In 35 anni è l’8° e il più riuscito film del pugliese Greco che ha riscritto un racconto (1964) di Franco Lucentini. Pur fedele per struttura e dialoghi a Lucentini (senza Fruttero), Greco ha aggiunto di suo qualche dettaglio e 2 sequenze, viste con gli occhi del protagonista: un affollato party notturno e la visita a Villa Adriana di Tivoli. Sono complementari, l’una in negativo e l’altra (quasi un documentario) in positivo: dà un senso al titolo e provoca la “conversione” del personaggio col tramite del fascino rovinoso della Tivoli antica. Battiston è un interprete da premio. Ne sarebbe contento Lucentini, inventore del “professore”, figura che non ha precedenti nella narrativa italiana. Ha ragione Greco nel dire che il suo film è tante cose: esercizio di stile (non un’inquadratura superflua, ogni movimento della cinepresa funzionale), lente con cui guardare la realtà, racconto morale innervato da una tensione etica. Greco sa dirigere i suoi attori e la Angiolini conferma il suo talento.
Tratto dal libro di Leonardo Sciascia, la vicenda è ambientata nel 1782 quando un certo abate Vella (Silvio Orlando) a Palermo riesce a farsi accettare nel seguito di un importante e ricchissimo musulmano, tale Abdallah Ben Olman. L’abate intenderebbe semplicemente vivere alla grande e per farsi accreditare meglio spaccia un libretto per un testo rivoluzionario. Il lestofante inganna tutti per tredici mesi. Un film in costume dalle tematiche complesse forse difficilmente comprensibili per lo spettatore che non abbia già letto il libro. È la seconda opera di Sciascia che Santomauro porta sullo schermo. La prima era stata Una storia semplice,una delle ultime magistrali interpretazioni di Gianmaria Volontè.
Un vecchio giudice un po’ rimbambito, senza aver la licenza, celebra alcuni matrimoni. L’irregolarità viene scoperta e comunicata agli interessati. A tutti è offerta la chance di “ripensarci”. Solo uno però, un maturo signore turlupinato da una frivola bionda, opterà per l’annullamento.
Gravemente ferito ma sopravvissuto ad uno spaventoso incidente aereo, il pianista Stephen Orlac è sottoposto con successo alla delicatissima operazione chirurgica del trapianto di entrambe le mani. Quando scopre che il donatore era stato condannato a morte con l’accusa di omicidio, Orlac cade nella suggestione di essere predestinato a seguire la via del delitto e il sinistro Néron, illusionista di music-hall, ne approfitta per renderlo complice e strumento dei suoi crimini. Nuovo adattamento del romanzo di Maurice Renard, interpretato da Mel Ferrer nel ruolo di Orlac e da Christopher Lee in quello di Néron. Ferrer si esibisce al pianoforte suonando Beethoven e ad un tratto smette di sorridere credendo di vedere sulle sue mani i guanti dello strangolatore.La vicenda segue i modelli del mystery o dell’horror poliziesco, ma lo spunto delle mani sostituite e, apparentemente, dotate di propria volontà si richiama ad una scienza dei trapianti anatomici ancora fantastica e di “frankensteiniana” memoria. Il film venne girato simultaneamente in due versioni, secondo una prassi commerciale ormai in disuso, l’una destinata al mercato internazionale e l’altra alla distribuzione francese.
Scritto dal regista con Joss Whedon. Dagli anni ’70, anche in Italia, si è formato un gruppo di cinecritici cinefili che considerano l’horror come il più sovversivo dei generi. Li abbiamo sempre letti, tolte rare eccezioni, con diffidenza e un pizzico di spregioso scetticismo. È “un perfetto esempio di narcisismo citazionista… un contenitore di altri film e situazioni” (Giona A. Nazzaro). Sciapo nella descrizione dell’ambiente boschivo e dei convenzionali personaggi, debole nella suspense, scade poi in una macelleria già vista e rivista. Questo Goddard ha una “d” in più e molto talento in meno del suo vecchio omonimo francese.
Sally of the Sawdust è un film curioso per molti motivi. Infatti, pur non mancando di spettacolarità, non possiede la grandeur dei precedenti film epici di D.W. Griffith. Inoltre è una commedia, un genere che, fin dai tempi della Biograph, Griffith aveva sempre preferito lasciare nelle mani di registi quali Mack Sennett o Billy Quirk. Senza considerare che, oltre alla sua supposta mancanza di talento per la commedia, Griffith affidava le sorti di Sally of the Sawdust a una inedita coppia di protagonisti formata da W.C. Fields, un clown appena arrivato dalle Ziegfeld Follies, e da Carol Dempster, unanimemente ritenuta una delle luci meno brillanti nel grande firmamento di stelle che Griffith ha lasciato al cinema. L’artista aveva debutto come comparsa in una scena danzata di Intolerance (1916) e poi Griffith le aveva affidato parti di comprimaria o di protagonista in suoi film a partire da The Girl Who Stayed at Home (1919). Nondimeno, riferendosi alla prima attrice di Sally of the Sawdust, Frederick James Smith di Motion Picture Classic ammetteva che solo con Isn’t Life Wonderful aveva pensato che “Miss Dempster fosse in grado di recitare”.Ma, cosa ben peggiore, anche il grande lustro personale del regista cominciava ad appannarsi. Se da un lato il successo di pubblico di The Birth of a Nation (1915) aveva ampiamente contribuito a diffondere in pari misura la fama e l’infamia di Griffith, non gli aveva tuttavia assicurato l’indipendenza produttiva cui egli massimamente aspirava. Il fallimento dello studio Fine Arts era stato foriero di ulteriori difficoltà.
Alvin, un tipo contemplativo e affidabile, e il fratello della sua fidanzata, il giovane e irrequieto Lance, trascorrono l’estate lontani dalla città, impegnati a dipingere la striscia di mezzo di una carreggiata di campagna. Nella solitudine forzata di quei luoghi, nasce tra i due, passo dopo passo, tratto dopo tratto, un’amicizia imprevedibile, che sorge letteralmente dal nulla. Un nulla simboleggiato dal paesaggio circostante, raso al suolo da un incendio un anno prima dell’arrivo della strana coppia, che, insieme alla striscia di mezzo, metafora chiara di una relazione in via di costruzione (con le sue intermittenze e la sua apertura a un futuro tutto da scrivere), illumina bene la cifra di un film che sa raccontare il molto con il poco. David Gordon Green ritrova il miglior se stesso con questo remake di una pellicola islandese, dalla quale si può presumere vengano i sapori surreali e l’uso in chiave umoristica del silenzio. L’americanizzazione dello spunto, però, nelle sue mani, non solo non appare posticcia ma, al contrario, aggiunge senso al progetto, perché lo inserisce in un contesto di rimandi cinematografici e letterari tipicamente americani, che comprendono il vecchio cowboy in sella al camion, il mito del viaggio e della natura incontaminata, ripresi da una prospettiva ironica ma mai del tutto spoetizzante. Ad un ambiente bizzarro, quasi sinistro, com’è questo parco naturale del Texas spogliato di turisti e abitato solo da alberi bruciati e carcasse, si aggiunge una componente umana non meno bizzarra, rappresentata da un gentiluomo che scrive lettere d’amore e riflessioni sulla vita ma si crede un macho, perché dorme in tenda nel bosco e mangia radici, e da un ragazzino arrapato che non ha la più pallida idea di cosa fare della propria esistenza. Pur non comprendendosi a vicenda, i due condividono un’esperienza che ha delle coordinate apparentemente assurde ma una sincerità rara. Esattamente come il film che li contiene. Ma la bellezza maggiore di Prince Avalanche è soprattutto nella malinconia che lo permea, descritta attraverso le conseguenze della noia e nella sequenza dolorosa della donna che fruga tra le ceneri della sua casa distrutta, perché impedisce di fare dell’assurdo sopra citato un sinonimo soltanto di ridicolo e ci ricorda piuttosto che la vita è costitutivamente sconvolta e contraddittoria: l’improvvisazione di gente strana in un posto altrettanto strano.
1975. Gli ultimi mesi di vita di P.P. Pasolini, dalle elezioni di giugno, in cui il PCI ottenne 1/3 dei voti, al suo assassinio a Ostia il 2 novembre. Mentre monta Salò o le 120 giornate di Sodoma e scrive il romanzo Petrolio , che denuncia l’ex presidente dell’ENI e neopresidente della Montedison, Eugenio Cefis, come il fondatore della loggia massonica P2 e il “grande vecchio” dello stragismo italiano, ha una relazione con Pino Pelosi, un borgataro 17enne. Su mandato di Cefis, la criminalità romana, aiutata dai servizi segreti deviati, si serve di Pelosi per silenziare il poeta friulano. Dal suo libro omonimo (2015), sceneggiato con Guido Bulla, Grieco – giornalista, regista, collaboratore e amico di Pasolini – ha ricavato un film di denuncia, appassionato e interessante, che tuttavia non va molto oltre una buona docufiction se non per l’intensa interpretazione di Ranieri e l’incisiva professionalità degli altri attori principali. E scade nell’agiografico quando ci propone un Pasolini che ha una “visione” profetica dell’attuale umanità digitalizzata.
È la storia del più produttivo assassino periodico del Novecento: violentò, uccise e divorò 55 bambini o adolescenti di ambo i sessi. Si chiamava Andrej Romanovic Cikatilo. Il giornalista David Grieco fece in tempo a vederlo vivo nel 1992. Ne raccontò la storia nel romanzo Il comunista che mangiava i bambini da cui ha tratto il film, cambiando molto e ribattezzandolo Evilenko. Preside e docente nell’orfanotrofio di cui era stato ospite dopo la morte del padre, finito in un gulag, Evilenko è costretto a dimettersi dopo aver cercato di stuprare un’allieva. Iscritto al partito, ottiene un posto nelle ferrovie. Da quel momento nei boschi russi si moltiplicano i cadaveri di bambini straziati. Il caso è risolto da Lesiev, esperto investigatore che ricorre all’aiuto dello psicoanalista Aron Richter. Il film è costruito sul parallelismo dei due itinerari di caccia sino all’arresto. Nel 1994 il processo si conclude con una condanna a morte, dopo una dichiarazione di sanità mentale dell’imputato. Secondo Richter, la malattia di Evilenko nasce in un bambino costretto a odiare il padre e ad adorare Stalin, il suo simbolico assassino, ma è rafforzata da una crisi di identità collettiva quando il comunismo comincia a frantumarsi. La debolezza del film risiede nell’impossibilità di mostrare Evilenko in azione sostituita da immagini allusive o ammiccanti, mediocri, annacquate da dialoghi didattici, soltanto in parte riscattate dall’inquietante istrionismo ben temperato di McDowell ( Arancia meccanica ).
Prodotto da Procacci/Arcopinto/Rai Cinema, distribuito da Fandango, è un film italiano di un formalismo forsennato e nocivo a sé stesso. Alla 3ª regia Gaglianone aveva 2 atout per aspirare al successo di pubblico: il tema (pedofilia) sgradevole, ma capace di solleticare le morbosa curiosità di molti spettatori, e un quartetto di attori uno più bravo dell’altro. L’azione si svolge in 2 tempi: alla fine degli anni ’70, quando i 4 personaggi sono bambini, e una trentina d’anni dopo in una città del Nord. Come si esplica il formalismo? Nell’uso insistente dello sfocato, negli inutili lavaggi della Mercedes, nel permettere al “mostro” (Timi) di strafare nel suo virtuosismo recitativo, nelle frequenti e compiaciute dissolvenze, nel modo patologico con cui Accorsi gioca col suo piccolo Michele o in quello verboso con cui Mastandrea filosofeggia sulla situazione. Ovviamente gli atti pedofili sono solo suggeriti, ma risultano compiaciuti, malati proprio perché formalistici. Chi si sottrae meglio è la bella e intensa Solarino. Tratto dal romanzo (2005) di Stefano Massaron.
3° film a infimo costo (e attori sconosciuti) in 10 anni dell’anconetano Gaglianone, da affiancare, per originalità di stile, a Le quattro volte di Frammartino, ma più cupo e desolato, anche se alleggerito da una vena di gelido umorismo. Più che una storia è una situazione, anzi un personaggio: Pietro – nella finzione come nella realtà – vive con Francis, fratello tossico che lo sfrutta e lo umilia. “Non bastano due fratelli per fare una famiglia”. Ma non è vero per Pietro che lo mantiene con un umilissimo lavoro. La sequenza nel night-club dove, spinto dal fratello, si esibisce, compiaciuto, nel suo numero di smorfie, senza percepire la trivialità spregiosa di chi lo applaude, fa star male. È un personaggio difficile da dimenticare. Girato a Torino, non nominata e poco riconoscibile perché rappresenta l’Italia urbana del 2010, descritta negli aspetti peggiori dei suoi abitanti: ignoranza, arroganza, violenza latente, mancanza di solidarietà, cinismo, volgarità.
Miracolosamente sottratti alla censura della storiografia marxista, vengono rispolverati alcuni cinegiornali risalenti agli anni ’40, dove si narra – con orgoglio – dell’eroica impresa di un gruppo di fascisti alla conquista di Marte. Giunta sul pianeta rosso, la squadra capitanata dal Gerarca Barbagli, si muove con cautela nel misconosciuto territorio nemico. Nonostante la mancanza d’aria, d’acqua e di cibo, il fervore per il Duce li spinge poco a poco a tener fede alla loro categorica volontà littoria: “bonificare” il nuovo territorio per dedicare a Roma (e al suo capo) la meritata conquista. Fra sonde spaziali nate dall’unione di più cannucce, un rudere da rottamare che risponde al nome di Donna Rachele, un nemico invisibile e immobile, la squadraccia fascista non mollerà fino a quando l’impresa non sarà compiuta.
Uno scrittore ha conosciuto tre coppie bene assortite e, anni dopo, in punto di morte, decide di lasciare il patrimonio a quella rimasta felice come allora. Dall’indagine, però, risulta che tutte le tre coppie hanno dei contrasti. Lo scrittore cambia testamento.
E’ il ritratto di Massimo, piccolo delinquente di quartiere privo di scrupoli: tradisce l’amante Elena e cerca di farla abortire contro la sua volontà, fa arrestare il vecchio amico Daniele, simula il suicidio di un ragazzo che ha coinvolto in traffici illegali. Poi tutti i personaggi oppressi da Massimo si ribellano e lo denunciano alla polizia.
Ostia, inverno. Nader, egiziano nato a Roma, e Stefano, romano, sono amici per la pelle. Una mattina rubano un motorino, fanno una piccola rapina e alle 9 entrano a scuola. Anche Brigitte, fidanzata di Nader, è italiana e i genitori di lui sono contrari al loro rapporto. Dopo una rissa a coltello con un rumeno in discoteca, Nader scappa di casa. Dopo l’agile e promettente esordio in La casa sulle nuvole (2009), Giovannesi, cosceneggiatore con Filippo Gravino e coautore delle musiche (con Andrea Moscianese), fa un film pasoliniano non solo per il titolo, un verso di Pierpaolo: aggiorna la tematica di Accattone (1961) mezzo secolo dopo, ai tempi dell’integrazione multiculturale e multireligiosa. I 2 attori protagonisti vivono a Ostia anche nella realtà, hanno davvero vissuto alcuni degli episodi raccontati nel film. Ne nasce un intenso film d’autore a basso costo, una accorta ricostruzione antropologica della Roma dei primi anni 2000. Funzionale e inventiva fotografia di Daniele Ciprì.
Tra le macerie di una guerra atomica, una piccola famiglia composta da Jean, Anna e il figlio Patrick, crede di essere l’unica sopravvissuta del genere umano. Per casa hanno scelto una roulotte parcheggiata su una spiaggia nelle vicinanze di una città morta: il mare dà loro alimento in abbondanza e la città le necessarie suppellettili. Le giornate si svolgono in una strana serena rassegnazione fino a quando nella roulotte si affacciano altri due sopravvissuti, il soldato Len e l’intellettuale Quentin. Spiando il comportamento e i discorsi della coppia, i nuovi arrivati comprendono che Jean, apertamente ostile nei loro confronti, è diventato impotente a causa delle radiazioni e nella mente di Quentin comincia a prendere forma l’idea di servirsi di Anna nella necessità di perpetuare la razza. Quello che per l’intellettuale è un obbligo morale, per il soldato è desiderio istintivo e violento. Len possiede la donna e dopo aver ucciso Jean costringe il compagno ad allontanarsi meditando di abbandonarlo, ma durante un violento alterco egli stesso rimane ucciso. Quando anche Anna, in preda alla disperazione e all’orrore, si suicida, sulla spiaggia restano soltanto Quentin e il piccolo Patrick. La drammatica esperienza dei quattro adulti e del bambino simboleggia l’ultimo possibile approdo dell’umanità. Il soldato e l’intellettuale sono facce dello stesso progresso folle che ha condotto all’apocalisse; l’uomo sessualmente umiliato è il residuo di una società decadente, spiritualmente debole e fisicamente impoverita; il bambino è l’innocenza calpestata dalle scelte degli uomini; la donna, il motivo scatenante di una violenza riscoperta come categoria universale. Bruno Gaburro costruisce un film senza speranze (la salvezza di Quentin e del piccolo Patrick ha il sapore tragico di un’ultima beffa del destino) prendendo ispirazione più che dai prodotti americani (La fine del mondo) dal Seme dell’uomo di Marco Ferreri.Il ritratto netto dei personaggi e l’impianto problematico della narrazione tradiscono ambizioni intellettualistiche che il regista in seguito non farà più proprie.
Kurdistan iraniano, nei pressi del confine iracheno. Cinque fratelli e una sorella vivono ai limiti della sopravvivenza. Uno dei fratelli è gravemente ammalato e il medico dice che deve essere operato in tempi brevi se vuole sperare di poter sopravvivere. Nonostante gli sforzi del fratello maggiore che si impegna nei lavori più duri per racimolare il denaro, la somma è inarrivabile. La sorella accetta allora di sposare un iracheno che ha promesso di aiutarla finanziariamente per curare il fratello ma, al momento di passare il confine, la famiglia dello sposo respinge il malato dandogli come indennizzo un cavallo. Il tempo ormai stringe e il fratello maggiore decide di darsi al contrabbando. È un film dolente quello del primo regista curdo iraniano che giunge a realizzare un lungometraggio. C’è l’attenzione all’inquadratura (mutuata da Kiarostami di cui è stato assistente), ma anche la passione per il dolore dei più deboli. Anche quando si tratta di animali. Perché il titolo si riferisce al fatto che i contrabbandieri, per far resistere i cavalli al freddo e alla fatica, aggiungono alcol alla biada. E se le dosi sono sbagliate i cavalli si ubriacano soffrendo molto. Da vedere. Se si ama il cinema iraniano.
“Nessuno conosce i gatti persiani” è la traduzione letterale del 7° film (corti compresi) di Ghobadi, di etnia curda e cittadinanza iraniana, di cui da noi era già stato distribuito Il tempo dei cavalli ubriachi . Film povero e complesso. È l’inedita descrizione di una labirintica e sotterranea Teheran che le guide e i turisti stranieri ignorano. E una docufiction sulle innumerevoli (secondo Ghobadi, più di 300) bande di musica rock, rap, punk, che pullulano nell’underground di una metropoli con circa 7 milioni di abitanti. Fanno da collante narrativo 2 giovani musicisti, una cantante e un rocker, da poco scarcerati, che cercano di mettere insieme una band per farsi conoscere all’estero e magari poter espatriare. Non vogliono fuggire dal paese, vorrebbero solo essere liberi di poter vedere, ascoltare, conoscere. È la storia di un sogno, nella speranza di una società un po’ più libera. Girato in frettolosa semiclandestinità con un finale pessimista. “Sono invecchiato 17 mesi in quei 17 giorni di riprese”, dice Ghobadi e aggiunge: “Per l’Islam la musica è impura perché fonte di allegria e di gioia. Sentire cantare una donna è considerato un peccato…”. Premio ex aequo della giuria di “Un Certain Regard” a Cannes 2009. Inedito in Iran. Scritto da Ghobadi con Hossein M. Abkenar e Roxana Saberi, la sua compagna, detenuta e condannata a 8 anni durante i giorni del festival, con l’accusa di spionaggio e per avere acquistato una bottiglia di vino. Postproduzione a Berlino. Il regista e i suoi collaboratori non possono più tornare in patria, pena l’arresto.
Durante la guerra di Spagna il presidio dell’Alcazar resiste all’assedio dei governativi, fino a che arrivano i franchisti. Nella vicenda collettiva, una storia privata, l’amore tra una ragazza di Madrid e il capitano dell’Alcazar.
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