Alla vergine Marie, figlia di benzinaio e fidanzata schiva di Joseph, Gabriel annuncia che avrà un figlio. Joseph smania e si dispera, ma grazie all’amore finisce per capire e accettare il figlio non suo. Epilogo degno di Buñuel. Sotto il segno della luna è un film che prende la storia della vergine Maria come modello in controluce, parafrasandolo attraverso figure contemporanee. È un film mistico, forse non cristiano, ma nemmeno blasfemo, benché non privo di un sottile umorismo in filigrana. Visivamente splendido. Distribuito in Italia – con il corto (25′) di Anne-Marie Miéville Il libro di Maria – in una edizione mal tradotta e scorciata di qualche minuto. Violenti e sdegnati attacchi di cattolici francesi e italiani (con intervento personale del papa Wojtyla). Premio della giuria ecumenica del Festival di Berlino.
Ali, Mathias e Udo organizzano abitualmente orge con degli sconosciuti. Questa volta rispondono all’appello la Cagna, lo Stallone, l’Adolescente e la Star. La nottata sarà l’occasione, per i bizzarri personaggi, di gettare la propria maschera e rivelarsi in maniera autentica, dando vita a un’imprevedibile successione di scoperte sensazionali. Per Yann Gonzalez la sessualità è il vascello per navigare sul limite estremo di caducità dell’essere, sul confine tra vita e morte, che, inevitabilmente, passa anche dalla “piccola” morte. Tanto sono presenti erotismo e sensualità nei dialoghi o nelle maliziose allusioni dei personaggi, quanto sono assenti in termini di immagini esplicite e soddisfacenti per l’amante del porno. Risulta chiaro fin da subito il gioco di Yann Gonzalez – ex membro del gruppo musicale M83 – un seduttore che si serve della coolness di francesissime musiche e di scenografie dal gusto impeccabile per confezionare un lunghissimo videoclip in cui le innumerevoli ingenuità o parentesi grottesche (l’esibizione di un fallo palesemente finto da parte di un audace Eric Cantona) risultano più che accettabili, una volta inscritte nell’affascinante disegno globale.
Diversi e originali personaggi e le loro intricate vicende sfilano in un grande albergo di Parigi. Zio e nipote investigatori cercano di far luce su un vecchio delitto, una coppia in crisi deciderà di separarsi, un vecchio mafioso sceglierà di ritirarsi, un impresario di boxe lascerà libero il suo pugile suonato. Ma una morte violenta e casuale arriva, inaspettatamente per alcuni. Opera minore di Godard con la rockstar francese Halliday.
Germain, ex poliziotto, e Gino, ex galeotto, sono amici. Un giorno alcuni vecchi compagni di Gino cercano di convincerlo ad unirsi a loro in una rapina, ma senza risultato. L’ispettore Gouatreau non crede alla sua innocenza e lo perseguita.
Il regista Gaspard Bazin si prepara per le riprese di un lungometraggio. Ancora in fase di casting, chiede aiuto a Giovanni Almereyda, un produttore con un grande passato alle spalle, ma ormai in declino. Con sempre maggiori difficoltà finanziarie, il brillante Almereyda viene a sua volta spronato dalla moglie Euridice, desiderosa di diventare una star del cinema. Tra i due uomini s’instaura così un gioco perverso, con il produttore che tenta in tutti i modi di accontentare la moglie pur conoscendo la reputazione di seduttore impenitente di Bazin…
Tratto da due novelle di Guy De Maupassant, il film racconta di due giovani amici che utilizzano il loro tempo libero per scoprire il mondo delle donne e per approfondire le loro idee politiche; uno dei due giovani morirà per un incidente, proprio quando sta per diventare padre.
In quattro racconti, quattro registi di scuole e di esperienze diverse, riflettono sui condizionamenti dell’uomo nella società contemporanea e sull’angoscia di oggi e di domani. “Il mondo nuovo”, l’episodio firmato da Godard (per l’interpretazione di Jean-Marc Bory e Alexandra Stewart, e con musiche di Beethoven) prospetta un mondo scampato alle radiazioni di un’atomica nel quale gli uomini, svuotati di ogni qualità, esprimono in un linguaggio allusivo la loro disperazione esistenziale. L’olocausto immaginato dal regista francese non reca tracce visibili sulla pelle dell’uomo, ma ne rivela il vuoto interiore e l’impossibilità del sentimento: la società immaginata da Godard è, in definitiva, il ritratto esasperato di quella moderna e la città nella quale si svolge la breve vicenda è Parigi, assunta (come sarà anche in Alphaville) a simbolo di metropoli del futuro. L’episodio è girato in puro stile “nouvelle vague”, con voce fuori campo e inquadrature dal taglio documentaristico. Il titolo con il quale la pellicola è più conosciuta è composto dalle prime sillabe dei cognomi dei registi. Gli altri episodi sono: “Illibatezza” (di Rossellini), “Il pollo ruspante” (di Gregoretti), “La ricotta” (di Pasolini).
Nel 1936 un giovane anarchico fuggito dalla Cayenna trova rifugio presso una vedova. I due s’innamorano. I parenti di lei lo denunciano. Dal romanzo di Georges Simenon. Granier-Deferre ha cambiato un po’ le carte del racconto, ma il film resta impregnato del sapido naturalismo del Fronte Popolare negli anni ’30. Suggestiva ambientazione, Signoret in forma.
Quattro sbandati fanno una rapina allo stadio portando via tutto l’incasso di una partita di calcio. Interviene la polizia. È uno dei meno riusciti film del primo periodo di P. Germi. Debole nelle scene d’azione, frana e si disperde per un sovraccarico di moralismo edificante.
Corinne e Roland, coppia di borghesi, partono in auto per il weekend. Incappano in lunghe code, sanguinosi incidenti, strani incontri (Emily Brontë, Cagliostro, Alice, Saint-Just) prima di essere catturati dal Fronte di Liberazione di Seine-et-Oise. Da una barbarie all’altra, il 15° film di Godard comincia come un pamphlet satirico sulla borghesia neocapitalistica e la civiltà del tempo libero e diventa una favola visionaria, profetica e apocalittica (annuncio del ’68?). Famosa la lenta carrellata di quasi 10 minuti senza stacchi sulla strada intasata di auto in coda.
Nanà (Karina), giovane commessa, diventa una professionista del marciapiede. Ha anche un protettore, Raoul (Rebbot) che, oltre a darle istruzioni e porle divieti, la vende. Non essendo l’acquirente d’accordo sul prezzo, ne nasce un alterco, seguito da una sparatoria… 4° lungometraggio di J.-L. Godard (e il 3° con la danese Karina, nome d’arte di Ann Karin Bayer), è considerato da alcuni l’opera meno invecchiata e più adulta del suo primo periodo, quella in cui le invenzioni appaiono più congeniali e integrate a un progetto che non è soltanto cinematografico. I 12 quadri _ nei quali Nanà vive la sua vita, rivelandone casuali frammenti _ hanno registri diversi (sociologico, documentario, letterario, cinematografico: quello in cui al cinema Nanà piange vedendo la morte della Giovanna d’Arco di Dreyer) con linguaggi diversi, non uniti da una logica narrativa, ma giustapposti, forse ricombinabili: “vivere la propria vita”, accettarla com’è, mostrarla nella sua mescolanza di realtà e di finzione (rappresentazione), ma anche aiutarne una comprensione, aprire a un possibile giudizio. Affrontato altrove in modi obliqui, allusivi, episodici, qui il tema della prostituzione diventa centrale. Lo spunto è quello di un’inchiesta giornalistica (Où en est avec la prostitution? di Marcel Sacotte), ma “le domande e le risposte vere vengono da ben più lontano, come rivela la citazione da Montaigne che apre il film: ‘Bisogna prestarsi agli altri e donarsi a sé stessi’” (A. Farassino). Premio speciale della giuria a Venezia.
Una giornalista francese indaga negli Stati Uniti sulla morte di un amico comunista. I suoi avversari la sorvegliano e cercano di impedirle di scoprire la verità.
Film politico collettivo diviso in 11 sequenze con introduzione ed epilogo: 1) “Bomb Hanoi!”; 2) “A parade is a parade”; 3) “Johnson piange”; 4) “Claude Ridder”; 5) “Flashback”; 6) “Camera Eye”; 7) “Victor Charlie”; 8) “Why We Fight”; 9) “Fidel Castro”; 10) “Ann Uyen”; 11) “Vertigo”. 6 registi e 150 tecnici per un film militante _ girato in 16 e 35 mm, prodotto e supervisionato da Chris Marker _ che sposa esplicitamente una tesi, quella contro gli Stati Uniti e a favore del popolo vietnamita. Fu il preludio agli Stati generali del cinema, creati in Francia durante il maggio ’68, e aprì la strada ad altre esperienze collettive di cinema militante che furono fatte in Francia e in altri Paesi d’Europa dopo il ’68 e negli anni ’70. Le sequenze documentaristiche in senso stretto (portaerei americana, Saigon, la giungla, manifestazioni pro e contro la guerra) sono dovute a Ivens, Lelouch, Klein o ad anonimi operatori di cinegiornali. L’episodio più citato (“Camera Eye”) è la confessione di Godard che _ tra paradossi, sincerità, dubbi, incertezze, esibizionismi _ ricalca la tesi guevarista dei molti Vietnam; il più problematico (“Claude Ridder”) è di Resnais-Sternberg che tenta il ritratto di un intellettuale parigino “di cattiva coscienza e dunque di mala fede”. Come organizzatore e impaginatore, il vero autore del film è Marker con la sua visione terzomondista e la sua appassionata utopistica volontà che il Vietnam parli all’Europa.
Un film di Jean-Luc Godard, Jean-Paul Battaggia, Pierre Binggeli, Fabrice Aragno, Paul Grivas, Anne-Marie Anne-Marie Miéville, Louma Sanbar. Con Patti Smith, Elisabeth Vitali, Maurice Sarfati, Christian Sinniger, Quentin Grosset.Drammatico, durata 101 min. – Svizzera, Francia 2010. – da definire MYMONETRO Film Socialisme valutazione media: 3,00 su 1 recensione. Un anno fa su Internet usciva un teaser di questo film con immagini totalmente criptiche. Nelle settimane precedenti Cannes 2010 (in Concorso per Un Certain Regard) il film è stato proposto sempre in Internet a velocità iperaccelerata con sottotitoli altrettanto enigmatici come “Things.Gold. Bad guys. Stories. Animals.Children. Legends.” Gidard lo descrive come una sinfonia in tre movimenti. Nel primo abbiamo una crociera con passeggeri che vanno da un criminale di guerra a un filosofo, da un ambasciatore palestinese a Patti Smith. Nella seconda dei bambini pongono ai genitori domande su libertà, uguaglianza, fraternità. Nella terza assistiamo a sei false leggende legate a Egitto, Palestina, Odessa, Ellade, Napoli e Barcellona). Jean-Luc Godard o, molto più sinteticamente, JLG è un maestro indiscusso del cinema.Una macchina di cui ha scomposto e ricomposto a proprio piacimento i pezzi in una lunga carriera in cui non ha mai smesso di stupire per la coerenza con se stesso e, al contempo, per la vivacità intellettuale di uno stile in costante ricerca. Godard è un altrettanto costante provocatore di idee, un contagioso dinamizzatore di sinapsi e potrebbe essere un grandissimo divulgatore di riflessioni su questo nostro mondo se solo con/cedesse qualcosa di più sul piano della accessibilità del linguaggio a un pubblico (come quello delle giovani generazioni) che ha bisogno (anche se non lo sa) del suo cinema. Invece JLG manda il film a Cannes, rinuncia all’ultimo momento alla conferenza stampa mettendo in difficoltà coloro ai quali aveva concesso la sua opera ma fa anche di più. Impone il film in originale (perlopiù francese) con dei sottotitoli inglesi di estrema e provocatoria sintesi. Novello Crono che divora i propri figli, il padre della Nouvelle Vague sembra provare un insolito piacere nel limitare l’accesso a un cinema che sarebbe invece quanto mai necessario. Tre stelle per la qualità. 0 per la torre d’avorio in cui, al di là delle dichiarazioni sul cinema proprietà di tutti, JLG si sta rinchiudendo.
“Voi siete pieni di voglia di vivere. Io sono qui per dirvi no. Per morire”. Forse bisogna partire da questa dichiarazione programmatica per accostarsi al nuovo ultrapoliedrico pastiche dell’84enne Godard, che più invecchia più è avant-guardist , più spinge il suo innato sperimentalismo all’estremo. Impossibile, e comunque da tradimento, esporne una trama. È un collage anarchico di schegge di storie, analisi, aforismi, citazioni, immagini, suoni. Una sorta di Blob impazzito d’alto livello. Si può azzardare che protagonista ne è Roxy, il cane di Godard, araldo del “cinismo” (gli antichi cinici greci si fregiavano dell’appellativo “cani”), cioè di una filosofia della libertà assoluta basata sul rigetto totale della “civiltà” (“La TV fu inventata lo stesso anno in cui Hitler fu eletto cancelliere”). Ma ancor più che nei contenuti è cinico nella forma, un esempio attuale di “parresia”, cioè della capacità di dire, senza peli sulla lingua, verità scomode e irritanti: Godard usa 7 telecamere a diverse velocità, e quindi la stereoscopia e quanto di più avanzato e sofisticato la tecnologia offre, compreso il 3D, per bombardare la vista e l’udito dello spettatore con un fuoco di fila di urtanti, frastornanti, esasperanti provocazioni audiovisive. Eppure, in questo disorientante e respingente caos lucidamente organizzato, di quando in quando balenano visioni di sublime, lancinante bellezza, “alcuni momenti di grazia in un mare di cinismo intellettuale”. È, come altri film godardiani, un “vaniloquio narcisistico”, un esercizio di “nuova retorica del vuoto”? Oppure è un “film mistico” perché vuole azzerare tutte le false verità che ci assordano e ci assoggettano per aprirci a qualcos’altro che non può che presentarsi con la atterrente (non) identità del nulla? Se così fosse, il suo senso potrebbe essere lo stesso delle ultime parole pronunciate da Tommaso d’Aquino subito dopo l’esperienza dell’estasi: “Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto a quanto ho visto”. Inadeguato valutarlo in stellette. Premio della Giuria a Cannes 2014, ex aequo con Mommy di Xavier Dolan. Fotografia di Fabrice Aragno.
Un pugno di personaggi vive storie apparentemente indipendenti l’una dall’altra. In realtà ognuno di essi (c’è anche il regista Godard) aspira a trovare il significato della vita (almeno della propria).
Il professor Persikov, direttore dell’istituto di zoologia di Mosca negli anni venti, riesce a mettere a punto un potente raggio in grado di accelerare vertiginosamente la riproduzione delle cellule animali, provocando in tal modo la “resurrezione” involontaria di mostruosi rettili, che causeranno uno sconvolgimento nel rigido ordine della società sovietica dell’epoca.Alla voce del regista fuori campo, erano affidati il commento e la lettura di brani originali tratti dall’opera di Bulgakov.
Nato come Vangelo ’70, privato dell’episodio ipertrofico di V. Zurlini che diventò Seduto alla sua destra. Con “L’indifferenza” Lizzani rilegge la parabola del buon samaritano in chiave di neorealismo stradale. In “L’agonia”, con J. Beck e la compagnia del Living Theatre, Bertolucci ribalta la parabola del fico sterile in un originale esercizio stilistico tra cinema, mimo e teatro d’avanguardia. Con “La sequenza del fiore di carta” Pasolini si serve di N. Davoli on the road per una metafora sull’impossibilità dell’innocenza. In “L’amore” di Godard, parafrasi politica alla Brecht della parabola del figliol prodigo, Castelnuovo impersona la Rivoluzione e la Guého la Democrazia: i due si amano, ma non possono convivere. In “Discutiamo, discutiamo…” Bellocchio e un gruppo di studenti dell’Università di Roma dissertano in toni grotteschi sulla scuola di classe e la contestazione studentesca. Finanziata dall’Italnoleggio, è una curiosa operazione di sperimentazione linguistica.
Lemmy Caution ha una missione da compiere ad Alphaville, città del futuro di un’altra galassia, dove tutto è diretto da Alpha 60, computer che ha messo al bando i sentimenti. Rivisitazione ironica di 2 generi popolari (spionaggio e fantascienza) in un cocktail gradevole. Ma Godard ne fa una ricerca sugli elementi di base del cinema: la luce e il suono. Alphaville è Parigi, capitale del dolore.
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