Dal romanzo omonimo (1973) di James G. Ballard. Ossessionato dagli incidenti d’auto, Vaughan esplora le possibilità di un soddisfacente rapporto erotico tra il pericolo, la macchina e il corpo umano, rimodellandone la sessualità attraverso la tecnologia. James Ballard e sua moglie Catherine imparano da lui, come fa Helen, rimasta vedova dopo un incidente automobilistico. Variazione futuribile sul connubio tra sesso e morte, il libro di Ballard, “1° romanzo pornografico basato sulla tecnologia”, non poteva non stimolare un regista che fa dal 1966 un cinema dell’horror biologico, fondato sul polimorfismo della sessualità e sulla trasformazione del corpo attraverso le macchine. Frutto di un’inconfondibile cifra stilistica e di un immedicabile pessimismo, Crash celebra la morte del sentimento e allunga la lista dei film catastrofici del Novecento al suo epilogo. Forse è già un film del 3° millennio.
In Germania, a Wisborg, nel 1838, Thomas Hutter, novello sposo della bellissima Ellen, viene inviato dall’agenzia immobiliare per cui lavora, in una remota residenza dei Carpazi. Appena arrivato nella regione è tormentato da incubi e assiste a barbariche pratiche locali, inoltre a portarlo nel castello del conte Orlock arriva una carrozza misteriosamente senza cocchiere. Il conte pretende che lui firmi un contratto in una lingua antica e incomprensibile. Solo troppo tardi Hutter ne scopre la natura di non-morto ma, incapace di contrastarlo, si rifugia nella propria camera. Quando la creatura lascia il maniero per la città, per avvicinarsi a Ellen dalla quale è ossessionato già dall’adolescenza di lei, Hutter rischierà la vita pur di fuggire. Nel mentre Orlock ha scatenato una pestilenza a Wisborg, che gli permette di agire indisturbato. Darà a Ellen tre giorni di tempo per cedere alla sua mortale corte.
Remake dell’omonimo capolavoro di Murnau del 1922, Nosferatu – già rifatto da Herzog avvicinandolo però al romanticismo del Dracula di Stoker – il film di Eggers torna alla variante più animalesca del vampiro, rileggendone il mito in una chiava sottilmente femminista.
A prima vista potrebbe sembrare che Ellen sia la causa stessa dell’arrivo della mortifera presenza in città perché, come vediamo nel prologo e come poi viene ribadito dallo stesso Nosferatu, è stato il suo desiderio a risvegliare il non-morto e attirarlo a Wisburg. D’altra parte quel desiderio non è che il riemergere di una repressione sociale, di qualcosa che viene costantemente negato e punito. Persino quando Ellen manifesta evidenti problemi il dottor Sievers, che pure è un personaggio con diversi tratti positivi, non può esimersi dal consigliare un corsetto più stretto. Quella che può allora sembrare un contraddizione inconciliabile tra la natura di sirena e di santa di Ellen, è in realtà lo specchio di una femminilità in sé positiva e potente, tanto da sconfiggere il mostro, ma afflitta dalla condizione che la società impone. Del resto il tema era questo anche nel film d’esordio di Eggers, The Witch: anche se là il finale andava in una direzione diversa, la scaturigine di un pericolo femmineo era nella condizione femminile.
Servissero altri esempi basterebbe dire che se pur Ellen aveva sognato il vampiro durante la pubertà, entrando in contatto con lui, quegli incubi erano poi tornati sotto controllo e il pericolo ritorna solo quando suo marito decide di ignorarla e lasciarla a casa – va detto che è un uomo affettuoso e lo farà controvoglia, a sua volta vittima di condizioni sociali che cerca di migliorare. C’è poi anche una prospettiva formale molto chiara nel film: il desiderio è invincibile quando confinato nell’ombra, nella notte, quando dunque viene costretto in una sfera repressa, mentre è solo accettandolo e portandolo alla luce che cessa di essere un pericolo. Una lettura che viene rinforzata dal personaggio di Willem Dafoe, corrispettivo del Van Helsing di Bram Stoker ma piegato verso un esoterismo più visionario. Questi dice a Ellen che in altri tempi sarebbe stata una sacerdotessa di Iside, una figura venerabile per le sue doti spirituali e non obbligata a restare a casa a figliare.
Un film di Werner Herzog. Con Klaus Kinski, Bruno Ganz, Isabelle Adjani, Jacques Dufilho Titolo originale Nosferatu, Phantom der Nacht. Drammatico, durata 107′ min. – Francia, Germania 1978. – VM 14 – MYMONETRO Nosferatu il principe della notte valutazione media: 4,24 su 16 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Dal romanzo (1897) di Bram Stoker. Jonathan Harker parte per la Transilvania per trattare un affare col conte Dracula. Riportato in vita, Nosferatu semina la peste in Olanda, ma Lucy _ la moglie di Jonathan _ lo sconfigge sacrificando la sua vita. Omaggio al capolavoro muto (1922) di Murnau, non è un film dell’orrore né del terrore: raggiunge il fantastico con le immagini della realtà e per virtù di stile, con l’uso della luce. Del suo eroe, incarnazione del Male, Herzog sottolinea la profonda, insondabile tristezza; della sua triplice qualità di Morto Redivivo, Stregone ed Entità Diabolica privilegia la prima. Leggerlo come una metafora sul Male e sulla Paura che, ieri (Hitler) come oggi, abitano la Germania (e l’Europa) sembra una forzatura. Un Kinski insolitamente sobrio e una sonnambolica, esangue Adjani.
Siamo nel 1922, il cinema allora, oltre ad un’ancor immatura consacrazione, possedeva quel merito di cui gode ciò che per primo riesce ad esplorare, e talvolta superare, gli argini e i limiti della sperimentazione. Il compito più difficile e apprezzato di alcuni registi del periodo, è stato indubbiamente quello di aver rapprersentato visioni e idee prima d’allora presenti solo in letteratura. In un asssurdo antropomorfismo cinematografico, potremmo affermare che in quegli anni la settima arte, attraversava pressappoco il periodo dell’infanzia, fase che, come per l’uomo, segna e caratterizza notevolmente la propria personalità e l’intera vita futura. Allo stesso modo, questo film segnerà e caratterizzerà molte produzioni successive, e non di meno, saprà imprimersi nella mente d’ogni spettatore. Ispirato al romanzo “Dracula” di Bram Stoker, il regista attraversò non pochi problemi legali. Variò infatti nomi, titolo e luoghi, tuttavia fu egualmente costretto a distruggere ogni copia. Per fortuna, clandestinamente Murnau ne conservò una copia, permettendo alla pellicola di sopravvivere fino ai nostri giorni. La storia racconta di Hutter, giovane impiegato immobiliare, inviato presso il conte Orlok, affinchè permetta l’acquisto di una casa da parte di questi. Lungo il viaggio, Hutter, apprende dalla popolazione locale l’esistenza del famoso vampiro Nosferatu.
Raggiunto il suo cliente, già dai primi giorni l’impiegato realizza una terrificante verità: dietro la figura del conte si cela in realtà quella del famigerato vampiro. Fuggito dal castello, Hutter ritorna dala moglie Ellen, turbata durante la sua assenza da continui presagi notturni. La maledizione di Nosferatu tutttavia si abbatte sullo stesso Hutter e sulla popolazione . Il conte, spostatosi anch’esso dal castello, prende possesso della sua nuova dimora, e silenziosamente ogni notte scruta e spia la moglie dell’impiegato, reso ormai debole e malato. Sarà Ellen ,sacrificando se stessa, a salvare il paese dalla pestilenza e dalla presenza malefica del conte Orlok. Di carattere profondamente psicanalitico, la pellicola si discosta da tutte le altre opere di natura espressionista. Simbolica la scelta del regista di rappresentare spazi aperti e luoghi che, seppur vasti, appaiono comunque immersi in un’atmosfera cupa e visionaria. Peculiare scelta di Murnau, è l’utilizzo di effetti speciali, ombrosi e spettrali sensazionalismi che riescono ad aumentare la dimensione occulta della pellicola. Celebri alcune scene, come l’immagine spettrale della foresta “in negativo” attraversata dal giovane Hutter, o il movimento della carrozza che procede a balzi. Il film, complesso ed elaborato, è ricco di simboli e metafore, diverse inoltre possono essere le diverse interpretazioni e chiavi di lettura. Indubbiamente, la pellicola rappresenta una profonda immersione nel mondo dell’occultismo, trascendendo e spaziando su figure, immagini e temi che rappresentano l’uomo e la sua esistenza. Sequenze e fotografie anacronistiche, forse a qualcuno potranno risultare attempate e ridicolmente minimaliste, ma meritano osservazione e acuta analisi.Sinteticamente una sola parola: Storia.
Bella, ricca e sofisticata porta lo scompiglio nella vita di un torero che per lei trascura moglie e corrida. Poi lei si stanca. Lui, disperato, cerca di riconquistarla. 2ª versione del romanzo (1908) di Vicente Blasco Ibáñez (dopo quella con Rodolfo Valentino del 1922). È il film che segnò il successo di R. Hayworth in un’indimenticabile interpretazione. Brillante regia, fotografia di Ernest Palmer e Ray Rennahan ispirata alla pittura spagnola che vinse un Oscar. Rifatto nel 1989 come Ossessione d’amore con Sharon Stone.
Ex cronista sportivo si fa coinvolgere in un’impresa disonesta da un’organizzatore per lanciare un pugile con una serie di incontri combinati. Poi si pente. Ultimo film interpretato da H. Bogart (1899-1957) che aveva già firmato per girare The God Shepherd, ma non ebbe il tempo di farlo. Un quadro realistico dell’ambiente pugilistico senza concessioni sentimentali e romantiche. Sceneggiato da Philip Yordan sulla base di un romanzo di Budd Schulberg, liberamente ispirato alla vita di Primo Carnera.
Alla ricerca dell’uccisore della sua fidanzata, cowboy capita al “Mulino d’oro”, quartier generale di una banda capeggiata da un giocatore di professione e dalla cantante Ambra. Girato a basso costo, fondali ed esterni di cartapesta esibiti nella loro falsità, rozzo Technicolor RKO, è uno dei più fascinosi film del Lang americano, impregnato di un romanticismo struggente sui temi della ruota, del destino, della colpa, intorno alla figura mitica di Marlene. Western barocco da mettere vicino a Johnny Guitar (1953). Scritto da Daniel Taradash.
Un uomo d’affari ritorna alla villa dove trascorreva le vacanze estive e incontra una vecchia fiamma. Intanto nasce un idillio tra la figlia di lui e il figlio di lei. Ambo secco. Da un romanzo di Sloan Wilson sceneggiato dal regista per la Warner un melodramma peccaminoso in puro stile hollywoodiano anni ’50 scene di sesso che, almeno in Italia, diedero scandalo e con risvolti di ipocrisia puritana. Ma D. Daves sa dirigere gli attori e la fotografia di Stradling è superba. Musica di Max Steiner.
Mohammad è un bambino che, oltre a frequentare la scuola con cattivi risultati, aiuta il padre, analfabeta e alcolizzato, nell’attività di pescatore di frodo. Nella monotonia di una realtà periferica e statica, nel nord dell’Iran (Mar Caspio), la morte della madre malata è solo un evento qualunque: Mohammad abbassa la testa, il padre singhiozza in campo lungo contro la parete. Dissolvenza. Breve visita dei due al cimitero. La vita continua tale e quale.
Lungometraggio d’esordio di Sohrab Shahid Saless, uno dei primi maestri del cinema iraniano d’autore, formatosi nelle scuole di cinema europee (a Vienna e Parigi) e già realizzatore di alcuni cortometraggi documentari sulla danza, oltre, tra l’altro, al corto sperimentale “Bianco e Nero” prodotto dall’istituto pedagogico Kanun (si può vedere a questo link). Un regista spesso celebrato da colleghi che debuttano nello stesso periodo come Abbas Kiarostami* e Amir Naderi, che nel film “Cut” ha inserito “Un semplice evento” (Yek Etefagh sadeh) tra i quaranta migliori della storia.
In effetti parliamo di un lavoro rigoroso e poetico, annoverabile tra i grandi film iraniani sull’infanzia, con un memorabile protagonista sottoposto a un’educazione scolastica rigida e alla severità paterna. Il regista aveva ottenuto, dall’ente ministeriale per cui lavorava a contratto, finanziamenti per un opera su commissione della durata di venti minuti, ma di sua iniziativa ha portato a compimento un lungometraggio.
Vincitore di due premi a Berlino, “Un semplice evento” non è stato distribuito in Italia, ma nel 2015 è stato proiettato al Cinema Ritrovato di Bologna. La bella scheda curata dal festival include questa significativa annotazione: Il film fu girato a Bandar Shah. Saless, che era un ammiratore di Čechov, scelse il luogo per la sua atmosfera vagamente russa e perché si trattava di un capolinea ferroviario, una sorta di vicolo cieco come le esistenze dei suoi personaggi. A interpretare il ragazzo è Mohammad Zamani, che non era mai stato al cinema in vita sua e sulle cui fragili spalle si intuisce tutto il peso del mondo.
Integrati nel film ci sono dei sottotitoli che ho tradotto da google, lasciateli perdere e usate i subita che trovate nella cartella.
Tunisi, 1942, durante l’occupazione della Wehrmacht tedesca. La musulmana Nour e l’ebrea sefardita Myriam sono cresciute insieme, vicine di casa e amiche. Nour è promessa sposa al cugino Khaled, ma deve rimandare le nozze. Myriam è spinta dalla madre (la stessa regista, ebrea e algerina) a un matrimonio d’interesse con un ricco e maturo medico per aiutare la famiglia, costretta dalle leggi razziali a pagare grosse multe. Il canto accompagna tre momenti del loro rapporto: la canzone delle due che giocano a fare le adulte, il canto femminile di rito durante la preparazione del matrimonio di Myriam e quello finale e disperato delle due, ormai donne, in un rifugio sotterraneo durante un bombardamento, sintesi emotiva dei vari fili del racconto. Come nel precedente La petite Jerusalem (2005), la Albou svolge la sua complessa tematica sul riscatto femminile in una società dominata dal potere maschilista con intensa e sensibile semplicità, non senza qualche schematismo, quasi inevitabile in un simile contesto. Musiche: François-Eudes Chanfrault. Presentato al Torino Film Festival 2008 e al 3° Filmfestival del Garda 2009.
A Nazareth, una vecchia racconta la nascita e i primi 12 anni di suo figlio Jeshua (Gesù). Al pascolo l’adolescente Maria scopre di essere incinta. Anticipate le nozze con Giuseppe, vedovo con due figli, si distingue subito per il rifiuto di seguire le imposizioni patriarcali: convince Giuseppe a far nascere il bambino a Betlemme, lontano dalla famiglia, senza farlo circoncidere. Ereditata dalla madre, la saggezza la porta a ottenere la fiducia dei figliastri, proteggendoli dalle ingiustizie, e a educare Joshua a essere libero e diverso, insegnandogli la differenza tra bene e male senza identificarli con punizioni e paure. Compiuto il 12° anno e introdotto al tempio di Gerusalemme, il figlio comincia a fare domande ai sapienti, stupiti. Ideato da Nicoletta Micheli che l’ha scritto col marito regista e Filippo Kalomenidis, è un film di linea materna (la conoscenza passa di madre in madre) e di impianto antiautoritario, senza miracoli né apparizioni né angeli e contro ogni violenza del potere. Laico e anticlericale, ma non privo del senso del sacro. Girato in Tunisia; i personaggi parlano un dialetto antico di campagna, lontano dall’arabo ufficiale. Prodotto da Colorado/Magda/Rai Cinema. Distribuito da Bolero.
Dave, un 19enne dell’Indiana, sarebbe un adolescente americano qualsiasi se non fosse affetto, sull’onda di una passione per la bicicletta, da un’acuta italofilia. Il suo eroe è Felice Gimondi, il suo gatto si chiama Fellini, mangia cibi italiani, ascolta dischi di Rossini e Donizetti. Con tre amici s’iscrive a una corsa in linea a squadre. Vi partecipa un quartetto italiano della Cinzano che lo sbatte fuori di strada. È il crollo di un mito. Deliziosa e briosa commedia animata da un affiatato gruppo di interpreti, ben serviti da un’ottima sceneggiatura dello iugoslavo Steve Tesich che, su 6 nomination, ebbe l’Oscar e nel 1985 fu consulente di una miniserie TV intitolata L’America in bicicletta .
Ispirandosi al libro omonimo e all’esperienza dello psicologo e scrittore Oliver Sacks, il film vorrebbe dare un quadro umano e psicologico dei disadattati. Siamo alla fine degli anni Sessanta e il dottor Sayer scopre un farmaco in grado di ridare vita concreta a malati cronici. Il caso di un quarantenne in letargo da trent’anni è al centro della storia. La sua parziale ripresa, come quella di altri pazienti, però sarà solo temporanea. Efficace l’interpretazione di Robin Williams, mentre Robert De Niro in quella del malato risulta caricato e le “smorfie” troppo spesso prendono il sopravvento. La regia è piatta, mentre la musica di Randy Newman è suggestiva. Successo di pubblico e candidatura all’Oscar per Robert De Niro.
John, un professore universitario dalla brillante carriera, riceve nel suo studio Carol, una studentessa scontenta, convinta della propria stupidità. L’insegnante cerca di essere comprensivo, di aiutarla; preso da problemi personali (sta per acquistare una nuova casa) finisce col fare qualche affermazione potenzialmente ambigua. è la trasposizione cinematografica del testo teatrale scritto da David Mamet nel 1993, che l’anno seguente ne curerà la regia. Rispetto al testo, il prolifico drammaturgo e celebre sceneggiatore, mantiene la struttura divisa in tre atti; Oleanna è il titolo della canzone universitaria sulle cui note si apre e chiude la pellicola. L’azione, a parte qualche breve momento, si consuma esclusivamente all’interno dello studio del professore. La regia, volutamente asciutta, essenziale, quasi neutra, si concentra sugli attori. Perfetti William H. Macy e Debra Eisenstadt nel dare corpo ai due protagonisti: al professore, assorto nelle proprie urgenze personali tanto da commettere, probabilmente, la leggerezza di dare ascolto alla giovane senza tenere conto di un certo protocollo, e alla studentessa, con quell’iniziale balbettio nell’affannosa ricerca dell’espressione appropriata. Da una conversazione “normale” tra insegnante e allievo, si assiste all’inasprirsi della situazione e alla formulazione, da parte della ragazza, di una vera e propria accusa contro il proprio interlocutore di maschilismo, di razzismo, di molestie sessuali. Il professore è del tutto impotente e lo spettatore non può che osservarne le dinamiche rispetto al ribaltamento del proprio status, allo stravolgimento delle proprie certezze, di quelle sicurezze su cui ha costruito la propria vita: gli affetti, una certa agiatezza, il lavoro (è infatti in attesa dell’assegnazione della cattedra per cui ha lavorato duramente nel corso degli anni). Chi è il manipolatore e chi è manipolato? Nel ruotare intorno al fraintendimento del senso delle parole, Oleanna è un claustrofobico e riuscito gioco al massacro a due, una riflessione straordinariamente attuale sul potere.
Il film è del 1930. È il grande momento della Germania, della Repubblica di Weimar che rappresenta la più alta manifestazione culturale del nostro secolo. Un vero fenomeno, una sorta di Rinascimento del diciannovesimo secolo. Letteratura, teatro, pittura, design, scienze, cinema: Weimar detta nuove regole al mondo. Sono invenzioni fondamentali i cui segni rimangono vivi e attivi anche nel nostro tempo. Una delle parole chiave è “espressionismo”. Un gruppo di autori di lingua tedesca come Lang, Murnau e von Sternberg trova questa nuova forma, mediata dalle arti figurative, importantissima, decisiva. Molti di questi autori, dopo il 1933, con l’avvento di Hitler, abbandoneranno il loro paese portando la corrente in tutto il mondo civile, soprattutto in America. Marlene Dietrich arrivava nel momento più opportuno, a rappresentare qualcosa di ben più vasto di una parte in un film. Catalizzava fisicamente quella tendenza. Ne era, forse inconsapevolmente, una sorta di sintesi. Veniva da ruoli insignificanti e si trovò titolare di un personaggio, Lola Lola, che avrebbe costruito un precedente imprescindibile tramandato per decenni dalla stessa Dietrich e imitato con assoluta trasparenza. I grandi segni erano: cappello a cilindro, calze e giarrettiere nere, boa di piume. Di suo l’attrice ci mise una voce roca e profonda, una carnagione bianchissima di contrasto e due gambe notevoli. L’Angelo azzurro era tratto dal romanzo di Heinrich Mann Il professor Unrath. Protagonista il grande attore tedesco Emil Jannings. Il professore si innamora della cantante e diventa letteralmente suo schiavo. Perde, insieme al lavoro, la stima dei suoi allievi e quella di se stesso. Si rende grottesco e ridicolo. Alla fine muore nell’aula in cui, anni prima, insegnava. Fra le tante imitazioni di Lola Lola una in particolare si fa ricordare: quella di Liza Minnelli in Cabaret. Emigrata in America, insieme al suo scopritore Sternberg, Marlene divenne (come la Garbo e la Bergman) una delle grandi conquistatrici europee di Hollywood, partner dei massimi divi dell’epoca. Quasi sessantenne, mostrava ancore quelle gambe.
Laura ha acquistato con il marito il vecchio orfanotrofio in cui è cresciuta per trasformarlo in un accogliente istituto per bambini bisognosi di cure, come Simon, malato di HIV, che ha adottato e che non ha molto da vivere. Il ragazzino, solitario e introverso, si è creato degli amici immaginari con i quali gioca e che terrorizzano Laura perché lasciano segni e impronte fin troppo reali. Durante la festa d’inaugurazione dell’istituto Simon scompare. Le ricerche dei genitori aiutati poi anche dalla polizia sono vane. Sergio G. Sanchez scrive, Guillermo Del Toro produce e affida la regia – con successo: 25 milioni di euro e 7 Goya (gli Oscar spagnoli) – all’esordiente Bayona che supera i limiti di un horror d’atmosfera. Come? Preferendo l’indagine psicologica, il dolore, l’analisi degli affetti rubati e delle ferite ancora aperte. Ottima interpretazione della Rueda, volto interessante, segnato e preservato da scempi di chirurgia estetica o botulino. Inquietante la presenza della scheletrica Chaplin.
Una banconota da centomila lire falsa, rifilata a un tenente dei carabinieri da una bella ragazza; un famoso falsario che ricompare dal nulla e altrettanto misteriosamente viene trovato morto ammazzato; un attentato che fa saltare in aria la villetta del tenente, precipitando nella più cupa disperazione la prosperosa signora di lui. Questi gli elementi di una commediola all’italiana con un buon cast ma senza idee.
Un giovane ricercatore inventa un siero fluorescente che riporta in vita i morti. Lo usa in modo dissennato. I resuscitati si trasformano in mostri assassini. Da un racconto di H.P. Lovecraft un cocktail trucido e geniale di horror, grottesco, sesso sfrenato e demenziale, gusto della trasgressione e della provocazione, Kitsch delirante. Grosso successo in USA nonostante il divieto ai minori di 18 anni. Scadente colonna sonora di Richard Band. 1° film di S. Gordon.
Goshu è un ragazzino che suona il violoncello in un’orchestra. Il Direttore dell’orchestra non è però soddisfatto della sua esecuzione della Pastorale, la sesta sinfonia di Beethoven. Per questo motivo Goshu decide di esercitarsi a casa. In suo aiuto accorreranno alcuni animaletti parlanti che, in cambio di piccoli favori, gli insegneranno a capire davvero la musica.
The Human Centipede (First Sequence) è un film horror del 2009 scritto e diretto da Tom Six.
Il film è incentrato su un folle medico che vuole unire chirurgicamente tre persone, bocca con ano, allo scopo di creare un “centopiedi umano”. Il film ha vinto diversi premi in festival cinematografici internazionali dedicati al genere horror.
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