I due gestori di un’agenzia per spogliarelliste si gettano sulle tracce di un killer psicopatico che ha intrapreso una delirante crociata per ripulire New York dal vizio.
Mickey Haller (Matthew McConaughey) è un avvocato che difende i criminali di Los Angeles che lavora dai sedili posteriori della sua Lincoln sedan. Haller ha speso la maggior parte della sua carriera a difendere vari tipi di criminali fino a quando non trova il caso della sua vita: difendere Louis Roulet (Ryan Phillippe), un playboy di Beverly Hills accusato di stupro e tentato omicidio. Il caso inizialmente semplice pian piano si trasforma in un gioco mortale da cui Haller deve cercare di sopravvivere. Inizialmente The Lincoln Lawyer doveva essere diretto ed interpretato da Tommy Lee Jones, ma a fine novembre del 2009 l’attore ha lasciato la produzione per divergenze creative.
Dopo essere stata ripetutamente violentata, Thana impazzisce e massacra tutti i maschi che le capitano a tiro, tra pistolettate vendicatrici e accurati squartamenti.
4 storie s’intrecciano in questo affresco sull’America del primo Novecento. Prevale quella di un pianista nero che, per vendicarsi di un torto, si trasforma in guerrigliero con alcuni compagni. Da un polifonico romanzo (1975) di E.L. Doctorow, ebreo di origine russa che mescola figure d’invenzione con personaggi storici, un colorito ed elegante affresco al ritmo sincopato del ragtime, in altalena tra critica e nostalgia. Ultimo film per il cinema di J. Cagney dopo vent’anni di assenza. 5 nomination agli Oscar.
Una serie di misteriosi omicidi sconvolge Parigi: le vittime sono giovani donne che vengono ritrovate dissanguate. Un ispettore di polizia indaga ma non raggiunge risultati concreti, mentre il giornalista Pierre si dedica al caso ed è convinto che l’autore degli omicidi sia un vampiro. Laurette, amica di una vittima, confida al giornalista che qualcuno da tempo la segue e a un certo punto viene rapita. Riccardo Freda è un autore sottovalutato dalla critica, come molti artigiani del nostro cinema, ma è un abile regista che sperimenta quasi tutti i generi cinematografici in voga negli anni Sessanta – Ottanta. Non ci sono mostri nel film di Freda, ma esiste una realtà permeata di elementi fantastici, composta da scienziati pazzi, nobildonne che non vogliono morire e desiderano scoprire il segreto dell’eterna giovinezza, amori orribili che superano le soglie della morte. Riccardo Freda è un regista che pesca a piene mani nel gotico, perché il suo film si svolge in un castello cadente, tra cripte, passaggi segreti, cimiteri, teschi e fioche luci di candela, ma al tempo stesso cerca di essere moderno. La sua rappresentazione del male è calata all’interno di una società composta da mostri, persone senza cuore che uccidono e rubano il sangue delle vittime per donare la giovinezza a una megera cadente che vuole coronare un sogno d’amore. Per Freda, il male non va esibito ricorrendo al soprannaturale e ai mostri della fantasia, ma il vero male è dentro la società e i mostri sono persone comuni che spesso scatenano passioni incontenibili. I vampiri segna il cammino per l’horror italiano più moderno e originale, anche se non va dimenticato un ottimo cinema di mostri realizzato da Mario Bava, Lucio Fulci e Dario Argento.
Scoperta l’identità degli assassini di suo padre, diventati pezzi grossi, li elimina a uno a uno senza sporcarsi le mani. Quando uccide anche il loro capo, però, si perde. Thriller violento ad alta conflittualità erotica che conferma in Fuller il regista più “elisabettiano” tra gli indipendenti di Hollywood. Terribilmente sconsolato, brutale, implacabile nel rifiutare distinzioni nette tra uomini della legge e criminali, ma sostenuto da un segreto lirismo. Le vere vittime di questa giungla di cemento sono i bambini.
Guerra di Corea, inverno 1950-51. Caporale in crisi non è più capace di comandare né di sparare sul nemico. Quando il suo plotone viene decimato, deve reagire e comportarsi da prode. Film di guerra a basso costo di insolita tetraggine. Poca azione, molta caratterizzazione in un bianconero putrido (fotografia del grande Lucien Ballard) di risonanze documentaristiche. Scabro, allucinato, espressionistico. Uno dei soldati è James Dean.
Jessica Drummond è la più ricca proprietaria di Tombstone e rafforza il suo dominio con la presenza di 40 uomini alle sue dipendenze. Arrivano in paese Griff Bonnell e i suoi due fratelli, agenti federali. Ultimo dei 4 western di Fuller, visionario, originale sino alla stravaganza, “non ha il passo sicuro dei capolavori bensì la succosa consistenza dei modelli di scuola” (C. Caprara). Da mettere vicino a Johnny Guitar, e non solo per le analogie tra Stanwyck e Crawford, ma per l’oltranzismo stilistico che contesta la logica dell’intreccio. Adorato da Godard in procinto di passare alla regia con A bout de souffle.
Jake Hoyt è un giovane poliziotto, idealista e di belle speranze, che è stato appena assegnato alla sezione narcotici del dipartimento di polizia di Los Angeles. Animato dal fuoco sacro della giustizia, Jake ha un solo giorno per dimostrare di avere la stoffa per quel lavoro. A giudicarlo è il sergente Alonzo Harris, veterano della sezione antidroga, che lavora da tredici anni nei quartieri più caldi della città, violente centrali di spaccio, animate da energumeni sudamericani a suon di rap e proiettili. Il problema è che la pratica con i criminali ha reso la pelle di Alonzo fin troppo dura. Muovendosi costantemente in bilico tra legalità e corruzione, il sergente trasforma il giorno di addestramento dell’ingenua recluta in un cinico e crudele gioco all’ultimo sangue. Dove solo i più forti vincono. Di certo il giovane Jake non avrebbe mai immaginato che il suo “training day” si sarebbe trasformato in un incubo, per mano di quella stessa istituzione che si è impegnato a servire con tutto se stesso. All’inizio del film lo vediamo emozionato e pieno di entusiasmo, mentre saluta la moglie e la figlia di pochi mesi, con la faccia da bravo ragazzo di Ethan Hawke. Sul finale è un uomo, ma il prezzo da pagare è fin troppo alto. Il suo rito di iniziazione è a cura di un Caronte fin troppo navigato, un massiccio Denzel Washington, giacca di pelle nera e ciondoloni pacchiani al collo. Identico, e non solo nell’aspetto, ai criminali che incastra. Non senza prima approfittare dei benefici illeciti delle loro condotte. È la netta e spietata contrapposizione tra i caratteri e le aspirazioni dei due protagonisti a reggere l’intero film e conferirgli interesse. Una dicotomia, quella tra poliziotto idealista e poliziotto marcio (e quella, così americana, tra bene e male), già vista tante volte sullo schermo, ma qui rinnovata grazie al talento dei due attori principali, entrambi perfetti nei ruoli assegnati. Con un Denzel Washington che ha una marcia in più nei panni del cattivo e si è meritato l’Oscar come miglior attore protagonista, battendo il collega Hawke, anche lui nominato. A dirigerli, con piglio deciso e professionale, è l’esperto di action movies Antoine Fuqua, con una gavetta nei videoclip evidente anche nelle scelte musicali a base di rap, che ben caratterizzano i quartieri selvaggi e periferici in cui è ambientata la storia (e dove è stata girata, con tanto di permesso dalle vere gang locali), e nei camei di volti noti di quell’universo musicale, da Snoop Doggy Dogg a Macy Gray, passando per Dr. Dre. Il regista sa come conferire ritmo, tensione e adrenalina alle situazioni, anche a quelle più violente, coadiuvato da un rapido montaggio. Ma la contrapposizione tra i due protagonisti si misura meglio sul piano verbale che su quello fisico e lo sceneggiatore David Ayer fa un ottimo lavoro, scrivendo personaggi così ben caratterizzati ed efficaci, dialoghi serrati e battute da manuale, seppur cadendo in qualche forzatura logica nello svolgimento dell’intreccio. I riflettori sono tutti puntati su un mondo che più sporco non si può, proprio a causa di chi dovrebbe tenerlo pulito. A confronto dei quali gli spacciatori, animati dalla stessa brama di denaro e potere degli sbirri, sembrano quasi più umani, almeno sul piano dell’onore. E allora, di fronte a tanto cinico pessimismo, ci saremmo auspicati un finale meno conciliante, meno compromesso con la logica dello show business.
1881: un sergente nero è accusato di duplice omicidio: quello di una ragazza sedicenne e di suo padre. Il difensore è il comandante del suo reparto. Tutte le prove sembrano contro il sergente finché un colpo di scena permette di scoprire il vero responsabile del delitto. Un Ford minore.
Caine va a lavorare come macchinista su una barca che fa ricerche etnologiche, ma scopre che l’obiettivo è un tesoro in fondo al mare. Tra il lezzo di personaggi torbidi ed esotici in un Sudan di maniera, fiorisce l’amicizia paterna dell’avventuriero yankee per un bambino locale. Ispirato al romanzo His Bones Are Coral di Victor Canning, il film (girato nel ’67 come Caine, uscito nel ’69, distribuito in Italia nel ’73 e riedito nel ’75 come Maneater) fu rifiutato dal regista che tentò inutilmente di far togliere il suo nome. “Ma… sconciato o no, resta inconfondibilmente suo. E poi, cosa contano i tagli, in un racconto tanto esplicito e diretto?” (F. Savio).
La politica estera di distensione verso il blocco comunista promossa dal presidente americano Lyman Jordan (Frederich March) incontra resistenze negli ambienti militari. Alla vigilia della conclusione di un trattato per il disarmo nucleare, il pluridecorato generale James Scott (Burt Lancaster), Capo di Stato Maggiore, dà via libera ad un piano per rovesciare il governo e destituire il presidente. Ma il colonnello Casey (Kirk Douglas), già collaboratore del generale, insospettito dallo strano comportamento di alcuni ufficiali scopre l’esistenza di una base militare segreta in una zona desertica del Texas e non esita ad avvertire il presidente dell’imminente pericolo. Mentre gli uomini di governo lavorano febbrilmente per sventare il golpe che dovrebbe aver luogo nei primi giorni del mese di maggio, poichè si teme che le prove del tradimento possano venire a mancare, a Casey è affidato l’ingrato compito di sottrarre all’ex amante (Ava Gardner) del generale alcune lettere che ne comprometterebbero irreparabilmente l’immagine di fronte alla pubblica opinione. Nelle intenzioni di Kirk Douglas il film doveva terminare con una sorta di riabilitazione eroica di Scott: il generale, sconfitto, si allontana in macchina e perde la vita in un incidente stradale che forse maschera un suicidio. Ma altrettanto buona è la conclusione poi adottata.Robusto film di “fantapolitica” Sette giorni a maggio uscì poco tempo dopo l’assassinio del presidente Kennedy. La solida sceneggiatura riflette in maniera asciutta e consapevole il dibattito politico ed il clima di guerra fredda di quel periodo e ne fa propri i timori, le speranze, le utopie. Il Pentagono non collaborò a questa dura storia che vedeva contrapposti un generale fanatico guerrafondaio ed un colonnello democratico, ma la presidenza Kennedy mostrò interesse e diede alla troupe la massima assistenza e la possibilità di ricostruire fedelmente gli alloggi privati della Casa Bianca.
Un film di Samuel Fuller. Con Andrew Duggan, Ty Hardin, Jeff Chandler Titolo originale Merrill’s marauders. Guerra, Ratings: Kids+13, durata 98′ min. – USA 1962. MYMONETRO L’urlo della battaglia valutazione media: 3,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
All’inizio del 1944 gli Alleati angloamericani si accingono a riprendere la Birmania ai giapponesi e a impedirgli l’accesso all’India. Al comando del gen. Frank Merrill (Chandler) una brigata di tremila guastatori americani percorre 800 km attraverso giungla, paludi, montagne per distruggere una stazione ferroviaria cruciale per i rifornimenti giapponesi. Ritorneranno in cento. Splendido film bellico, uno dei migliori di Fuller, talento visionario che si muove nel campo delle passioni umane _ virili, specialmente _ e per il quale conta la bellezza, non le ragioni, della morte. Si può dissentire, non negarne il fuoco che lo anima e, in molti punti, la fosca grandezza che sfiora le frontiere della poesia epica. Ultimo film di Chandler (1918-61), è forse la sua più bella e intensa interpretazione.
Dopo la guerra di Secessione un soldato sudista se ne va di casa e, rifiutando gli Yankees e gli Stati Uniti, cerca di diventare un pellerossa Sioux. Il migliore, il più barocco e compiuto dei 4 western di Fuller. A un contesto storico minuziosamente ricostruito si oppone un racconto in prima persona di una soggettività dilaniata e tormentata. “Per Fuller soltanto questa conoscenza degli estremi può favorire la nascita di un eventuale umanesimo” (J. Lourcelles). Prodotto dalla RKO e distribuito dalla Universal.
Una coppia cerca di dare un po’ di pepe al matrimonio nella loro casa al lago. Ma durante un gioco sessuale l’uomo muore e la donna rimane ammanettata al letto. Riuscirà a salvarsi?
Un temibile gangster s’installa a casa di un timido impiegato suo perfetto sosia sequestrandone la zia e la donna amata. Tratta da un romanzo di W.R. Burnett e sceneggiato da Jo Swerling e Robert Riskin, è una deliziosa commedia gangsteristica con un superlativo E.G. Robinson a due facce. L’ineffabile Ford dimostrò di essere capace di fare un film “alla Capra”. Suo commento: “Era tutto a posto. Non l’ho mai visto”.
Dopo aver visto sterminata la sua pattuglia da parte dei nordcoreani, il sergente Zack (Gene Evans), veterano dell’esercito statunitense, si unisce a quella del tenente Driscoll (Steve Brodie). Tra i due le incomprensioni non mancano, ma dopo un durissimo scontro con il nemico, Zack – unico sopravvissuto insieme ad altri tre compagni – finirà per rendere omaggio a Driscoll, morto da eroe. Il primo film di guerra di Fuller, destinato a entrare nella storia, costituì anche il primo film hollywoodiano sulla guerra di Corea, ottenendo un notevole successo di pubblico, pur essendo stato girato in appena 10 giorni con un costo di appena 104.000 dollari. Realizzato in un clima già pesantemente condizionato dalla ‘guerra fredda’ e dal ‘maccartismo’, il film di Fuller – regista in seguito amatissimo da Godard, Truffaut, Wenders, Fassbinder e Scorsese – suscitò violernte reazioni soprattutto in Europa, dove fu bollato come ‘anticomunista’. Solo in seguito ne furono apprezzati la brutale concretezza stilistica, la coinvolgente carica di furiosa energia, la lettura della guerra come metafora antieroica dell’esistenza.
Edit 24/5/24 aggiunta versione 1080p. I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Giornalista si fa ricoverare in manicomio per scoprire un assassino. L’esperienza è terribile. Senza uscita. Girato esclusivamente in interni, è un allucinante “a porte chiuse” che punta sull’emozione più che sul ragionamento. S. Fuller fa un cinema da pugile, ma i suoi colpi sono i veicoli di un’idea da comunicare. Suggestivo bianconero del veterano Stanley Cortez (1908). In alcune copie c’è una sequenza onirica a colori.
Dal romanzo Chien blanc (1970) di Romain Gary, cui è dedicato. Un’attrice prende in casa un cane bianco dopo averlo investito, scoprendo che è stato addestrato ad attaccare i neri. Apologo antirazzista quasi ingenuo nel suo schematismo senza sfumature, appeso a una suspense sottile ma assidua, con 2 o 3 sequenze notevoli tra cui quella del nero sgozzato in chiesa. Notevole fotografia di Bruce Surtees, meno la musica di E. Morricone. La Paramount non lo distribuì negli USA, ritenendolo politicamente scorretto.
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