Black Mirror è una serie televisivabritannica, prodotta da Charlie Brooker per Endemol Shine Group. Si tratta di una serie antologica, in quanto scenari e personaggi sono diversi in ogni episodio. La fiction, ambientata nel futuro (talvolta nel passato), ma in realtà ispirata al mondo di oggi, è incentrata sui problemi di attualità e sulle sfide poste dall’introduzione di nuove tecnologie, in particolare nel campo dei media (il titolo infatti si riferisce allo schermo nero di ogni televisore, computer o smartphone).
Ogni episodio della serie è autoconclusivo, e il filo conduttore di ognuno è l’incedere e il progredire delle nuove tecnologie, l’assuefazione a esse e i loro effetti collaterali. Vengono immaginate e ricreate diverse situazioni del mondo moderno o futuro in cui una nuova invenzione tecnologica o un’idea paradossale ma realistica ha, in qualche modo, reso instabili la società e i sentimenti umani.
Metafora della civiltà televisiva: il direttore di un’emittente privata capta per caso un programma a base di torture e assassini. Affascinato e disgustato al tempo stesso, decide di vederci chiaro e scopre che il fantomatico conduttore della mostruosa trasmissione è morto da tempo e che il programma viene trasmesso da un’emittente pirata il cui proprietario vuole, grazie alla potenza della tv, dominare il mondo e sconvolgere le coscienze, trasformando gli uomini in orribili macchine da distruzione.
Alla guida del mitico VII Cavalleggeri in versione high-tech, con i cavalli sostituiti dagli elicotteri, gravato dall’ombra del generale Custer, il colonnello Hal Moore (Gibson) affronta l’esercito nordvietnamita nella battaglia della Drang Valley (14/11/1965) che segnò l’inizio della guerra del Vietnam. Evita a stento il bis di Little Big Horn e incassa una vittoria di Pirro. Tratto da un libro dello stesso Moore e di Joseph L. Galloway, sceneggiato e diretto con mestiere da Wallace, ha al suo attivo alcune riprese aeree, il parallelismo tra infuriare della battaglia e vita quotidiana delle mogli rimaste a casa e soprattutto la rappresentazione, seppur parziale, del punto di vista e dei sentimenti del nemico, cui spetta anche l’onore dell’ultima, veritiera parola. È però zavorrato da una tripla retorica: patriottica, familiare, religiosa.
Nel 1996, una squadra di calcio femminile liceale del New Jersey viaggia verso Seattle per un torneo nazionale. Mentre volano sul Canada, l’aereo precipita nella regione selvaggia dell’Ontario e i superstiti vengono abbandonati a loro stessi per diciannove mesi. La serie racconta la loro discesa nella follia e traccia i tentativi per ricomporre le loro vite nel 2021.
Asterix nacque in seguito a lunghe discussioni fra i suoi due creatori, il disegnatore Uderzo e lo sceneggiatore Goscinny: il primo infatti avrebbe voluto fare del proprio personaggio un eroe classico, forte, valoroso e nerboruto, simile a quello del precedente lavoro della coppia “Oumpah-Pah” mentre lo scrittore optava per un antieroe dal fisico minuto e di dimensioni ridotte e più abile con il cervello che con la forza bruta.[4] La versione finale del personaggio, pur mediando fra questi estremi, risente maggiormente della visione di Goscinny, mentre Obelix è più simile alle idee di Uderzo.[4]
Il nome Asterix deriva dal francese “asterisque” (asterisco) nella sua doppia valenza di “piccola stella” ma anche di “rimando a fondo pagina”, con l’aggiunta del suffisso -ix che nel fumetto caratterizza i nomi di praticamente tutti i Galli e derivato dal nome celtico del condottiero Vercingetorige (Vercingetorix).[4][5] Goscinny ha affermato scherzosamente che il nome, iniziando per “A”, sarebbe stato un vantaggio per quando il suo personaggio sarebbe stato elencato nelle enciclopedie.
Un devastante terremoto investe Seoul come un’ondata di roccia. Rimane in piedi un solo condominio, dove vivono il dipendente pubblico Min-sun e la sua compagna infermiera Myung-hwa. I residenti dell’edificio si ritrovano presto alle porte disperati in cerca di asilo e, dopo un’iniziale accoglienza, decidono di ricacciarli a vivere tra le macerie. Guidati da Yeong-tak, istituiscono il principio che il condominio è solo per i residenti e tutti devono aiutare al recupero e alla distribuzione di risorse, razziate dalle rovine circostanti. La comunità trova un suo equilibrio, ma questo viene destabilizzato dal ritorno al proprio appartamento una giovane residente, che ha viaggiato nella devastazione circostante ed è disgustata – come pure anche Myung-hwa – dall’osceno divario tra chi vive in modo relativamente agiato è chi è precipitato nella più nera miseria.
Nella versione h265 i subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Godzilla (in giapponese ゴジラ?, Gojira) è un kaijū (“mostro radioattivo”) del cinema giapponese, protagonista di una lunga serie di film a partire da Godzilla (1954). La sua fama si è gradualmente espansa anche all’estero, tanto da divenire uno dei più famosi mostri del mondo e della storia del cinemadi fantascienza e fantastico, apparendo in videogiochi, romanzi, fumetti, serie televisive, ventinove film prodotti dalla Toho e tre film di Hollywood. Il personaggio viene spesso nominato “Il Re dei Mostri”, un nomignolo coniato in Godzilla, King of the Monsters!, la versione americana del film del 1954.
Godzilla è raffigurato come un enorme mostro marino preistorico, risvegliato e potenziato dalle radiazioni nucleari. Concepito quando il ricordo dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki e l’incidente del Daigo Fukuryu Maru era ancora vivido, il personaggio fu inteso come una metafora per le armi nucleari. Più la serie progrediva, più certi film raffigurarono Godzilla come un eroe, mentre altri mantenevano la caratterizzazione originale di un mostro distruttivo. Con la fine della guerra fredda, vari film girati dopo il 1984 fecero di Godzilla il simbolo non più del potere distruttivo delle armi nucleari, ma d’una presunta insufficiente presa di coscienza del passato militarista e imperialista del Giappone e del pericolo dei disastri naturali.
Filmografia
Esistono 33 film ufficiali appartenenti alla saga di Godzilla prodotti dalla giapponese Toho, suddivisi in quattro ere: Showa, Heisei, Millennium e Reiwa. A essi si aggiungono il remake americano del 1998 e un film, del 2014, prodotto dalla Legendary Pictures e Warner Bros. A dicembre del 2014, la Toho ha confermato che avrebbe prodotto un nuovo lungometraggio, uscito nel 2016, chiamato Shin Gojira in Giappone, mentre il titolo in lingua inglese e italiana del film, inizialmente annunciato come Godzilla Resurgence, è Shin Godzilla. Nell’agosto del 2016 è stato inoltre annunciato un film animato su Godzilla, Gojira: Kaijū Wakusei (in italiano Godzilla: Il pianeta dei mostri), diretto da Kobun Shizuno e Hiroyuki Seshita, sceneggiato da Gen Urobuchi e prodotto dalla Toho e dalla Polygon Pictures, uscito nel 2017.
Alcune note su questa release: come potete immaginarvi è stato un lavoro molto lungo e complicato, ho cercato di trovare le versioni migliori per ogni episodio rippando quasi tutti i film sia per abbassare i Gb sia per aggiungere i subita (spesso traducendoli con google. Spero non ci siano troppe imprecisioni).
Se dovesse mancare qualcosa o dovessero esserci degli errori scrivetemi nei commenti.
Cheyenne è stato una rockstar nel passato. All’età di 50 anni si veste e si trucca come quando saliva sul palcoscenico e vive agiatamente, grazie alle royalties, con la moglie Jane a Dublino. La morte del padre, con il quale non aveva più alcun rapporto, lo spinge a tornare a New York.Scopre così che l’uomo aveva un’ossessione: vendicarsi per un’umiliazione subita in campo di concentramento. Cheyenne decide di proseguire la ricerca dal punto in cui il genitore è stato costretto ad abbandonarla e inizia un viaggio attraverso gli Stati Uniti.
La maschera che Michael Myers indossa per coprire le fattezze del suo volto, è stata creata ispirandosi al volto del capitano Kirk di Star Trek.
1963. Nella città di Haddonfield, Illinois, il ragazzino di 6 anni, Michael M. Myers (Michael Myers), nato il 19 ottobre 1957, durante la notte di Halloween uccide la sorella maggiore che gli stava facendo da baby-sitter. Da allora Michael rimane in un ospedale psichiatrico sotto l’osservazione dello psicologo Samuel Loomis. Passati quindici anni Michael evade nella notte di Halloween e ritorna ad Haddonfield.
L’incompetente ispettore della polizia francese Clouseau si mette sulle piste di un famoso ladro di gioielli, chiamato “Il fantasma”, che è a caccia del favoloso diamante “Pantera rosa”. Molto divertente e brioso, una specie di pochade dei nostri tempi, elegante e spiritosa, con il famoso motivo musicale di Henry Mancini. “Situato al crocevia di due tradizioni tanto differenti come lo slapstick e la sophisticated comedy… non ne rappresenta un innocuo mélange o una semplice addizione. È un confronto polemico di generi quello che percorre il film… una collisione nel corso della quale il portatore vitale dello slapstick (Clouseau), irrompendo disastrosamente nella scenografia di una commedia sofisticata, ne procura l’affondamento” (R. Vaccino). Seguito da Uno sparo nel buio.
Un operativo americano senza nome, che lavora con la CIA, partecipa a un’azione in Ucraina, durante un attentato terroristico in un teatro dell’opera. Scoprirà che questa operazione era anche un test per mettere alla prova non solo la sua fedeltà all’Agenzia, ma pure la sua propensione a rischiare la vita per salvare persone innocenti. Viene così introdotto in un programma misterioso e compartimentalizzato, dove i partecipanti sanno solo quello che devono sapere. Lo addestrano quindi ad affrontare agenti che si muovono nel tempo e hanno pallottole che sparano a ritroso – ossia rientrano nella pistola – senza però spiegargli quale sia il loro obiettivo, ma solo che dall’esito delle sue operazioni dipende la sopravvivenza del mondo intero.
Band of Brothers – Fratelli al fronte (Band of Brothers) è una miniserie televisivastatunitense in 10 puntate prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks con la partecipazione della rete HBO nel 2001. La miniserie è stata ispirata dal libro Banda di fratelli (Band of Brothers: E Company, 506th Regiment, 101st Airborne from Normandy to Hitler’s Eagle’s Nest) del 1992 dello storico Stephen Ambrose, che ha anche partecipato come consulente. Può essere considerata a tutti gli effetti come uno spin-off del film Salvate il soldato Ryan che aveva Spielberg come regista e Hanks come protagonista
Finalmente in arrivo, dopo un parto piuttosto travagliato, l’adattamento di “Masters of the Air: America’s Bomber Boys Who Fought the Air War Against Nazi Germany”, best seller di Donald L. Miller di cui da quasi un decennio si vocifera la realizzazione. Inizialmente prevista da HBO, è stata poi Apple TV + ad accaparrarsi la miniserie prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks che ricostruirà le azioni dell’Ottava Forza Aerea dell’Esercito degli Stati Uniti, il battaglione americano che più soffrì nei combattimenti contro i nazisti. La miniserie vanta un cast importante: da Austin Butler, noto per la sua interpretazione di Elvis nell’ultimo film di Baz Luhrmann, a Barry Keoghan (Dunkirk). A questi si aggiungono due figli d’arte: Sawyer Spielberg e Rafferty Law (figlio di Jude Law). La serie è considerata come il terzo capitolo di un progetto narrativo sulla lotta armata tra le Forze Alleate e l’Asse, guidato da Spielberg e Hanks, che ha già dato alla luce le miniserie Band of Brothers (2001) e The Pacific (2010).
Negli anni ’70 dell’Ottocento lo sceriffo di Hadleyville sposa una quacquera e dà le dimissioni, deciso a partire, ma cambia idea quando apprende che con il treno di mezzogiorno arriverà un bandito, da lui arrestato per omicidio, che vuole regolare i conti con l’aiuto di tre complici. Abbandonato da tutti, affronta da solo gli aggressori. Raccontato in tempo reale con una ingegneria narrativa che ha il suo culmine nella sparatoria finale, è una lezione di etica civile in forma di western e soffre di un certo schematismo. Prodotto da Stanley Kramer, scritto da Carl Foreman (intellettuale di sinistra finito sulla lista nera negli anni del maccartismo), ispirato al racconto The Tin Star di John W. Cunningham, valse a Cooper il 2° Oscar della sua carriera. Altre 3 statuette: montaggio (Elmo Williams, Harry Gerstad), musica (Dimitri Tiomkin), canzone del titolo (Tiomkin, N. Washington), cantata da Tex Ritter. Circola in TV colorizzato, a scempio dello splendido bianconero del grande Floyd Crosby.
Morgan ha pianificato sei stagioni da dieci episodi ciascuno per coprire tutta la vita della regina Elisabetta, con l’intenzione di cambiare il cast principale ogni due stagioni. Claire Foy interpreta la protagonista nei primi anni del suo regno, affiancata da Matt Smith nei panni del principe Filippo e Vanessa Kirby nel ruolo della principessa Margaret. La serie è girata agli Elstree Studios nell’Hertfordshire, oltre che in varie location nel Regno Unito.
The Crown racconta la storia della regina Elisabetta II dal suo matrimonio nel 1947 ai giorni nostri. La prima stagione copre gli anni che vanno dal 1947, anno del matrimonio tra Elisabetta e Filippo di Edimburgo fino allo scoppio della crisi di Suez nel 1956. La seconda stagione coprirà un arco temporale di nove anni, fino al 1964.
Serie veramente ben fatta, ho visto le prime quattro stagioni e mi sono piaciute molto.
Vari esponenti della controcultura giovanile di sinistra vengono scelti, letteralmente, come capro espiatorio per la violenta repressione delle proteste avvenute durante la convention democratica di Chicago del 1968. Con loro viene incredibilmente accusato anche Bobby Seale, co-fondatore del movimento delle Pantere Nere, che a Chicago era stato solo per quattro ore quel giorno. Grazie alle testimonianze di un gran numero di infiltrati nella protesta, si cerca di pilotare il processo verso la condanna, ma il giudice è così di parte e propenso a bizzarre decisioni da sollevare sempre più dubbi sulla regolarità del processo.
C’era bisogno di un Babbo Natale veramente bastardo, da chiamare mocciosi i bambini che siedono simpaticamente sulle sue ginocchia esprimendo desideri di regali festosi? La risposta è si. Il film prodotto dai Coen Brothers fa ridere cinicamente, con le sue volgarità gratuite e il suo tasso alcolico da coma etilico. Willie è il Santa Claus in questione, accompagnato da un simpatico nanetto di colore vestito da folletto. Entrambi trascorrono l’anno in attesa del mese di dicembre, in cui vestendosi da festa, assoldati dal department store del caso, divertono a modo loro i bambini che accorrono a frotte, per poi svuotare, la notte della vigilia, la cassaforte con il malloppo. Nell’anno in corso, Willie è sempre ubriaco, e il suo ruolo da Babbo che cammina a zig-zag, illuminato solamente da un bambino timido e grassottello che lo perseguita, insospettisce il gestore del negozio (un imbolsito John Ritter, pace all’anima sua) e il responsabile della sicurezza. Il colpo questa volta non è così semplice. Caustico e irriverente nei dialoghi, con un Billy Bob Thornton perfetto, alcolista come nella vita, Babbo bastardo, o meglio Bad Santa, non sarà ricordato come il film dell’anno, ma è un perfetto antagonista dei film buonisti in sala a Natale. Non vi preoccupate, la dolcezza è garantita dal ragazzino monoespressivo che con i suoi rotolini di grasso, riesce perfino a conquistare un uomo che desidererebbe un figlio a forma di bottiglia di Bourbon.
Edit 16/4/2024 sostituita versione 576p con 1080p.
L’unico film da vedere a Natale, altro che una poltrona per due..:-)
In un umile appartamento vive una piccola comunità di persone, che sembra unita da legami di parentela. Così non è, nonostante la presenza di una “nonna” e di una coppia, formata dall’operaio edile Osamu e da Nobuyo, dipendente di una lavanderia. Quando Osamu trova per strada una bambina che sembra abbandonata dai genitori, decide di accoglierla in casa.
La famiglia, per definizione, non si sceglie. O forse la vera famiglia è proprio quella che si ha la rara facoltà di scegliere. Libero arbitrio parentale: un tema niente affatto nuovo nel cinema di Kore-eda Hirokazu, dallo scambio di figli di Father and Son alla sorellanza estesa di Little Sister.
Ma Un affare di famiglia percorre solo in apparenza binari antichi, nascondendo una differente declinazione della materia, che guarda al sociale come l’autore non faceva dai tempi di Nessuno lo sa. In un’opera brutalmente separata in due atti, che lavora molto sul dialogo con lo spettatore. Il primo segmento sembra esaudire appieno le aspettative di quest’ultimo, introducendolo a un gruppo di ladruncoli che, per interesse prima e per affetto poi, si ritrova a festeggiare un colpo, simulando di avere dei rapporti effettivi di parentela. Tutto sembra procedere nella direzione più attesa, sino alla svolta narrativa che riapre il vaso di Pandora e rimette tutto in discussione. “Buoni”, “cattivi”, giusto e sbagliato, diventano concetti ribaltati sullo spettatore e sui suoi dubbi, con una padronanza della narrazione – già intravista nel “rashomoniano” The Third Murder – che guarda al relativismo di Kurosawa Akira, ancor più che al consueto termine di paragone di Ozu.
Kore-eda è ormai talmente padrone della propria poetica, elaborata attraverso una lunga e pregevole filmografia, da poterne disporre a piacimento, rivoltandola come un guanto per offrire nuovi punti di vista, nuove ricerche di verità.
Il conflitto tra legge morale e legge sociale trasforma i toni quasi da commedia della rappresentazione della famiglia fittizia in un dramma colorato di nero, che colpisce come una sferzata, dopo aver aperto il cuore al sentimento. Lo scontro tra legge e natura raggiunge il suo apice nell’epilogo di Un affare di famiglia, dimostrando l’invincibilità della prima – che ostruisce la costruzione di un modello alternativo – ma ribadendo con forza le ragioni della seconda.
I modelli Carl e Yaya, dopo aver discusso di denaro una sera al ristorante, vengono invitati ad una crociera di lusso, tra milionari soli e accompagnati di varie provenienze e anziani e gentili fabbricanti d’armi. Ma la sera della cena col capitano una terribile mareggiata getta ospiti e equipaggio nel caos più totale, e i due bellissimi si ritrovano spiaggiati su un’isola, senza essere in grado di procurarsi aiuto né cibo.
Better Call Saul è una serie televisivastatunitense ideata da Vince Gilligan e Peter Gould. È lo spin-off di Breaking Bad, ed è incentrata sull’avvocato di Walter White, Saul Goodman, interpretato da Bob Odenkirk. Il primo episodio è andato in onda l’8 febbraio 2015 su AMC, risultando la première col più alto indice d’ascolto di sempre per le TV via cavo[1] Omaha, Nebraska: due anni dopo i fatti narrati in Breaking Bad, Saul Goodman lavora come panettiere, sotto falsa identità, in un centro commerciale. Tormentato dal rischio di essere riconosciuto trascorre una vita piuttosto tranquilla, passando le sere a seguire notiziari, vedere film e le sue vecchie pubblicità registrate in videocassetta, che gli rievocano i tempi passati. La storia si sposta nel passato, quando Saul usava ancora il suo nome legale, James McGill, e cercava in tutti i modi di affermarsi come avvocato penalista.
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