Il film è un ritratto della società turca dopo il colpo di Stato del 1980, raccontata attraverso le storie di cinque prigionieri che ottengono il permesso di tornare a casa per una settimana dalla prigione in cui sono rinchiusi.
La realizzazione del film fu avventurosa, poiché il regista e sceneggiatore Yilmaz Güney si trovava in prigione al momento delle riprese. Il film fu diretto dal suo assistente Şerif Gören, che seguì con precisione le indicazioni del regista. Dopo la fine delle riprese Güney riuscì a fuggire dal carcere, prese i negativi del film che nel frattempo erano stati trasferiti in Svizzera e infine lavorò al montaggio a Parigi.
Sulla piazza del mercato, ai tavolini del caffè, siedono gli uomini che guardano le donne. Sono un coro variegato di borghesi veneti, professionisti del perbenismo di facciata, cattodemocristiani protetti in qualche modo dall’alto, che cadono sempre in piedi. C’è Toni Gasparini, che confessa al dottor Castellan il suo problema di impotenza, suscitando nel medico la fregola irresistibile del pettegolezzo. Così, mentre gli amici ridono alle sue spalle, il Gasparini ride di più, nel letto della moglie del dottore, al quale aveva dato a credere una bugia bella e buona. Poi c’è Bisigato, impiegato di banca, afflitto da una moglie insopportabile, che crede di poter cominciare una nuova vita con Milena, una giovane cassiera, ma non fa i conti con i presunti amici e con il tabù della separazione coniugale. E poi c’è Benedetti, il venditore di scarpe, che adocchia una bella ragazza di campagna e le fa fare generosamente il giro di tutti i suoi compari. Peccato che la ragazza sia minorenne e che il padre di lei li porti tutti in tribunale. Toccherà all’irreprensibile moglie di Gasparini occuparsi di risolvere l’inconveniente a suon di bigliettoni e non solo. Da un soggetto di Luciano Vincenzoni, che ha raccolto il materiale narrativo nella sua Treviso (la città del film, mai nominata ma riconoscibilissima), Germi trae la sua commedia di costume più nera e più alta. È una satira bruciante, tanto che in molti, tra i critici italiani, si scottarono e non ne riconobbero da subito il valore, preferendo gli altri due film della trilogia, Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata, ambientati nella più remota Sicilia. Ci penserà il Festival di Cannes a tributare per primo al film il plauso internazionale che meritava, con la Palma d’oro del ’66 (ex aequo con Un uomo, una donna di Lelouch). Sceneggiato da Age e Scarpelli, il film deve in verità la sua straordinaria struttura narrativa ad un’idea di Ennio Flaiano (non accreditato), che s’ingegnò per cercare una cornice che lo emancipasse dal genere boccaccesco della pellicola ad episodi, di gran voga in quel periodo. L’ideazione del coro di personaggi, che si assomma nella piazza cittadina, assurgendo a emblema di una logica ideologica di gruppo o ancor meglio di branco, per poi lasciar spazio ai singoli assoli, supera lo strumento decorativo, al punto che la cornice diventa il film stesso, il suo stile e il suo senso. Il coro, unitamente all’aria e al recitativo, porta con sé anche un’idea di melodramma, che riaffiora specialmente nel secondo dei tre atti, nella figura tragica del personaggio interpretato da Gastone Moschin, così come nell’aria d’opera accennata da Castellan e Scarabello (“La bella figlia dell’amor”, dal Rigoletto, che Germi non riuscì ad inserire qui, andrà a far parte del primo capitolo di Amici miei). A distanza di cinquant’anni esatti, favorito da un ottimo restauro, Signore & signori si conferma un’opera di amara attualità e d’inalterata modernità.
Affresco di una piccola comunità rurale sull’arco di quattro generazioni, dal 1945 alla fine del secolo. Protagonista invisibile: il tempo che passa. Linea narrativa: matriarcale. Antonia che generò Danielle che generò Thérèse da cui nacque Sarah, voce narrante. In questo Heimat fiammingo gli uomini sono in seconda fila: abietti o fragili o coglioni, talora gentili. Sagace, e qua e là furbesca, mistura di patetico e grottesco, pubblico e privato, violenza e tenerezza con una marcata componente anticlericale e un pragmatico amore per la vita, contrapposto al cupo pessimismo di un vecchio che cita Nietzsche e Schopenhauer. Qualche rigidità didattica. Oscar 1996 del miglior film straniero.
Dopo aver vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1981, Antonio Miguel Albajara, famoso scrittore e titolare di una cattedra di letteratura presso l’Università di Berkeley, avendo saputo che gli restano solo sei mesi di vita, decide di tornare a Gijon, la sua città natale, per trascorrere gli ultimi suoi giorni con Elena, il suo amore di gioventù
Il capo della Squadra Mobile di Torino è un uomo buono e comprensivo. I suoi superiori però lo trasferiscono quando egli scopre un losco giro di droga e prostituzione in cui è coinvolta la Torino bene. Anche un giornalista, suo amico e collaboratore, è messo a tacere. Ma i due non si daranno per vinti.
Durante il viaggio verso il Montana, dove sperano di trovare lavoro prima dell’inverno, tre amici si scontrano con alcuni avventurieri che feriscono uno di loro e si accaniscono su di un altro, insidiandogli la donna. Fortunatamente, i suoi compagni lo aiutano ad uscire dalla spiacevole situazione.
Gente che va, gente che viene in un grande albergo di Berlino dove sembra che non succeda mai niente. Succedono, invece, molte cose, in un intreccio fitto sapientemente omogeneo per merito di William A. Drake che, con la supervisione di Irving Thalberg, ha adattato con brio un best seller (1929) della austriaca Vicki Baum. Rivisto oggi, è evidente che la buccia è umoristica ma la polpa drammatica, anzi melodrammatica. 5 i personaggi principali, i primi 5 del cast. Pur non essendo un film “della” Garbo, ma “con” la Garbo, la diva lascia il suo segno, soprattutto nel magnifico controllo del suo corpo di danzatrice. Ammirevoli i 2 Barrymore: John, falso barone e ladro-gentiluomo, sotto le righe; e Lionel, patetico travet, sopra le righe. Caso raro di un lungometraggio che vinse soltanto l’Oscar per il miglior film. Tipico prodotto della M-G-M. Lo si vede anche dal bianconero di William (Bill) Daniels e dalle scene e i costumi di Cedric Gibbons. Ritenuto per decenni un abile prodotto commerciale, il romanzo è stato rivalutato nel primo 2000 come si vede anche dalla nuova traduzione di Mario Rubino del 2010 edita da Sellerio.
Una coppia di intellettuali in crisi , lui regista impegnato, lei giornalista americana, è coinvolta nell’occupazione di una fabbrica di salumi dove si scontrano sindacalisti tradizionali ed estremisti. Curioso tentativo di fare un film marxista sulla lotta di classe con 2 star e una storia d’amore. Didascalico e schematico. Personaggi-simbolo alquanto facili e sessantotteschi. Senza grandi novità formali.
Un giovane, rilasciato anticipatamente dal carcere per buona condotta, finisce nuovamente dentro per colpa di un giudice. Tornato in libertà, è convinto che ormai la strada della “normalità” gli sia preclusa: compie una rapina dopo l’altra, affida la refurtiva a una ragazza e decide di farsi catturare.
Stanco della moglie e invaghito di una cugina sedicenne, barone siculo induce la consorte al tradimento e poi la uccide. È condannato a una pena minima per “delitto d’onore” e può sposare la cugina. Si può fare una commedia intelligente, lesta, graffiante anche illustrando un articolo (il 587) del Codice Penale. Se c’è un’arte che nasce dall’indignazione, questo film le appartiene. Oscar per la sceneggiatura a Ennio De Concini, Alfredo Giannetti e Germi e il premio della migliore commedia a Cannes. Rita Savagnone ha dato la voce sia a D. Rocca sia a S. Sandrelli.
Three Outlaw Samurai (三匹の侍, Sanbiki no Samurai) is a 1964 Japanese chambara film by director Hideo Gosha.
Inizia con la stessa inquadratura de L’Armata delle Tenebre (per chi seguisse la continua caccia involontaria del sottoscritto a film cino-giapponesi che posseggono elementi poi apparsi magicamente nell’opera omnia di Sam Raimi) e si ritrova ad influenzare sensibilmente l’opera del nostro Sergio Leone in primis e il cinema di spada nipponico, hongkonghese e di tutta l’Asia (esiste anche una sorta di remake hongkonghese ad opera di Chang Cheh (The Magnificent Trio, 1966)) poi. E’ l’esordio alla regia –dopo una significativa gavetta televisiva- di Gosha Hideo, maestro riconosciuto di rara caratura ma lontano, anzi lontanissimo, dalla posizione che gli spetterebbe all’interno dei libri di storia del cinema. Perché il suo è grande cinema, cristallino, perfetto, capace di produrre movimenti e inquadrature gonfie di senso e trasudanti emotività. La soglia tra bravo regista e “genio” è senza dubbio superata e Gosha andrebbe annoverato tra i grandi. Invece duole notare come il suo nome non trovi adeguato spazio nemmeno in libri specializzati (due su tutti, lo Yakuza Movie Book di Schilling e il Outlaw Masters of Japanese Film di Chris D.). Poco spazio dedicato anche in Italia (una paginetta nel bel Storia del Cinema Giapponese), mentre bisogna di nuovo guardare ai fratelli d’oltralpe per accorgersi ed avere l’ennesima conferma del fatto che in quanto a critica cinematografica i francesi sono stati sempre abbastanza ricettivi e lungimiranti. A metà dei ’60, film come questo, i successivi di Gosha e di un pugno di rivoluzionari della settima arte andavano riportando in auge il genere, riscrivendone stilemi, tematiche, stili ed estetica e creando quel lungo filo mutevole nei decenni e riflesso dei sommovimenti politici e sociali, riferito ad un senso dell’onore (dal ferreo allo sfuggevole) passando per la dicotomia giri/ninjo, fino alla distruzione senza “honour and humanity” ed oltre. Lo stile aggressivo e sperimentale del regista regala un continuo profluvio di invenzioni, di sezioni del quadro tagliate di netto come dalle lame degli stessi samurai, carrelli arditi, primi piani fasciati da una fotografia in bianco e nero di rara intensità, giochi prospettici e formali tra i vari piani della profondità di campo, un continuo allenamento percettivo per il cervello. Non di sterile estetica stiamo parlando, ovviamente, ma di una consapevole proposizione di immagini “forti” incisive, perpetuamente capaci di donare senso ed emotività, mai svincolate dall’apparato narrativo.
Shiba (Tanba Tetsuro), Kikyo Einosuke (Hira Mikijiro) e Sakura (Nagato Isamu) sono i tre samurai del titolo, ronin vaganti pregni di un ferreo senso dell’onore capace di veicolare ogni propria scelta. Che siano con o senza padrone saranno sempre disposti a tradirlo quando questo si riveli nel torto. In questo caso la vita di tre contadini che cercano di rivendicare i propri diritti, contro le angherie di un magistrato, rapendogli la figlia. Quest’ultimo scaglierà contro i tre un piccolo esercito. E’ allora che, placidi, i tre ronin uniranno le forze per quello che per loro è ninjo, il bene comune, disposti a spezzare il giri se l’appartenenza al clan si riveli macchiata di sangue innocente.
Una visione morale monolitica ma spensierata, simile a quella dei successivi film di Chang Cheh e John Woo in parte, vicina negli angoli smussati a certo western occidentale, con i tre ronin privi di origini e di destinazione che lasciano al potere del destino la scelta della strada da intraprendere. Non sono quindi tre samurai oltre o senza legge, tutt’altro, sono tre ronin pregni di una propria legge morale, indissolubile, più forte dell’amore “virile” (come si vedrà nel film) o di ogni incatenamento sociale vincolato dal lusso (idem). Una straordinaria fetta di cinema vicina alla statura del maestro Kurosawa, un esordio di inconcepibile fulgore.
I subita li ho tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
In un piccolo paese del Nord Carolina, un gruppo di ragazzi gioca in un parco, quando uno di loro perde la vita. I compagni, travolti dal senso di colpa, nasconderanno la verità dietro una tragica bugia.
Dal romanzo (1934) di James Cain, filmato anche da P. Chenal (1939), L. Visconti (1943), B. Rafelson (1981): sensualmente intrappolato dalla moglie del padrone dell’autogrill dove lavora, un giovanotto uccide il principale. Il destino aspetta dietro l’angolo. Per ragioni di censura il legame tra sesso e violenza, così esplicito in Cain, è suggerito da Garnett con un clima claustrofobico e segnali indiretti che fanno degnamente appartenere il film al genere noir. Conta soprattutto per la presenza di L. Turner e di J. Garfield, ma anche i personaggi di contorno sono ben disegnati.
Il corpo di una donna viene recuperato da un misterioso motociclista fuori strada e trascinato su un camion, dove un’aliena, con le medesime sembianze della malcapitata, ne indossa letteralmente le vesti. L’aliena intraprende quindi un viaggio attraverso la Scozia, sfruttando il proprio fisico seducente per adescare uomini soli e non restituirli mai più alle loro vite. Glazer va dritto al centro del romanzo di Michel Faber, rinunciando ad ogni conoscenza o informazione preparatoria per occuparsi solo e soltanto del viaggio della protagonista e costruire così un on the road visionario, teso ad immaginare barlumi di altre dimensioni ma anche e soprattutto a guardare il nostro mondo con un occhio altro. Tre versioni del copione e un periodo di fermo potevano insospettire e ora appare evidente che l’incertezza era e resta legittima. Spogliato del contesto fantascientifico e ridotto quasi al silenzio, il film non guadagna a sufficienza in atmosfera da compensare le perdite in materia di psicologia e possibilità di identificarsi con il personaggio. Quest’ultima, poi, è una scomparsa non da poco, perché è proprio sull’ambiguità del discorso identitario che si gioca la partita: chi sia la vittima e chi il carnefice, è la domanda più che esplicita che il regista gira allo spettatore. Tornano, dunque, le sovrapposizioni e i doppi ingannatori di Birth, ma sparisce completamente il sentimento che ci avvicinava e turbava in quell’occasione. Là, infatti, dove Nicole Kidman ci straziava silenziosamente nel suo esser pronta ad apparire un’aliena e ad affrontare la solitudine pur di credere all’amore, con un ribaltamento narrativo che trascina però con sé anche un senso più profondo, Scarlett Johansson è qui inizialmente insensibile al dolore così come al piacere per poi sperimentare l’emergenza di una sorta di curiosità, di desiderio di un contatto, di saggiare un gusto, che la conduce rapidamente (e ideologicamente) alla rovina. Il confronto insistito sullo spazio visionario ed estetizzante ma in verità crudele e annientatore proprio della dimensione aliena e quello più aspro, squallido e violento delle Highlands e, per estensione, dell’umanità (abitato però dalla comicità televisiva e riscaldato qualche volta dal rifugio domestico) è tutto quello che Glazer decide di dire e mostrare, ma la sensazione è che sia un discorso povero e riduttivo, che ci lascia insensibili e alieni al destino della protagonista.
Rudolf Höss e famiglia vivono la loro quiete borghese in una tenuta fuori città, tra gioie e problemi quotidiani: lui va al lavoro, lei cura il giardino e i figli giocano tra loro o combinano qualche marachella. C’è un dettaglio però. Accanto a loro, separato solo da un muro, c’è il campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf è il direttore.
A dieci anni di distanza da Under the Skin, acclamato universalmente come una delle opere che ha meglio colto le inquietudini della contemporaneità, Jonathan Glazer si ripresenta con la trasposizione di un romanzo di Martin Amis.
Siamo di fronte ad un film ambizioso e collocato in un’epoca storica tristemente nota, quella degli anni ’40 e della messa in atto della Soluzione Finale da parte dei nazisti.
Ma è chiaro fin da subito come non sia la ricostruzione storica a interessare il regista, bensì la messa in scena di una situazione paradossale, così estrema da trasformarsi in un laboratorio di analisi della banalità del male e della separazione tra percezione soggettiva e realtà oggettiva.
Introdotto e chiuso da alcuni minuti di solo audio – una composizione di Mica Levi che sembra rievocare il suono di urla di dolore umane – il film di Glazer sceglie di introdurci alla vita di una famiglia rivelando gradualmente il contesto generale. Con un astuto gioco di campi e controcampi e una meticolosa osservazione del profilmico, in cui ogni dettaglio dell’inquadratura assume importanza, cominciamo a intravedere cosa ci sia al di là del muro, e quindi ad associarlo alle immagini note di una delle pagine più tragiche della storia dell’umanità. Svelato il mistero, tutto assume un nuovo significato e ogni situazione quotidiana sembra una versione distorta di quanto avviene al di là del muro: non saremo più in grado, come è giusto che sia, di interpretare con il medesimo metro di giudizio quanto avviene alla famiglia Höss.
Eppure, superato lo choc della scoperta, a emergere con vigore è il ruolo simbolico della rappresentazione messa in atto da Glazer. Una volta che tra spettatore e personaggi si è creato un distacco siderale, ecco che la sceneggiatura li riavvicina, insinuando il dubbio che sia proprio la normalità di alcuni piccoli gesti e dialoghi il monito nascosto di La zona d’interesse. I discorsi sulla carriera professionale di Rudolf, il ménage famigliare o il contrasto tra la personificazione di animali e piante a scapito dell’oggettivizzazione delle vittime di Auschwitz, la costante sensazione di vivere in una bolla, nella negazione di quel che avviene al di fuori, riproduce comportamenti e vizi della nostra contemporaneità borghese.
Film impossibile da recensire, in chiave “normale”. Perché non si può non partire da due pregiudizi, quello del credente o quello del non credente. Critici e commentatori normalmente equidistanti e distaccati, molto accreditati, non hanno resistito al sentimento, al coinvolgimento, sì, al pregiudizio. La Passione è stato definito pulp, horror, e via dicendo. Vanno rilevati, prima di tutto, l’attesa e il marketing. In tutta la storia del cinema mai un film ha generato tanta attesa, da Via col vento a Ben Hur, da Otto e mezzo a Schindler’s List. Un’attesa certamente buona e benemerita, al di là di tutto. Lo si deve a Gesù, personaggio eccezionale, magari divino. Guardato al microscopio della filologia, dei vangeli, della Storia eccetera il film presenta… solo errori: il linguaggio, le omissioni, questi troppo cattivi, quelli troppo buoni, l’eccesso di violenza, i pesi del racconto, la parte di croce orizzontale, la croce intera, i buchi prefabbricati, l’invenzione del diavolo. Trattasi di un vero manifesto di tutte le licenze che può permettersi il cinema. E non vale neppure la (più o meno grande) consapevolezza di Gibson, che è comunque autore tenace e capillare e certamente ha molto ragionato su ciò che doveva fare. Il film va dunque inteso come eccesso di cinema e magari di licenze, e come iperbole generale. Col paradosso degli opposti: troppa filologia di linguaggio – aramaico e latino – troppa semplicità e sproporzione di caratteri – le facce da bestie dei torturatori, di Barabba, la crudeltà di Caifa eccetera -, 90 minuti di torture, 2 minuti di resurrezione.
E poi quel simbolo grottesco del tavolino costruito dal falegname Gesù, di perfetto design, che mette in difficoltà anche la Madonna. Dunque iperbole e eccesso di espressione. Però, rispetto all’iconografia tradizionale certamente Caviezel si avvicina molto a quell’immagine. La scena iniziale nel Getsemani, la sagoma di Gesù, il buio, gli ulivi neri, la paura del destino che si compirà, davvero commuove. Chi crede è tenuto a ritenere che quella rappresentazione sia vicina alla verità. Così come cerca di essere verità il linguaggio, l’aramaico e il latino tradotti dai sottotitoli. E i sottotitoli sono, questa volta, una mediazione particolare, sono la metafora di sé stessi. Certo, è sentimento, è suggestione. Non è fede, che deve giungere da altri luoghi, non dalla corteccia, ma dalla profondità cerebrale. E poi il cinema, si sa, non ha lo stomaco per i grandi pronunciamenti. Puoi entrare in sala dubbioso ed uscire credente, magari per un’ora, o per un giorno. Nessuno si convertirà assistendo alla Passione, perché il cinema non converte nessuno. Il film potrà essere acquisito come moda o suggestione però il primo risultato c’è stato, quello dell’attesa, dell’evento e, appunto, del promemoria. La violenza, la sofferenza, il sangue, iperrealisti, esasperati, ne sono il valore aggiunto. In venti secoli di tradizione, di memorie, di omelie reiterate, forse l’istantanea della sofferenza di Gesù è diventata abitudine, è stata dimenticata e azzerata. Gibson ce la ripropone con un supplemento di shock. Un promemoria che può servire. In questo momento storico, dove la nostra cultura occidentale, e la nostra religione, sono taciturne, sconcertate e aggredite, è bene ricordare che anche dalle nostre parti c’è una mistica forte e c’è la fede, se vuoi interessarti a lei.
Che ci crediate o meno questo film è scioccante, la violenza è tanta. Sconsigliato alle persone più sensibili.
Historie(s) du Cinéma è un Opera Video del regista francese Jean-Luc Godard. Il progetto, iniziato nel 1988 e concluso solo dieci anni più tardi, è suddiviso in otto capitoli.
Considerata una delle opere più complesse e di difficile interpretazione dell’intera filmografia di Jean-Luc Godard, Historie(s) du cinéma spazia dal cinema alla letteratura, dalla pittura alla scienza e rappresenta, probabilmente, il punto più alto della riflessione che il maestro parigino non ha mai smesso di fare sulla propria attività di regista e soprattutto sul ruolo e sull’importanza del cinema. Cerca di comporre una sua personale visione della storia del cinema usando immagini di film istituzionali, ne modifica il senso e cambia il contesto del film originario, non cerca di narrare una storia che si presenti come oggettiva, ma costruisce una genealogia inventando nuove relazioni tra suono, immagini, testi e nomi per parlare di una sua storia del cinema e per stimolare il fruitore a crearne una propria. Il tema centrale dell’opera è quello di capire come il Cinema si sia intrecciato alla Storia anzi alle Storie. Pertanto l’espressione Historie(s) du cinéma significa allo stesso tempo La storiografia del cinema, Le storiografie del cinema, Storia di cinema, Storie di cinema. Il primo episodio è presentato fuori concorso al Festival di Cannes del 1988. Nove anni più tardi viene invece presentato nella sezione Un Certain Regard al festival del 1997.
La giovane danzatrice americana Susie Bannion arriva nel 1977 a Berlino per un’audizione presso la compagnia di danza Helena Markos nota in tutto il mondo. Riesce così ad attrarre l’attenzione della famosa coreografa Madame Blanc grazie al suo talento. Quando conquista il ruolo di prima ballerina Olga, che lo era stata fino a quel momento, accusa le dirigenti di essere delle streghe. Man mano che le prove si intensificano per l’avvicinarsi della rappresentazione, Susie e Madame Blanc sviluppano un legame sempre più stretto che va al di là della danza. Nel frattempo un anziano psicoterapeuta cerca di scoprire i lati oscuri della compagnia.
I colori forti del profondo sud statunitense, fanno da contrasto alla disperazione di tutti i giorni, che vive sul paradosso di un sogno letterario. Eliot e Frost (fra gli altri) sono la fonte di ispirazione e il nutrimento spirituale per sopravvivere al giorno che passa, e una speranza futura per chi ha ancora un’esistenza da costruire. Nella New Orleans dei giorni nostri si consumano il dramma, la solitudine, le relazioni familiari di Bobby Long, alcolizzato ex professore universitario, Lawson, aspirante scrittore fallito, e Purslane, ragazza senza sogni, incontrata a causa della morte di Lorraine, madre odiata e donna che ha segnato indelebilmente la vita di Bobby. Il film di Gabel, vive nel contrasto e nella convivenza fra intellettualismo tinto di blues e speranze diluite dal tempo, e delinea i caratteri dei protagonisti, vera forza del lungometraggio, nelle loro contraddizioni ormai radicate. Nella seconda parte, A love song for Bobby Long, si perde nel voler dare troppe spiegazioni e giustificare banalmente la solidità dei rapporti in un non necessario lieto fine. Grande John Travolta nell’esecuzione della canzone del titolo.
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