Il film narra le disavventure di Alice, una donna rimasta vedova con un figlio. Alice cerca un lavoro e nel frattempo si imbatte in una serie di personaggi negativi finché non incontra David. Suo figlio non accetta David e fugge di casa insieme a una sua coetanea. Gli agenti lo ricondurranno a casa e il ragazzo si convincerà dell’affetto di David. Per questo film, che fu diretto da Scorsese dopo MeanStreet, Ellen Burstyn ricevette l’Oscar come migliore attrice protagonista dell’anno.
Tratto da due novelle di Guy De Maupassant, il film racconta di due giovani amici che utilizzano il loro tempo libero per scoprire il mondo delle donne e per approfondire le loro idee politiche; uno dei due giovani morirà per un incidente, proprio quando sta per diventare padre.
Dal dramma di Francis de Croisset, già filmato nel 1938 in Svezia da Gustaf Molander con la giovanissima Ingrid Bergman (Senza volto). Col viso deturpato da una cicatrice procuratale quand’era bambina dal padre ubriaco, una ragazza brucia i suoi giorni dedicandosi al male finché un’operazione di chirurgia plastica la riappacifica con la vita.
Sceneggiato da Paul Schrader e Mardik Martin che si sono ispirati alla sua autobiografia, è la storia del campione mondiale dei pesi medi Jake La Motta, detto “il toro del Bronx” per le furenti capacità di picchiatore, ma soprattutto di incassatore. Conquistò il titolo nel 1949 contro Marcel Cerdan e lo cedette a Ray Sugar Robinson il 14 febbraio 1951. Costato quattordici milioni di dollari e due anni di lavoro, è un violento film sulla violenza, in cui la boxe è un supporto per il ritratto di un uomo eccezionale sul ring, ma esemplare, nella sua normalità, in privato come prodotto avvelenato di una cultura, di un ambiente, di una società. Di questo mondo, fondato sulla violenza, Scorsese suggerisce la dimensione sociale di sfruttamento, mostrandone il funzionamento con acuta finezza. Il miglior film di ambiente pugilistico della storia del cinema. Preparatosi alla parte con un puntiglioso allenamento e aumentando di una trentina di chili, De Niro è sensazionale per la paranoica furia e l’umorismo sardonico con cui s’è calato nel personaggio. Oscar a lui come miglior attore e a Thelma Schoonmaker per il montaggio. La splendida fotografia in bianconero di Michael Chapman, di potenza spettrale, è di una ricchezza cromatica che il colore avrebbe difficilmente raggiunto.
A Sweethaven, villaggio ai bordi del mare, giunge il marinaio Popeye alla ricerca del padre. Lì comanda il misterioso Commodoro e si paga una tassa per tutto mentre il minaccioso Brutus sta per sposare la vezzosa Olivia. Tra Popeye e la fanciulla nasce un’affinità che si consolida quando il marinaio inciampa in un cesto in cui si trova un bambino. Ora Popeye si sente madre di colui che chiama Pisellino la cui sicurezza è affidata a lui e ad Olivia, soprattutto quando il piccolo finirà nelle mani del Commodoro. Nel 1929 Elzie Crisler Segar creava Popeye (da noi trasformato in Braccio di Ferro) che successivamente Dave e Max Fleischer avrebbero portato sullo schermo. Il produttore Robert Evans ha l’idea di trasformare il personaggio disegnato in un eroe in carne ed ossa sulla scia del successo di Superman e Flash Gordon. Lo script viene affidato al corrosivo Jules Feiffer che non trova l’interesse degli interpellati Arthur Penn e Mike Nichols. Si arriva così a Robert Altman che vede nel soggetto la possibilità di fare della popolazione di Sweethaven una metafora della società americana ormai bloccata in avidi atteggiamenti stereotipati in cui irrompe l’ingenua vitalità del marinaio con un occhio solo.
In quattro racconti, quattro registi di scuole e di esperienze diverse, riflettono sui condizionamenti dell’uomo nella società contemporanea e sull’angoscia di oggi e di domani. “Il mondo nuovo”, l’episodio firmato da Godard (per l’interpretazione di Jean-Marc Bory e Alexandra Stewart, e con musiche di Beethoven) prospetta un mondo scampato alle radiazioni di un’atomica nel quale gli uomini, svuotati di ogni qualità, esprimono in un linguaggio allusivo la loro disperazione esistenziale. L’olocausto immaginato dal regista francese non reca tracce visibili sulla pelle dell’uomo, ma ne rivela il vuoto interiore e l’impossibilità del sentimento: la società immaginata da Godard è, in definitiva, il ritratto esasperato di quella moderna e la città nella quale si svolge la breve vicenda è Parigi, assunta (come sarà anche in Alphaville) a simbolo di metropoli del futuro. L’episodio è girato in puro stile “nouvelle vague”, con voce fuori campo e inquadrature dal taglio documentaristico. Il titolo con il quale la pellicola è più conosciuta è composto dalle prime sillabe dei cognomi dei registi. Gli altri episodi sono: “Illibatezza” (di Rossellini), “Il pollo ruspante” (di Gregoretti), “La ricotta” (di Pasolini).
Cathryn mentre è a casa da sola e lavora a un suo racconto fantasy riceva la telefonata di una donna misteriosa che le insinua il dubbio che il marito la tradisca. Quando lui torna nega tutto e le suggerisce una vacanza nella loro casa di campagna. Mentre sono insieme lei lo vede trasformarsi in René l’amante di un tempo morto in un incidente aereo. Le apparizioni continuano anche in provincia: la donna vede anche un proprio doppio e deve sottrarsi alle avances troppo plateali del suo amante attuale che ha con sé la figlia adolescente Susannah. La tragedia è in agguato. Robert Altman realizza il suo film più sperimentale affrontando nuovamente un tema a cui tornerà a dedicarsi anche in futuro: i tormenti psicologici di una donna. Susannah York aderisce con grande intensità al personaggio schizofrenico di Cathryn (le verrà assegnato il premio come migliore attrice al Festival di Cannes) offrendo anche al regista un proprio racconto sugli Unicorni che farà da interpunzione straniante alla vicenda. Ciò che però Atman vuole indagare non è tanto una casistica patologica quanto piuttosto lo spazio mentale di una donna che è interiormente minata da sensi di colpa. La sua relazione con il marito è turbata dal suo desiderio di maternità e dalle relazioni con altri uomini che ha cercato, più o meno consapevolmente, allo scopo di diventare madre. Su di lei e su quanto la circonda Altman sperimenta soluzioni linguistiche complesse che coinvolgono sia l’aspetto visivo (zoomate improvvise, sfocature in cerca di dettagli) sia quello acustico (accentuazione di rumori, musica che attinge alle colonne sonore del cinema horror). Affronta poi (con un personaggio che si chiama come l’attrice protagonista ed è l’unico altro appartenente al sesso femminile) la presenza di una adolescenza impegnata precocemente a cercare la giusta collocazione ai pezzi del puzzle della propria vita.
Protagonista è una famiglia americana composta da Nick, capocantiere, sua moglie Mabel e tre bambini. La donna ha un esaurimento nervoso. Ricoverata in una clinica neuropsichiatrica, ne esce dopo sei mesi. L’impatto con la vita “fuori” è molto forte e Mabel non ce la farebbe se non fosse per i tre bambini, che la sostengono e la proteggono col loro affetto.
Dal romanzo (1971) di William Peter Blatty: a Georgetown Regan MacNeil, figlia dodicenne di un’attrice divorziata, è posseduta dal demonio. Il giovane padre Karras e un anziano sacerdote esperto in esorcismi tentano di salvarla. Potente, discusso film dell’orrore per adulti che ebbe, oltre a un immenso successo, grande influenza sugli sviluppi del genere. La critica ne denunciò generalmente la dimensione truculenta, l’uso e l’abuso degli effetti speciali (di Dick Smith e Rick Baker: efficaci e innovatori), la frequente stupidità della sceneggiatura (peraltro premiata con 1 Oscar a W.P. Blatty e un altro per il suono), ma c’è un punto indiscutibile: è un film che mette paura. E un fenomeno interessante: non si rimane soltanto spaventati dalle mostruose metamorfosi della bambina, ma si simpatizza, quasi ci si identifica con lei. La voce italiana di L. Blair è di Laura Betti.
I subita in Dominion sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Dave Buznik è un bravo ragazzo, abitualmente mite e pacato. La sua unica colpa è quella di aver perso la pazienza durante un volo aereo. Condannato dal giudice per tentata aggressione, Dave è costretto a sottoporsi ad una terapia comportamentale per un migliore autocontrollo. Purtroppo a sorvegliare i suoi prgressi viene chiamato Buddy Rydell (Jack Nicholson), un terapeuta dai metodi alquanto bizzarri e decisamente inadatto al compito… Da quando Woody Allen ha dato l’esempio, Hollywood si è resa conto delle potenzialità comiche del rapporto psicanalista – paziente. L’ennesima variazione sul tema non è purtroppo tra le più riuscite. Non basta mettere insieme due mostri sacri (almeno per il mercato USA) per ottenere un buon risultato. Specialmente se ai due viene data briglia sciolta per nascondere le carenze di uno script anonimo. Tra continui (e a volte insopportabili)gigioneggiamenti e situazioni per lo più risapute, Terapia d’urto è il classico esempio – ahimè sempre più frequente – di commedia brillante che perde lo smalto appena dopo l’inizio: e 106 minuti diventano lunghi. Cameo per John McEnroe, John Turturro, Woody Harrelson e per l’ex sindaco di NY Rudolph Giuliani.
L’imprenditore Bauman, dopo aver seguito una ragazza misteriosa trovata svenuta sulla spiaggia, viene assalito da un sicario ma riesce ad ucciderlo. Solo che il cadavere scompare misteriosamente. Bauman si reca allora in una villa dove scampa a una nuova aggressione. Si convince che il fratello voglia ucciderlo.
Berlino, 1923. Un trapezista americano ebreo viene sospettato di aver ucciso il fratello e molte altre persone. Dopo una serie di avvenimenti scopre che un medico è responsabile di alcuni brutali esperimenti eseguiti sugli esseri umani, e ne provoca il suicidio.
Frank Goode è un ex operaio in pensione e ora vedovo. I suoi quattro figli, che avrebbero dovuto raggiungerlo e per i quali sta preparando una festosa accoglienza, accampando le più diverse motivazioni si defilano. Frank, nonostante il parere contrario del medico, decide che, se loro non possono venire, andrà lui a trovarli facendo loro una sorpresa. Si troverà così a scoprire che le vite di coloro ai quali pensava di avere dato il meglio non sono rosee come gli avevano fatto credere. La regola secondo la quale i remake (soprattutto quelli made in Usa) sono inferiori agli originali abbisogna ogni tanto di un’eccezione. Questo Stanno tutti bene di Kirk Jones rappresenta l’eccezione. Pur seguendo piuttosto fedelmente la sceneggiatura del film di Tornatore, Jones riesce a offrirne una rilettura attuale. Grazie a un De Niro che sfugge periodicamente (e per nostra fortuna) alle commedie ‘alimentari’ che il suo agente gli propone per tirare fuori il suo lato migliore che non è stato indebolito dallo scorrere degli anni. Perché qui la tendenza degli script americani a ‘spiegare’ assume valore quando all’inizio ci viene presentata la vita metodica di Frank, ex operaio con un milione di cavi messi in sicurezza alle spalle. Quel milione di cavi che gli ha consentito di pensare che i suoi figli avrebbero vissuto un American Dream diverso dal suo. Il Frank di De Niro esprime con gli occhi, che stanno diventando sempre più delle fessure, una convinzione che ha costruito con fatica dentro di sé sentendo però nel profondo di stare mentendo a se stesso. La convinzione è quella di aver fatto il suo dovere di padre spingendo i figli a dare sempre di più e, soprattutto, a tenere il fiato sul collo a David il più refrattario e, al contempo, quello che si sentiva più in dovere di realizzare le aspettative paterne. Non si dimentica Mastroianni vedendolo in azione. Ci si accorge invece che quando una sceneggiatura valida viene rivisitata con rispetto e con un cast all’altezza (Rockwell e Barrymore in particolare) non si è fatta solo un’operazione commerciale ma le si è restituita la vitalità. Anche con quella molteplicità di finali che possono costituire il momento più commovente ma anche il più debole. Che qui viene abilmente marcato dall’ambiguità inserendolo nel contesto del Natale, ampiamente retoricizzato dal cinema americano.
Sì, vendetta! Il terzo episodio della trilogia della vendetta di Park Chan-wook mette nelle mani di una donna il compito di chiudere il cerchio, aperto con Mr Vendetta e continuato da Old Boy. Una donna, perchè solo l’umanità femminile può trasformare la violenza in espiazione. Geum-ja è una ragazza che ha trascorso in prigione tredici anni della propria vita per avere procurato la morte di un bambino di sei anni. Accusata ingiustamente, la protagonista, scontata la pena, si vuole vendicare con il vero autore del misfatto. Strutturato con repentini flashback che ricostruiscono il passato delle compagne di carcere, e formalmente rigoroso nella scelta delle inquadrature, Lady Vendetta è incisivo fin dai titoli di testa (un bianco accecante fa da “carta” su cui vengono disegnate rose rosse) e cresce in un climax ascendente e drammatico. È l’alternanza di toni a sorprendere. Ironia, grottesco, dramma a tinte forti, violenza si fondono fino ad apparire stridenti a noi occidentali. Ma la violenza di Park Chan-wook non è mai gratuita e qui si mette al servizio dell’espiazione. Geum-ja (Lee Young-ae) è una sorta di angelo che si è perso e che deve ritrovare la retta via. E solamente la consapevolezza di assurgere verso la pace interiore potrebbe riaccendere la luce e restituire il candore, ora coperto da una coltre di dolore. La sequenza che si svolge nel finale all’interno di una scuola, esprime tutta la visionarietà, anche tecnica del regista che esplora le anime con movimenti di macchina e inquadrature fisse, esprimendo ora un dolore profondissimo, ora un momento di black humour. La fotografia segue questo “viaggio” e le tonalità più aperte e pastello vengono prima sostituite da colori lividi, per poi tornare ai bianchi. Sensibilmente meno riuscito dei primi suoi due film della trilogia per qualche sfilacciatura nella sceneggiatura, Lady Vendetta ha il merito di colpire e di lasciare un segno profondo, quasi indelebile, nella mente dello spettatore.
La vita di Molière, prima avvocato, poi capocomico, autore di commedie immortali, i molti amori e infine la morte durante una replica de Il malato immaginario.
Ho aggiunto io i subita ma è stato piuttosto complicato perchè erano fuori sincro. Fatemi sapere se tutto ok. I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Lattuada alle prime armi prende spunto dal romanzo di Gabriele D’Annunzio per narrare le vicende di Giovanni Episcopo che, travolto dagli avvenimenti, sposa per caso Ginevra e si rovina la vita. Il responsabile delle sue disgrazie è Giulio che, tornato dall’estero, vorrebbe portargli via la pur malvagia moglie;
Un film di George Cukor. Con Norma Shearer, Joan Crawford, Rosalind Russel, Mary Boland, Paulette Goddard. Titolo originale The Women. Commedia, b/n durata 132′ min. – USA 1939. MYMONETRO Donne valutazione media: 3,75 su 15 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Da una commedia (1936) di Clare Boothe Luce: arrivata a Reno (Nevada) per ottenere il divorzio dal marito fedifrago, la ricca Mary Haines fa la conoscenza di diverse signore che vi albergano per la stessa ragione. Da una commedia salottiera, riscritta da due altre donne (Anita Loos, Jane Martin), un film corale piccante, elegante (nella versione originale una sfilata di moda di 5′ a colori) e cattivo che toglie la pelle sorridendo. Soprattutto una parata di attrici dirette al meglio dal più raffinato regista di donne di Hollywood. 135 donne sullo schermo, e nemmeno un uomo. Rifatto con Sesso Debole (1956) di David Miller.
Ancora una volta Antonio Sabato nella parte d’un gangster milanese d’origine meridionale che, immischiato in una trama d’inganni, perde il controllo sul mercato della prostituzione
Lavardin va in Bretagna per indagare sull’assassinio di uno scrittore cattolico, trovato morto, e nudo, sulla spiaggia. La sua figliastra quattordicenne gli fornisce la pista giusta. Come in Una morte di troppo (e con lo stesso attore, il bravo Poiret), Chabrol fa passare attraverso lo schema dell’inchiesta poliziesca il suo disprezzo per la borghesia e il gusto per la buona tavola. Intrigante.
Francesca è una liceale diciassettenne di buona famiglia. Assistiamo a una sua giornata in cui non entra in orario a scuola per andare a far visita a Enrico, un architetto che ha vent’anni più di lei e l’ha conosciuta bambina. Rientrata in classe assisterà a un conflitto sull’amore tra studentesse e poi trascorrerà il resto del tempo in parte con l’amico Renato nel lussuoso palazzo di una affascinante quanto algida principessa e poi in un antico edificio alla cui ristrutturazione sta lavorando Enrico. Le cronache di un tempo avrebbero iniziato così: “Correva l’anno…”. È un incipit appropriato per questo film perché ‘correva l’anno 1960’ e Alberto Lattuada si mostrava nettamente in anticipo sui tempi dell’evoluzione della morale sessuale senza per questo rinunciare a una lettura problematica di quanto stava per verificarsi nel tessuto sociale. Lo sguardo in macchina finale di Francesca rimanda a un altro ‘storico’ sguardo in macchina: quello dell’Antoine Doinel de I quattrocento colpi di Truffaut che lo precede di un anno sugli schermi. Certo il contesto socio-culturale dei due film si colloca a distanze siderali ma in entrambi gli sguardi c’è il bisogno di risposte che gli adulti non hanno saputo dare, c’è l’incertezza di un futuro pieno di incognite.
È questo che i censori dell’epoca non compresero fermandosi solo alla superficie di una scena iniziale (il risveglio dopo un sogno erotico) brutalmente mutilata nonché sull’epilogo. Ricorda Lattuada: “La censura fece un massacro perché la ragazza non si pentiva di aver perduto la verginità e non piangeva, non andava dal prete, non andava dalla madre e neanche da un’amica. Si guardava in uno specchio e nasceva sul suo volto un sorriso leggerissimo, pieno d’innocenza, con la coscienza che da quel momento cominciava per lei l’altra problematica, quella dell’amore: ora la partita diventava molto più grossa, era quella dei sentimenti.” La debuttante Catherine Spaak offriva il suo giovane corpo, nascosto da un babydoll e con un solo nudo a mezzo busto di schiena, a una riflessione che, strutturandosi narrativamente nell’arco di un giorno, mostrava un microcosmo vuoto come la casa in cui Francesca abita con la famiglia. Se le figure femminili brillano per la loro vuota apparenza (protagonista esclusa) sono i maschi a risultare psicologicamente irrisolti. Enrico passa dal sottile piacere della seduzione di una vergine all’innamoramento che non sarà corrisposto mentre Renato ha la bellezza del Jean Sorel giovane e una sfrontatezza dietro cui resta ben poco da scoprire. Rimane il fratello Eddy, testimone frastornato della fondamentale fase di passaggio attraversata dalla sorella. Entrambi sono cresciuti in un mondo apparentemente protetto da sommovimenti che però stanno cominciando a presentarsi e Francesca mostra la consapevolezza necessaria per affrontarli da donna libera.
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