Un mago da luna park si accorda con una psicologa di pochi scrupoli per raggirare la gente con falsi esperimenti di spiritismo. La moglie non è d’accordo e lo abbandona. Truffato dalla sua complice, l’uomo ritorna dalla consorte.
In Sicilia, pretore si trova in conflitto con un potente latifondista. Lo aiutano, vincendo l’omertà e la paura, la popolazione locale e persino un capomafia. La Sicilia e la mafia (quella di vecchio stampo) raccontata (e mitizzata) dal giovane Germi tenendo d’occhio i western di John Ford. Vigoroso, qua e là affascinante film d’azione anche se sociologicamente poco attendibile. Tratto dal romanzo Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo. Tra gli sceneggiatori Fellini e Monicelli. Neorealista? Sì, forse, comunque romantico e con ambizioni e struttura da romanzo. Anticipa il filone del cinema civile degli anni ’60. Il primo western del cinema italiano postbellico. Nastri d’argento per Girotti e Urzì. Premio speciale per Germi.
Il furto avvenuto in un ricco appartamento e il cadavere trovato in un altro appartamento hanno qualcosa in comune? Ingravallo, commissario della Squadra Mobile di Roma, indaga. Liberamente tratto dal romanzo (1947-57) di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana , fu, quando apparve, il miglior giallo in assoluto del cinema italiano. Preannuncia sia l’imminente commedia all’italiana degli anni ’60 sia le lenti deformanti e impietose con cui Germi racconta la borghesia italiana in Sedotta e abbandonata (1964) e Signori e signore (1965). “La gestione dei due registri (quello comico, quello poliziesco-drammatico) è saldamente nelle mani della sua interpretazione e del modo cui il Germi regista… riesce a tenerli separati senza che si confondano o neghino l’un l’altro” (M. Sesti). Nastro d’argento 1960 per la sceneggiatura di Alfredo Giannetti, Ennio De Concini, Germi.
ALILA Un condominio di Tel Aviv, dove si consumano splendori e miserie umane: la poliziotta sefardita che litiga con i vicini, una donna che consuma la sua passione di amante di un uomo sposato, un vecchietto solo con un cane, i muratori che stanno ristrutturando una parte del palazzo. E, dall’altra parte della città, un padre e una madre che rincorrono una figlio che non ne vuole sapere di fare il militare. In quaranta piani sequenza di precisione millimetrica, Gitai racconta ancora una volta l’impossibilità di essere normali, oggi, in Israele. La sua macchina da presa viola l’intimità dei personaggi, per scrutare nel profondo di un disagio che è esistenziale, ancor prima che fisico. E poco importa se i lavoratori da sfruttare non sono più palestinesi, ma cinesi o africani: ognuno ha un padrone, nessuno è libero. Ed ognuno vuole scaricare sugli altri la propria rabbia, la propria incompiutezza. Raggelante ed ansiogeno, anche se di gran lunga meno riuscito di altre precedenti opere di Gitai. Come se tutto, adesso, fosse diventato davvero più difficile. Anche il semplice raccontare.
Storia di Rivka (Abecassis) e Meir (Hattab), marito e moglie. Si amano, si comprendono, ma le condizioni sociali sono tali da non permettere rapporti sereni, di nessun genere. Si confrontano anche personalità femminili, sempre in quel contesto difficile, fatto di paure e di integralismo. La solita lettura intelligente e accorata di Gitai, che ha firmato, a brevissimo intervallo, due efficaci documenti contemporanei come Kadosh e Kippur.
Maggio 1948. Un vecchio cargo, la Kedma, scarica sulle coste della Palestina un gruppo di persone sopravvissute all’Olocausto e provenienti da ogni parte d’Europa. Vengono accolte dall’esercito clandestino israeliano che cerca di portarle verso un kibbutz. Ma bisogna fare i conti con gli Inglesi che ancora occupano il territorio e con i palestinesi che non hanno alcuna intenzione di cedere una terra che ritengono sia la loro. Gitai torna ad affrontare il tema dell’edificazione dello Stato d’Israele dopo la prova, non del tutto riuscita, di Eden. Qui i ritmi sono più personali e l’assunto politico destinato a far discutere perché scontenterà tutti. I tempi del film sono lentissimi nella fase iniziale, con tutta la desolazione di mondi individuali che sono sopravvissuti all’inferno e sono in cerca di un paradiso che non si delinea come tale.
Siamo a Berlino, dopo la fine della prima guerra mondiale. Qui Else, una poetessa ebrea, conosce Tania, una sionista venuta dalla Russia. Tania spiega ad Else il suo proposito di andare in Palestina per partecipare alla nascita di un collettivo agricolo. Arriva il nazismo e dopo essere scappata in Svizzera Else raggiungerà l’amica a Gerusalemme ma vi troverà rovina e distruzione. Un film poetico, in alcuni momenti criptico, ma di forte suggestione. La musica è di Markus Stockhausen.
Tra tutti gli impiegati del grande motore di ricerca per cui lavora, Caleb è stato scelto per il prestigioso invito nella residenza del mitologico fondatore della società e inventore dell’algoritmo di ricerca. Arrivato in una zona a metà tra la magione irraggiungibile (lo porta un elicottero privato che si ferma diversi chilometri prima del primo edificio) e il rifugio zen, Caleb comprende di essere stato scelto da Nathan per un importante esperimento. Da decenni infatti Nathan è al lavoro sulla costruzione di un’intelligenza artificiale e Caleb deve testarla per capire se abbia raggiunto o meno il suo obiettivo. Il modello attuale con cui Caleb si confronta si chiama Ava, ha forma umanoide, pelle e circuiti, ragiona ed è conscia del suo status. Dopo i primi giorni Caleb comprende però che c’è qualcosa che non va, le frequenti ubriacature del capo, i moltissimi luoghi della magione in cui non può entrare e alcune strane confessioni di Ava compongono un mosaico più inquietante di quel che non sembrasse all’inizio. Ha davvero un’anima molto classica Ex machina e fa di tutto per mascherarla con un efficace maquillage modernista. Questo film di fantascienza psicologica, tutto basato sulla parola e sul ragionamento, è strutturato intorno ad uno scienziato che si spinge oltre quello che dovrebbe essere consentito, dove la scienza sfiora il “disturbante”, e sperimenta nel suo castello remoto ed inaccessibile con quella che chiamiamo vita (una sequenza rivelatrice mostra immagini a circuito chiuso dei passati degli esperimenti di Nathan con il corretto tono gotico/spaventoso). Accanto a lui un più giovane e inesperto ragazzo di scienza che si lascia contaminare troppo da quel che vede. Tra di loro una “creatura” che somiglia più ad un Golem. Nello scontro di intelligenze a tre del film Nathan, Caleb e Ava combattono tramite la parola (almeno fino a poco dal finale) una guerra di strategia e menzogne in cui, come spesso capita nella fantascienza contemporanea, sembra che solo il video registrato possa rivelare la verità. La realtà guardata con gli occhi è la cosa più ingannevole in assoluto, terreno di mistificazioni, mentre il video è la realtà, lo strumento di conoscenza del mondo per come è realmente, l’arma che svela gli inganni. È quindi tutto ciò che è tecnologico a meritare fiducia mentre l’analogico si dimostra costantemente insufficiente a reggere la pressione del confronto con l’inumano, non fanno eccezione gli uomini. In questa gothic story ottocentesca modernizzata di uno scienziato impazzito che cerca di giocare a far Dio e delle creature frutto dei suoi esperimenti, il ritmo è rallentato e il passo calmo per cercare una dimensione confortevole per lo spettatore, una in cui possa ridere dei balletti disco di Nathan e intuire la presenza di segreti inconfessabili. Come per il mito di Frankenstein anche qui il punto di tutto sarà chiedersi chi dei personaggi in ballo sia davvero il mostro e chi meriti l’appellativo di essere umano (la risposta purtroppo è abbastanza scontata). Alex Garland (già sceneggiatore di Sunshine, 28 giorni dopo e The beach per Danny Boyle) torna sui temi di Non lasciarmi (che aveva adattato) immaginando un setting tecnologico più che contemporaneo, spargendo qualche riferimento adeguato alla maniera in cui i padroni dei motori di ricerca hanno, oggi, il mondo e le informazioni di tutti nelle loro mani, per descrivere un’intelligenza artificiale basata proprio su questo, sull’accesso ad ogni informazione tramite il motore di ricerca e i dati sugli esseri umani del pianeta. Infine lentamente si pone dalla parte dell’inumano piuttosto che dell’umano per raccontare nuovamente dell’insopprimibile desiderio di vivere.
Dal romanzo Obsession di Lionel White. Abbandonati moglie e figli e sbarazzatosi di un cadavere, Ferdinand-Pierrot fugge con Marianne, ne viene tradito, la uccide e si fa saltare in aria. La trama poliziesca non è che un pretestuoso supporto in questo film che conclude pirotecnicamente la 1ª fase dell’itinerario di Godard con un’ultima, dolorante affermazione romantica che è anche una disperata dichiarazione di disorientamento. Film d’emozioni e di sentimenti in cui, però, la provocatoria sprezzatura narrativa e il ricorso accanito alle citazioni e ai collage escludono ogni partecipazione simpatetica dello spettatore. Poema cinematografico, grido di rivolta, sostenuto dalla straordinaria fotografia di R. Coutard.
Lo split-screen come la memoria che gocciola inesorabile su di noi; un fermo-immagine imprevisto e fulminante più di un momento d’azione; un montaggio ad orologeria che fa quasi sembrare la vestizione/preparazione in una sala da bowling una scena di sesso. Sono solo alcune istantanee di Buffalo 66, tuttavia sarebbe impresa ardua descrivere a parole un tale film, che sta dentro – ma soprattutto sta come – il suo protagonista, che si sente come lui. Il linguaggio di questa anomala, anormale tragicommedia si traduce in un gioco di scardinamento prospettico delle inquadrature, e di uno straniamento quasi (e comunque volutamente) sgradevole. Trattasi infatti di un’opera prima estremamente libera, destabilizzante, composta da riprese sfacciatamente schizzate e paranoiche, e da uno stile sbilenco ma già maturo nel manipolare e imbrattare di verità la materia in questione: dopotutto, soltanto uno come Vincent Gallo avrebbe potuto incentrare i primi 15 minuti di un film su un personaggio che cerca disperatamente un bagno. Billy Brown è appena uscito di prigione, è incasinato e nervoso anche se proprio non ci pare un ex galeotto; per proseguire una farsa messa in atto verso i suoi genitori prende ‘in ostaggio’ una ragazzina, senza però sapere davvero come comportarsi né con lei né con loro – una madre tragicamente ridicola e ridicolmente tragica, che guarda in loop la registrazione della partita di football che è stata la rovina di Billy 5 anni prima, e un padre un tempo cantante (ora ripiega sul playback) meschino e grottesco -, né tantomeno con una tormentata vendetta in cui il suo unico complice è un ragazzo ritardato che lui chiama tonto ma anche miglior amico.
Da un romanzo di Christianne Brand. Durante la seconda guerra mondiale, nel pronto soccorso britannico di una zona rurale, un assassino colpisce più volte. Entra in azione un saggio e implacabile ispettore di Scotland Yard. Un intrigo di tipo classico con una cornice insolita. Alcune belle sequenze impressioniste, condimento di intelligente umorismo.
Estate 1983, tra le province di Brescia e Bergamo, Elio Perlman, un diciassettene italoamericano di origine ebraica, vive con i genitori nella loro villa del XVII secolo. Un giorno li raggiunge Oliver, uno studente ventiquattrenne che sta lavorando al dottorato con il padre di Elio, docente universitario. Elio viene immediatamente attratto da questa presenza che si trasformerà in un rapporto che cambierà profondamente la vita del ragazzo.
Alla fine degli anni Sessanta a Cinisi, un piccolo paese siciliano, la mafia domina e controlla la vita quotidiana oltre agli appalti per l’aeroporto di Punta Raisi e il traffico della droga. Il giovane Peppino Impastato entra nel vortice della contestazione piegandola, con originalità, alle esigenze locali. Apre una piccola radio dalla quale fustiga con l’arma dell’ironia i potenti locali fra i quali Zio Tano (Badalamenti). Peppino verrà massacrato facendo passare la sua morte per un suicidio. Se lo si guarda con gli occhiali dell’ideologia I cento passi (che si ispira a fatti realmente accaduti), con la chiusura sulle bandiere rosse e i pugni chiusi del funerale di Impastato, potrebbe sembrare un film di propaganda. In realtà è un film di impegno civile (che non si vergogna di citare il Rosi di Le mani sulla città) che si assume il compito di ricordarci che la lotta a quel complesso fenomeno che passa sotto il nome di mafia non appartiene a una ‘parte’ ma è dovere di tutti indipendentemente dall’appartenenza politica. Marco Tullio Giordana, Claudio Fava e Monica Zapelli si ispirano a un personaggio realmente esistito e che, grazie a questo film, trova una sua giusta rivisitazione. Perché la morte di Peppino coincide con il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro e quindi non ha alcun rilievo sui mezzi di comunicazione. Questo facilita il compito a chi, anche in campo politico, non vedeva l’ora di liberarsi di un avversario difficile da contrastare perché mosso dall’urgenza della denuncia del malaffare. Giordana sa mostrarne l’aspetto pubblico e quello privato. Se Luigi Lo Cascio offre al suo personaggio la lucida energia di un provocatore consapevole dei rischi corre, ma non per questo disposto ad arretrare, Luigi Maria Burruano fa del padre una persona divisa in due: da un lato il dovere di obbedienza ai malavitosi e dall’altro l’amore per quel figlio che picchierà piangendo nel momento in cui si sente da lui disonorato di fronte alla mafia. La regia non si limita però a proporci un film di ricostruzione storico-ambientale. Va oltre suggerendoci, con soluzioni di montaggio e con scelte di scenografia, da un lato il clima di soggezione psicologica a cui neppure Peppino può sottrarsi (da piccolo ha avuto modo di chiedersi perché l’auto dello zio Cesare è stata fatta saltare in aria) e dall’altro la progressiva solitudine in cui il protagonista viene a trovarsi nel momento in cui quasi più nessuno lo sostiene. Ricordandoci che ‘dopo’ tutti sono bravi a partecipare al lutto. ‘Dopo’ però.
Charles è appena stato bocciato all’esame di ammissione all’accademia di West Point. La sua è una famiglia strana, c’è la mamma e ci sono due sorelle, tutti figli di diverso padre. Charles ha un suo mondo interno particolare, che nessuno capisce; anzi gli viene attribuita scarsa intelligenza.
Joel e Clementine sono una coppia molto innamorata. Un giorno però, la ragazza, stanca della sua relazione ormai in fase di declino, decide, mediante un esperimento scientifico, di farsi asportare dalla mente la parte relativa alla storia con Joel. Il giovane, una volta venuto a conoscenza di questo fatto, sceglie di fare altrettanto ma durante il procedimento cambia idea. Il regista Gondry, si avvale del geniale sceneggiatore Charlie Kaufman (Essere John Malkovich – Il Ladro Di Orchidee) per dare vita ad un’opera originale, dal sapore dolce-amaro. Il film del creatore di Human Nature però, nonostante sia particolarmente coinvolgente, delude le aspettative, a causa della sua esposizione narrativa frammentata che al contrario di molte altre pellicole montate con lo stesso stile, confonde lo spettatore, lasciandolo perplesso anche quando al termine del film si arriva alla comprensione globale. Inoltre, per alcuni risvolti della trama, quest’opera ricorda fortemente il thriller Vanilla Sky, remake dello strepitoso Apri Gli Occhi di Alejandro Amenabar.
Sconvolto dalla morte violenta della moglie, un prof. di storia medievale si fa barbone alla deriva e va alla ricerca del Santo Graal tra i grattacieli di New York. L’aiuta un disc-jockey che si sente indirettamente responsabile della sua disgrazia. Storia di amicizia e di amore in cui la commedia si mescola al dramma e al melodramma, il realismo alla fantasia, il sentimentalismo alla violenza, i grattacieli e i bassifondi metropolitani ai castelli e ai cavalieri del Medioevo. Il giusto dosaggio di una materia così eterogenea, liberamente tratta dal romanzo (1986) di Anthony (Dymoke) Powell, è merito di Richard LaGravenese, sceneggiatore esordiente. Gilliam ci mette il talento visionario, l’energia narrativa e quel gusto della ridondanza che indebolisce la parte finale con un eccesso di zuccheri emotivi. Un quartetto eccellente d’interpreti tra cui la Ruehl che vinse 1 Oscar come miglior attrice non protagonista.
Michel Poiccard, ladro d’automobili, uccide un motociclista della polizia stradale che lo inseguiva per un sorpasso proibito. Tornato a Parigi, ritrova Patrizia, un’amichetta americana di cui s’era innamorato. Intanto è ricercato dalla polizia. Opera prima di Godard, questo film sul disordine del nostro tempo divenne il manifesto della Nouvelle Vague e, insieme con Hiroshima mon amour (1959) di Resnais, contribuì alla trasformazione linguistica del cinema negli anni ’60, sfidando le regole canoniche della grammatica e della sintassi tradizionali. L’anarchismo di cui fu accusato (o per il quale fu esaltato) è più formale che contenutistico: nelle peripezie dell’insolente Belmondo che fa il duro, imitando Humphrey Bogart, si nasconde molta tenerezza.
Girato poco tempo dopo il maggio 1968, il film traccia il percorso di iniziazione di Stanislas, un bambino di cinque anni. Lui è il Rivelatore che, dopo la scomparsa dei genitori, vaga da solo per il mondo per realizzare la sua dimensione divina. È un’opera muta.
Film in ‘prima persona singolare maschile’ con Pierre Clementi, il padre, Nico, la madre, e Balthazar Clementi, il figlio. Un love movie per Nico? “Non fatevi domande – spiega Garrel – guardatelo solo per piacere, come puo essere piacevole avventurarsi nel deserto, ascoltare Nico (in Desertshore), ammirare una carrellata circolare, gli strani paesaggi, il silenzio angosciante, le grida addolorate, la ricerca di un assoluto improbabile e incerto”.
Naufragato su un isola sconosciuta, un uomo insegue Faustina, una enigmatica figura di donna che insieme ad altre persone sembra aggirarsi senza apparente ragione attorno ad un edificio dall’insolita architettura. Dopo aver tentato invano di creare un contatto con la ragazza, l’uomo si rende conto che gli strani abitanti dell’isola sono vuote immagini registrate e proiettate da una macchina inventata da Morel che entra in funzione con la luce del sole e con le maree. Lo stravagante scienziato ha risucchiato, esponendoli ai raggi mortali della macchina, la fisionomia di un gruppo di persone capitato sull’isola e ne riproduce i simulacri, i gesti e le parole dando vita ad un frammento di ripetitiva sterile immortalità. Solo e disperato, l’uomo si pone di fronte alla macchina e, morendo, si unisce a Faustina e alla compagnia degli altri incorporei personaggi. Girando sulle spiagge di Malta, Emidio Greco trasferisce sullo schermo il romanzo di Jorge Bioy Casares con la mente volta alle lezioni stilistiche del Resnais di L’anno scorso a Marienbad. Opera insolita nel panorama della produzione italiana, il film fa uso sapiente di atmosfere surreali per invitare a riflettere sul significato della realtà, sulla consistenza dell’immagine e sulla finitezza esistenziale dell’individuo. Film che andrebbe riproposto e rivisto anche come interessante esercizio di cinema sul cinema.
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