawford e J. Palance sono assai efficaci nel rendere con ambiguità la perversità del rapporto tra i loro personaggi, ma anche G. Grahame scava in profondità nel masochismo del suo.
Siamo durante la seconda guerra mondiale, alle prese con la costruzione della bomba atomica da parte di un gruppo di ricercatori, fra i quali il celeberrimo Robert Oppenheimer. Leslie Groves è il generale che conduce l’operazione denominata Progetto Manhattan. Dal regista di Mission e Urla del silenzio,un film un po’ prolisso anche se in parte risulta interessante. Controllata l’interpretazione di Paul Newman.
L’equipaggio della missione Ares 3 sul suolo di Marte si trova nel mezzo di una tempesta che non lascia scampo. Il botanico Watney viene colpito da un detrito: credendolo morto, il comandante Lewis ordina alla squadra di abortire la missione e tornare sulla Terra. Ma Watney è vivo e, mentre cercherà di prolungare il più possibile la sua sopravvivenza sul Pianeta Rosso, la Nasa ricorrerà a ogni stratagemma per provare a riportarlo a casa. Hanno detto che Sopravvissuto – The Martian rimette la “sci” in sci-fi, ovvero pone l’accento sulla “scienza” di fantascienza. E non sono andati lontani dal vero. Ridley Scott, alle prese con uno script non suo – autore il Drew Goddard della scuderia Joss Whedon – e tratto dal meticoloso romanzo di Andy Weir, un ingegnere informatico reinventatosi scrittore, si dimentica di essere il profeta dei futuri distopici di Alien e Blade Runner. E si limita a fare quel che gli riesce meglio, ossia rendere cinematografica materia che tale non è. Concedendo qualcosa al 3D ma il minimo indispensabile alla computer graphics, Scott consegna la sua epica alle riprese in esterni della desolazione marziana. Le passeggiate di Matt Damon sul suolo di Marte, a bordo del suo rover, ricordano tanto le cavalcate fordiane nella Monumental Valley che gli orizzonti infiniti di Lawrence d’Arabia. E non casualmente, visto che quest’ultimo è stato girato in luoghi vicini al deserto della Giordania scelto per The Martian. La visione di Scott e il suo racconto di un’odissea in cui Ulisse e Robinson Crusoe trovano un ideale punto d’incontro procede in parallelo con i teoremi infallibili di Weir, che vede nel suo protagonista l’ingegnere perfetto, un MacGyver di Marte pronto a elaborare modalità di sopravvivenza sempre nuove in un pianeta ostile. Rosso, brullo e indomabile, il quarto pianeta viene privato della allure che lo ha accompagnato in un tutt’altro che brillante passato cinematografico, attraverso l’espediente di ipotetiche civiltà pre-terrestri (Mission to Mars) o alieni belligeranti (La guerra dei mondi). E presentato per ciò che è, un gigantesco e suggestivo ostacolo alla vita. Solo con la forza dello humour da middle-class americana di Damon-Watney e con il pragmatismo della Nasa (collaboratrice e sponsor del film) il racconto regge per la sua lunga durata, avvince e infine porta all’immedesimazione con il protagonista. E pur trattandosi questi, ancora una volta, di un Matt Damon da salvare (Salvate il soldato Ryan) per il bene dell’America e del mondo, lo script spinge il minimo indispensabile sul pedale di un enfatico patriottismo; scegliendo anzi, con un’inattesa svolta narrativa, di ridimensionare il ruolo statunitense di superpotenza infallibile. Il futuro non è mai parso più verosimile di così, divaricando ulteriormente le due storiche branche della fantascienza: da un lato una space opera sempre più assetata di effetti speciali e meraviglie, dall’altro la controparte pseudo-scientifica, con i piedi ben piantati per terra, nonostante gli occhi osservino il cielo. Con buona pace di chi cerca una sua personale terza via, come il Nolan di Interstellar. Resta da domandarsi, visto il palesato intento di promozione a un rilancio dei viaggi aerospaziali della Nasa, se si tratti di uno spot centrato o controproducente. Proprio in virtù della stretta aderenza ai fatti di The Martian, infatti, Marte come meta non è mai parsa meno allettante di così. Omini verdi malvagi con i laser compresi.
Mentre a Itaca Penelope (Mangano) tiene a bada i Proci, attendendo col figlio Telemaco (Interlenghi) il ritorno del marito, Ulisse (Douglas) si sveglia sulla spiaggia dell’isola dei Feaci, incontra Nausicaa (Podestà) e, ritrovata la memoria, rievoca le sue peripezie (Polifemo; le Sirene; la maga Circe). Con una nave messa a sua disposizione dal re Alcinoo (Dumesnil) riparte, approda a Itaca e liquida i Proci con una strage. Dall’Odissea (sec. VIII-VII circa a.C.) di Omero, il film italiano più costoso del dopoguerra, prodotto da Ponti-De Laurentiis per la Lux, con 7 firme (tra cui quelle di F. Brusati, Ennio De Concini, Ben Hecht, Irwin Shaw) in una sceneggiatura abilmente strutturata in flashback con qualche idea notevole (la stessa interprete _ S. Mangano _ per Penelope-Circe; il canto delle sirene con le voci camuffate di Penelope e Telemaco) e ottimi effetti speciali di Eugen Shüfftan.La fotografia è di Harold Rosson. Modellato sulla misura del suo interprete hollywoodiano, l’eroe è atletico e scattante, sprezzante di ogni superstizione, avido di conoscenza, diviso tra la curiosità del mondo e il bisogno di sicurezza, di famiglia. Altri film dal poema omerico: L’Odissea (1911) di Francesco Bertolini e Adolfo Padoan (1925 metri); Odissea (1968), sceneggiato TV in 8 puntate di Franco Rossi, protagonista Bekim Fehmiu. Ne fu fatta un’edizione cinematografica di 106 minuti: Le avventure di Ulisse.
Vecchio sceriffo monocolo è assoldato da giovane proprietaria per catturare l’assassinio del padre. Dal romanzo Un vero uomo per Mattie Ross di Charles Portis, un western consueto in funzione del gigionismo di Wayne che, infatti, ebbe un Oscar. Verboso, godibile quando schiaccia il pedale al grottesco. “Lo sceriffo che ammazza senza preavviso stabilisce una continuità storica tra la bandiera nera di Quantrell e i berretti verdi nel Vietnam” (T. Kezich). Idealmente seguito da Torna il Grinta. Il personaggio del guercio Rooster Cogburn fu ripreso da Warren Oates in un film TV del 1978. Rifatto nel 2010 dai fratelli Coen.
Dopo due contatti (avvistamento, reperimento di tracce) con gli UFO si aspetta il loro arrivo in una zona del Wyoming. Un padre di famiglia, una donna il cui bambino è misteriosamente scomparso e uno scienziato francese stanno all’erta. E l’UFO atterra. La componente tecnica è straordinaria: fotografia di Vilmos Zsigmond (unico premio Oscar su 4 candidature), effetti speciali di Douglas Trumbull, i pupazzi semoventi di Carlo Rambaldi, il più grande set (l’interno di una vecchia aviorimessa per dirigibili) mai usato, la sapiente costruzione drammatica in due tempi affidata alla suspense, tipica del cinema spielberghiano. Ma c’è qualcosa di più: una indubbia carica mitica di timbro junghiano, un discorso sulla pace e l’amicizia con razze extraterrestri. È l’opera di un sognatore per sognatori. Nel 1980 Spielberg mise sul mercato un’edizione di 152 minuti con sequenze all’interno dell’astronave.
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