Un coltivatore di cocomeri si scontra con la mafia che s’è assunta il controllo del reclutamento dei braccianti locali. Lo sbattono in galera sotto falsa accusa. Lui scappa, coinvolgendo nella fuga un famoso gangster. Finisce che deve vedersela con tutti in una volta: mafiosi e gangster. Ma lui è un duro, pluridecorato in Vietnam
Un gruppo di terroristi tedeschi sequestra un industriale dell’elettronica senza sapere che è il loro segreto finanziatore e che la polizia ha dato il suo beneplacito. Ignorano di essere le pedine di un gioco industriale-commerciale-poliziesco più grande di loro. Il fascino stridulo di questa “commedia in sei parti” sta nel suo dissonante impasto di sarcasmo e tristezza, di macabra comicità e serietà pietosa, di grand-guignol e tenerezza, di irriverenza beffarda e disperazione.
Gunther e Michael rincorrono l’utopia di partire per il Perù in cerca di un tesoro nella zona del Rio Das Mortes. Ma la fidanzata di Michael, si oppone.
Il melodramma di una madre di famiglia il cui marito, improvvisamente, diventa un assassino. “Il viaggio in cielo di mamma Kusters” è un film freddo e gelido sui rapporti umani, che vengono descritti con cinismo ma anche con un po’ di pietà da parte di R. W. Fassbinder, che riesce a creare un personaggio reale, vivido e intenso.
Dal romanzo The Ipcress File (1962) di Len Deighton: l’agente Harry Palmer, che non ama molto il suo mestiere, deve investigare sul rapimento di uno scienziato trasportato al di là della cortina di ferro. Cade nelle mani di loschi figuri orientali che lo sottopongono al lavaggio del cervello. Un film di spionaggio intricato, spettacolare e narrato con una certa forza visiva. Uno dei primi ad avere come protagonista un agente segreto (l’ottimo Caine) con pregi e difetti dei comuni mortali. Sembra “di assistere a un’esibizione di Superman ancora travestito con gli abiti a buon mercato e gli occhiali di Clark Kent” (A. Walker). L’agente Palmer ritorna in Funerale a Berlino (1966) e Il cervello da un miliardo di dollari (1967).
Hal ha dovuto promettere al padre in punto di morte che non avrebbe mai avuto una ragazza che non fosse bella. E così si è procurato una serie di avventure con donne belle ma che non gli interessavano granché. Un giorno però resta bloccato in ascensore con un ipnotista che gli impone di guardare all’interiorità delle donne. Così si innamora di Rosemary e dei suoi 120 chili. I Farrelly colpiscono ancora avvalendosi della disponibilità della Paltrow pronta a sottoporsi a 4 ore di trucco per assumere le ‘dimensioni’ richieste. Nella loro voglia di trasgredire i due fratelli si dimostrano ancora una volta (e nonostante le apparenze) più ‘moralisti’ di altri.
In una città della Nuova Inghilterra una ragazza cerca di riattivare un albergo semidistrutto che ha ricevuto in eredità. Ma l’albergo è costruito su una delle sette porte dell’inferno. Gli abitanti dell’aldilà non gradiscono molto questa convivenza e mandano un esercito di zombi a invadere la città. A cavallo tra i ’70 e gli ’80 Fulci si avvicina al genere horror e dopo il successo di Zombi 2 comincia una prolifica produzione di titoli più o meno interessanti. Come spesso accade a chi è costretto a girare diversi film in un anno, anche L’aldilà è un film ambivalente, pervaso da una poderosa ventata di ispirazione e vitalità, ma al tempo stesso incoerente, altalenante e non sempre “a fuoco”. Un minestrone in cui trova posto un po’ di tutto: esagerazioni e ingenuità a palate, certo, ma anche alcuni lampi di genio che in molti all’estero prenderanno a modello negli anni seguenti.
New York City, 1962. Tony Vallelonga, detto Tony Lip, fa il buttafuori al Copacabana, ma il locale deve chiudere per due mesi a causa dei lavori di ristrutturazione. Tony ha moglie e due figli, e deve trovare il modo di sbarcare il lunario per quei due mesi. L’occasione buona si presenta nella forma del dottor Donald Shirley, un musicista che sta per partire per un tour di concerti con il suo trio attraverso gli Stati del Sud, dall’Iowa al Mississipi. Peccato che Shirley sia afroamericano, in un’epoca in cui la pelle nera non era benvenuta, soprattutto nel Sud degli Stati Uniti. E che Tony, italoamericano cresciuto con l’idea che i neri siano animali, abbia sviluppato verso di loro una buona dose di razzismo.
La stazione spaziale Gamma 3 avvista un asteroide, Flora, che percorre una rotta di collisione con il nostro pianeta. Da terra, si decide di inviare il comandante Rankin con il compito di prendere il comando dell’avamposto orbitante, rilevare il comandante Elliot (un tempo suo amico, ora rivale in amore: Elliot gli ha soffiato la bella dottoressa Benson) e da lì organizzare una spedizione verso l’asteroide per distruggerlo. Rankin esegue con energia gli ordini: raggiunge Flora, vi sistema le cariche esplosive, ma quando si accinge a tornare indietro non si accorge che una strana muffa gli si è attaccata alla tuta. Su Gamma 3, mentre si festeggia allo scampato pericolo, la muffa, sottoposta con le tute al processo di decontaminazione, si ingrandisce e si moltiplica generando mostruosi esseri tentacolati.Le creature crescono alimentandosi dell’energia prodotta dalle macchine della stazione spaziale e l’unico modo per combatterle è quello di spegnere tutti i circuiti e di attirarle con un generatore mobile nei reparti dei magazzini, lontano dagli uomini. La caccia, tuttavia, si rivela più difficile del previsto e all’equipaggio non resta altra scelta che abbandonare e distruggere Gamma 3. Quando quasi tutti sono stati messi in salvo Elliot rivendica a sè il gesto eroico di rimanere su Gamma per consentire all’ultimo gruppo di partire verso la Terra… E Rankin sulla via del ritorno sollecita la base ad attribuire al nobile Elliot una ricompensa alla memoria. Soggetto stimolante reso cinematograficamente piatto da una regia anonima e da un’interpretazione svogliata. Nell’incalzare della vicenda non mancano momenti involontariamente esilaranti (la festa a bordo con sottofondo di musica anni ’60 e brindisi con coppe di champagne), e timidi richiami a situazioni già viste (lo scienziato che non vorrebbe vedere ucciso il mostro alieno e che viene poi da questi ucciso). Il fango verde che lentamente ingrossa simile ad un blob, perde interesse via via che si concretizza nei grotteschi fantocci tentacolati, con tanto di occhio rosso palpitante e schiamazzanti (anche nel vuoto spaziale) come uno sciame di cicale o una combriccola di neonati. Tra gli effetti speciali verrebbe la voglia di includere anche la messa in piega della bella Luciana Paluzzi che non perde di compostezza neppure nei momenti più accesi dei combattimenti. In America il film, con una durata di circa 90 minuti, è distribuito dalla MGM con i titoli The Green Slime e Battle Beyond the Stars.
Nel 1823 al manicomio di Vienna Antonio Salieri, acclamato musicista di Corte, confessa un tremendo segreto: ha consumato la vita nel tentativo di distruggere Mozart, volgare e libertino, indegno, secondo lui, dei doni divini. Sotto il segno del più scatenato gusto del gioco, è una riflessione sul contrasto tra genio e mediocrità e sull’invidia. Scritto dall’inglese Peter Shaffer, da una sua pièce (1979). Omaggio a Praga. Splendide immagini (Miroslav Ondricek), due grandi interpreti. 8 Oscar: film, regia, sceneggiatura, attore (F.M. Abraham), costumi (Theodor Pistek), suono (M. Berger, T. Scott, T. Boekelheide), trucco (Paul Le Blanc, Dick Smith), scenografia (Patrizia von Brandenstein, Karel Czerny). Non tenendo conto che, in fondo, è un Mozart visto da Salieri i molti mozartiani di stretta osservanza hanno eccepito sulla fedeltà storica, specialmente sulle libertà prese per la genesi del Requiem, ma avrebbero da lamentarsi di più i pochi ammiratori di Salieri. Al Festival di Berlino 2002 fu presentata una edizione restaurata (Director’s Cut) e allungata di oltre 20′. Nuova edizione del capolavoro di Milos Forman del 1984 con l’aggiunta di un nuovo sonoro e di un nuovo doppiaggio in italiano. Le scene aggiunte si integrano perfettamente con l’originale.
Da un romanzo (1962) di Ken Kesey: pregiudicato, trasferito in clinica psichiatrica, smaschera il carattere repressivo e carcerario dell’istituzione. La rivolta dura poco, ma lascia qualche segno. Premiato con 5 Oscar (film, regia, Nicholson e Fletcher, sceneggiatura di Bo Goldman e Laurence Hauben) _ come non succedeva da Accadde una notte (1934) _ è un film efficacemente e astutamente polemico sul potere che emargina i diversi e sul fondo razzistico della psichiatria. La sostanza del romanzo onirico di Kesey, scritto in prima persona, è depurata e trasformata in allegoria nell’adattamento scenico che ne fece Dale Wasserman e che forma la base della sceneggiatura. (Fu portato in scena nel 1963 da Kirk Douglas che spinse il figlio Michael a produrre il film.) Ottima squadra di attori che comprende anche il pellerossa W. Sampson.
1868: la guerra civile è finita da tre anni ed Ethan (Wayne) torna a casa. Viene accolto dalla famiglia del fratello. Qualche giorno dopo, con un gruppo di coloni partecipa a una battuta contro una banda di indiani. Nel frattempo la famiglia di suo fratello viene trucidata, tranne una nipotina di pochi anni che viene rapita dagli indiani. Insieme al giovane Martin (J. H.) Ethan comincia la ricerca, che durerà dieci anni. Alla fine trova la ragazza che è diventata un’indiana. Ethan è sul punto di ucciderla, ma all’ultimo momento si ravvede e la porta a casa. Il film è considerato un capolavoro persino dalla grande critica ufficiale, che ha sempre ritenuto il western un genere minore e troppo popolare. Nella più recente classifica stilata da critici di tutto il mondo Sentieri selvaggi è addirittura al quarto posto. In realtà Ford aveva realizzato altri capolavori, più puliti e rigorosi, come Ombre rosse e Sfida infernale, ma Sentieri selvaggi presenta un versante “intellettuale” e spurgato del mito che lo fa preferire (da “quella” critica appunto) ai precedenti titoli, più ingenui e allineati a una morale più rassicurante e “bonariamente” manichea. Si tratta comunque di un grande film che dibatte i grandi temi fordiani e ne aggiunge altri. Wayne non era mai stato così negativo e isterico: l’attore si piacque tanto che diede a suo figlio, nato in quei giorni, il nome di Ethan. Wayne e il giovane compagno percorrono territori e stagioni, nel deserto, nella neve, fra gli indiani, i banditi, i piccoli e grandi paesi, guidati da una notizia, da un sentito dire. Ciclicamente tornano a casa, sempre più stanchi e delusi, ma ripartono e continuano a cercare la ragazza. Faticano a oltranza per la propria identità e coerenza.
Greg è un aspirante attore, ancora incapace di lasciarsi andare, che rimane affascinato, durante una lezione, dalla libertà d’espressione e dalla carica emotiva di uno strano tizio di nome Tommy Wiseau. Greg diventa così il primo amico che Tommy abbia mai avuto e i due partono per cercare fortuna verso Los Angeles. Ma la fortuna è merce rara, e il sogno di fare cinema brucia dentro di loro, al punto che i due partoriscono l’idea folle di The Room: un film scritto diretto interpretato e prodotto da Tommy, passato alla cronaca come il film più brutto della storia del cinema.
Prima di vedere questo film consiglio di guardare “The Room“
Un grande pianista riesce ancora a suonare con la sola mano destra (l’altra è paralizzata). L’uomo muore lo stesso giorno in cui ha fatto testamento a favore della bella Giulia, una semplice infermiera. Da quel momento succede di tutto: muore il notaio che ha redatto il testamento, si sente suonare nella notte il piano, viene amputata la mano destra al cadavere del pianista.
Intorno al 1880 una diligenza parte con sette passeggeri da Tonto diretta a Lordsburg, nel Nuovo Messico, attraverso un territorio occupato dagli Apaches di Geronimo. Per la strada sale Ringo, ricercato per un delitto che non ha commesso. Dovrà vedersela con i fratelli Plummer, i veri responsabili del crimine di cui è accusato. Sceneggiato da Dudley Nichols sulla base del racconto Stage to Lordsburg di Ernest Haycox (ispirato a Boule de suif di Maupassant), è forse _ almeno in Italia per due generazioni di critici e di cinefili _ il western più famoso e amato di tutti i tempi. Questo “Grand Hotel” su ruote, come fu definito sul New Yorker, si presta a letture di ogni genere, come ogni classico. Ebbe 5 nomination agli Oscar e ne vinse 2: Mitchell (attore non protagonista) e la musica, che attinge al folclore americano. Il western precedente di Ford è del 1926.
Dal romanzo The Manchurian Candidate (1959) di Richard Condon, sceneggiato da George Axelrod: subìto il lavaggio del cervello da parte dei comunisti, un sergente americano rientra dalla Corea trasformato in sicario telecomandato per un attentato politico che potrebbe sovvertire la situazione degli USA. Snobbato ai suoi tempi da 9 critici su 10, attaccato da destra e da sinistra, ma rivalutato più tardi (e non soltanto perché anticipa la fine tragica dei Kennedy) e persino ridistribuito nel 1987. Per l’allucinata costruzione e gli effetti barocchi, a mezza strada tra Hitchcock e Welles, questo thriller fantapolitico può riuscire anche divertente al suo livello di corrosiva satira politica. Squadra di attori di prim’ordine. Rifatto nel 2004 da J. Demme col titolo The Manchurian Candidate.
L’aereo che trasporta William Donovan, ricco uomo d’affari, si schianta nei pressi del laboratorio del dottor Cory. Trasportato in fin di vita nello studio del medico l’uomo è sottoposto ad un difficile intervento che tuttavia non dà i risultati sperati. Cory che insieme alla moglie Jan e al dottor Schratt ha già sperimentato la possibilità di mantenere in vita cervelli trapiantati di scimmie, decide di sottoporre Donovan ad un analogo trapianto per prolungarne la vita cerebrale. In gran segreto il cervello del milionario viene asportato e conservato in una speciale apparecchiatura. Le strumentazioni rivelano ben presto che il cervello risponde al trattamento e che è in grado di riprendere la propria attività. Inebriato dal successo Cory non esita di entrare in contatto telepatico con quello che resta di Donovan ed apprende così lati oscuri di una personalità priva di qualsiasi scrupolo, violenta e vendicativa. Rispetto ad altre pellicole horror e di fantamedicina degli anni ’50, Donovan’s Brain prospetta un uso assai spregiudicato della scienza: anche se il dottor Cory si ritiene uno studioso animato da alti ideali – a suo dire, i trapianti effettuati sulle scimmie dovrebbero contribuire al bene dell’umanità -, l’impiego che egli fa del proprio sapere viene di fatto piegato ed asservito alle spietate ragioni del potere economico. Felix Feist mette in scena una buona trasposizione del romanzo di Siodmak avvalendosi di attori ben calati nelle parti. Lew Ayres torna – dopo il dottor Kildare e certamente con intenti meno leciti – ad indossare il camice bianco del medico e al suo fianco è il bravo caratterista Gene Evans, attore sobrio spesso poco considerato. Nel ruolo di Jan figura Nancy Davis, futura moglie del presidente Ronald Reagan.Il film è un remake della Signora e il mostro.
Organizzazione segreta offre, dopo la morte apparente dell’interessato, una nuova vita e una diversa identità. Un industriale insoddisfatto accetta di sottoporsi al trattamento. È, in una certa misura, il patto di Faust aggiornato alla moderna tecnologia. L’idea originale è di un romanzo di David Ely, sapientemente sceneggiato da Lewis John Carlino. Come con la fantapolitica di Va’ e uccidi (1962), Frankenheimer è a suo agio con la fantasociologia; gli dà una mano con un suggestivo bianconero il vecchio James Wong Howe, operatore di merito. Finale allucinante, attaccare le cinture.
Un’anziana donna delle pulizie vedova sposa un immigrato marocchino, di vent’anni più giovane. Doppio scandalo. Non è soltanto un film sul razzismo quotidiano e sulla normalità, ma anche sull’amore e la felicità. Il personaggio che più interessa non è Alì, trasparente e monolitico nella sua araba semplicità di cuore e di comportamento, ma Emmi cui l’amore non basta a farle superare i pregiudizi, l’educazione piccoloborghese, l’innata tedescheria. L’impasto di melodramma e di critica sociale funziona perché il primo è al servizio della seconda come la circolazione del sangue alimenta un organismo. Tenero, asciutto, un po’ schematico. Noto anche come Tutti gli altri si chiamano Alì . Premiato a Cannes 1974 da FIPRESCI e OCIC, a Chicago e in Germania (Brigitte Mira).
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