Architetto ipocondriaco si rinchiude in un bungalow a copulare con Francesca che gli procura un’erezione permanente. Quando lei sta per andarsene, la uccide e la mangia a fettine. Pur con estri e sprazzi, è un film di riporto con le polveri bagnate, una provocazione un po’ futile e meccanica. F. Dellera non recita, esiste, corpo d’amore spinto all’eccesso, all’artificio.
Per godere della compagnia degli amici superstiti, tutti paralitici, l’ottantenne don Anselmo chiede ai familiari una carrozzella a motore. Gliela negano, lui li avvelena. 3° e ultimo film spagnolo di M. Ferreri. Apologo crudele e grottesco sulla vecchiaia e l’ipocrisia dei rapporti familiari borghesi. È anche un ritratto impietoso della Spagna franchista.
Luca è figlio di un ricco industriale ma non è per nulla interessato alle sorti dell’azienda: Il suo interesse è rivolto all’India e alle pratiche di meditazione trascendentale. Il padre e la sorella, che non vogliono che il patrimonio familiare si disperda, gli mettono alle calcagna una psicologa che finge di innamorarsi di lui fino a sposarlo con lo scopo di ricondurlo all’ovile. Grazie al forte richiamo di un corpo spesso proposto ma mai concesso, l’affascinante e determinata ragazza sembra riuscire nell’intento di far riconciliare Luca con il capitale. Il suo inganno però verrà scoperto e il ragazzo l’avvelenerà con i funghi decorando il cadavere con fregi pop. Dopodiché il corpo verrà fatto sparire e nel finale, dopo un falso riconoscimento, Luca parteciperà al funerale in abito nero regolamentare insieme al padre e alla sorella mentre un gruppo di jazzisti si scatena al loro passaggio. Il venticinquenne Roberto Faenza nell’anno di grazia 1968 certifica le immense capacità di fagocitazione del capitale il quale non solo è capace di vanificare sogni e aspirazioni ma sa anche eliminare senza lasciare traccia le proprie mosche cocchiere. Faenza va anche oltre rigirando il coltello in una piaga ancora di là da venire. Quanti Luca hippie e contestatori in quegli anni abbiamo ritrovato poi dietro le scrivanie di dirigenza delle industrie paterne, in posti manageriali di alto livello o schierati politicamente in partiti conservatori? Quello di Faenza non è però un qualunquistico pregiudizio da maggioranza silenziosa. Si tratta piuttosto di un lucido avvertimento nei confronti di un ribellismo tanto facile da indossare quanto da dismettere con tanto di viaggi in India e di evasioni prive di motivazioni consistenti. Con stile a tratti grottescamente leggero, con una macchina da presa capace di cogliere gli stordimenti collettivi così come le fredde geometrie di una lucida strategia di assuefazione alla droga-denaro, Faenza realizza un film che, provocatoriamente, lancia sassi in più di una piccionaia.
Nel luglio del 1921 una spedizione armata di 600 fascisti, guidati da Amerigo Dumini, raggiunge Sarzana (La Spezia) per liberare Renato Ricci e per dare una lezione alla cittadina “rossa”. La spedizione è respinta dalla forza pubblica (Carabinieri) e dalla popolazione, organizzata in formazioni paramilitari, compresi gli Arditi del Popolo. Rimangono uccisi 13 fascisti, 18 secondo altre fonti. La struttura narrativa del film – esposto alla Mostra di Venezia 1980 e mandato in onda dalla RAI, che l’aveva prodotto, il 22-8-1981 – segue l’itinerario dell’ispettore generale Trani (Graziosi), plenipotenziario di Ivanoe Bonomi, capo del governo e ministro degli Interni, nel ricostruire l’accaduto e nel ricercarne cause e responsabilità in modo da offrire al suo superiore lo strumento politico per disarmare i fascisti su tutto il territorio nazionale. L’aggettivo “perduta” del titolo allude alla tesi di fondo: Sarzana fu un’occasione perduta per la democrazia italiana e, in particolare, per la sinistra: il 23 luglio 1921, due giorni dopo i fatti, i socialisti votano contro il programma di Bonomi che ottiene la maggioranza con i voti della destra; il 3 agosto il Partito socialista stipula con quello fascista un patto di pacificazione che, in pratica, lascia la sinistra italiana in balia del fascismo armato. Vigoroso e scattante come un buon western nella 1ª parte, un po’ monotono e greve nella 2ª, affidata a un rigoroso dibattito ideologico e storico, è un film corale dove ogni personaggio fa perno su a un nucleo politico che ne determina il “dire” e il “fare”. Distribuito con profitto da Ippogrifo Liguria in home video nel 2006.
Le storie di alcuni vicini di casa si intrecciano in un quartiere agiato nella zona sud di Recife, in Brasile. La casalinga Bia, madre di due bambini che prendono lezioni private di inglese e cinese, è stressata dai latrati notturni del cane dei vicini e non riesce a dormire. Il trentenne Joao – agente immobiliare per conto del nonno arricchitosi con una grande piantagione di zucchero – conosce la bella Sofia e se ne invaghisce. I due trascorrono la notte a casa di lui, ma al risveglio scoprono che qualcuno ha rubato lo stereo dall’automobile della donna. Joao sospetta che il colpevole sia suo cugino Dinho, ventenne problematico e insolente. Intanto, gli episodi di microcriminalità nel quartiere spingono gli abitanti ad assoldare una squadra di vigilanti notturni per proteggere le loro case.
Clara è un critico musicale e vive in un palazzo degli anni ’40 chiamato “Aquarius”, che si affaccia sul lungomare di Avenida Boa Viagem in Brasile. Una compagnia immobiliare ha già acquistato tutti gli appartamenti dell’edificio per farne un grattacielo di lusso, ma Clara è decisa a non cedere la casa a cui è legata da ricordi belli, brutti, dolorosi, affettuosi di quasi 70 di vita. La compagnia le fa una pesante guerra psicologica, ma lei, abituata a lottare (anche contro il cancro) non si arrende. Presentato in concorso al 69° Festival di Cannes è l’opera 2ª del regista, che cuce il film perfettamente sulla pelle della intrigante Braga. Una storia lunga e placida, ma accattivante, ricca di sfumature di toni e di umori, che parla di memoria e di libertà, di solitudine non dolorosa e di forza interiore. Un film in cui la musica e il passato sono 2 eleganti co-protagonisti.
Il figlio di un avvocato viene fatto ricoverare dal padre – col quale ha rapporti burrascosi – in un manicomio criminale. Qui il ragazzo stringe amicizia con un epilettico e tenta la fuga per due volte.
Un nobile molto ammalato sparisce senza lasciare traccia. Gli eredi, perciò, dovranno aspettare un certo tempo prima che l’uomo venga ritenuto defunto ed essi possano riscuotere l’eredità. Nel frattempo avvengono suicidi e delitti, dei quali solo alla fine si scoprirà l’autore; anche il corpo del nobile verrà ritrovato.
Greg è un aspirante attore, ancora incapace di lasciarsi andare, che rimane affascinato, durante una lezione, dalla libertà d’espressione e dalla carica emotiva di uno strano tizio di nome Tommy Wiseau. Greg diventa così il primo amico che Tommy abbia mai avuto e i due partono per cercare fortuna verso Los Angeles. Ma la fortuna è merce rara, e il sogno di fare cinema brucia dentro di loro, al punto che i due partoriscono l’idea folle di The Room: un film scritto diretto interpretato e prodotto da Tommy, passato alla cronaca come il film più brutto della storia del cinema.
Immersione in apnea nel microcosmo a porte chiuse degli agenti immobiliari, disposti a tutto pur di vendere. Da una commedia (1982) di D. Mamet, premio Pulitzer, un bell’esempio di teatro in scatola (o di cinema di parola) con un’eccellente squadra di attori e una regia funzionale anche nel dare ritmo implacabile a un testo che fa pensare a una jam-session jazzistica. Una media di 4-5 parolacce al minuto. Fu rappresentata in Italia con la regia di Luca Barbareschi.
Nel XVII secolo le Fiandre subiscono l’invasione degli spagnoli. In una cittadina posta sul loro cammino gli uomini, spaventati, decidono di chiudersi in casa temendo i massacri perpetrati in altre città. Le loro mogli, invece, muovono incontro al nemico e lo accolgono con gentilezza, invitandolo alla tradizionale festa cittadina. Evitano così il saccheggio e convincono il comandante a ripartire il giorno seguente. Uno dei capolavori assoluti del cinema. Feyder usò grandi mezzi, ispirandosi ai quadri di pittori fiamminghi come Bruegel e Vermeer, ma questo sfarzo, invece di togliere qualcosa alla robustezza del discorso, lo valorizza ulteriormente.
Ricchissimo e potente consulente finanziario (M. Douglas) a San Francisco riceve in regalo dal fratello (S. Penn), alla vigilia del suo 48° compleanno, la tessera d’iscrizione a un club che organizza giochi personalizzati per animare esistenze monotone. Si mette in contatto con il club e si trova a vivere un incubo, una vita a rischio continuo. Il “gioco” ( game ) è riuscito: suspense, intensità, mistero, sorprese, disavventure ansiogene, invenzioni di regia. Ma riuscito il film non lo è: c’è un eccesso di ingegnosità di intrigo che diventa stravaganza gratuita, senza contare la madornale sproporzione tra i mezzi e il fine. Il difetto, insomma, è nel manico, nella sceneggiatura di John Brancato e Michael Ferris. Tutto è truccato in questa metafora del cinema.
Morto Ettore il comando viene affidato ad Enea. Paride, suo rivale, stipula una tregua con i greci, consegnando loro l’amata di Enea. Questi sfida Achille per riaverla, ma Paride uccide il nemico a tradimento e fa imprigionare il troiano. Quella notte i greci entrano in città: Enea fugge col figlioletto.
Jean-Christophe è una guardia carceraria che conduce una vita priva di sorprese dividendosi tra il lavoro in prigione e la sua abitazione in cui ha come unica compagnia un pesce rosso. Si iscrive ad un corso di tango e lì fa la conoscenza di una giovane donna, Alice, che attrae la sua attenzione. La ritroverà nel parlatorio del penitenziario a colloquio con due detenuti. Uno, Fernand, è suo marito e l’altro, Dominic, è l’amante. Frédéric Fonteyne fin dal suo esordio con Una relazione privata ha mostrato il suo interesse per la complessità delle relazioni amorose che si possono instaurare tra uomini e donne. Il suo pregio più rilevante, oltre a una costante ricerca estetica, era costituito dal ‘non detto’. Il passato dei personaggi e il loro stesso milieu culturale stavano sullo sfondo. Ciò che contava era il loro esserci ‘qui ed ora’ con, in quel caso, una fantasia sessuale da soddisfare della quale lo spettatore non sarebbe mai venuto a conoscenza. È un peccato che dal film successivo La donna di Gilles abbia ceduto alla tendenza del raccontare troppo; difetto presente anche in questo film, in particolare nella parte finale. Perché fino a quel punto si è attratti da come regista e attori riescano a rendere credibile l’intreccio di relazioni che Alice gestisce con una capacità di seduzione che il tango porta all’ennesima potenza. È attraverso le sue figure e la sua conclamata carica erotica che la danza fa breccia nel grigiore dell’esistenza di Jean-Christophe finendo con il fare da ponte tra l’esterno e l’interno delle mura carcerarie. Perché Fernand, accortosi dell’interesse della guardia, vuole continuare ad essere l’uomo di Alice e quindi chiede a un detenuto argentino di insegnargli i passi. L’iniziale dileggio machista degli altri carcerati finisce con il trasformarsi in una condivisione di passi e di regole che invece che costringere lasciano spazio a una forza dirompente e liberatoria. Fonteyne pedina le reazioni, anche violente, dei suoi personaggi ma, ancora una volta, si lascia tentare dal sovraccaricare il soggetto (scritto insieme all’attrice protagonista e basato in parte su dati biografici) inserendo la figura del figlio adolescente di Alice che sarebbe bastata da sola per un intero altro film e che finisce invece per sfiorare la retorica alterando quella che si presentava come l’intrigante ed elegante fluidità di un passo a quattro.
Il giovane prete Lorenzo Milani, irrequieto sacerdote fiorentino, è spinto da un forte sentimento cristiano di aiuto verso il prossimo e di contrasto alle ingiustizie. Nella parrocchia di San Donato a Calenzano si mette in luce come colui che è vicino agli ultimi, e al tempo stesso come uno scomodo sacerdote, critico verso la chiesa e lo stato. Il vescovo di Firenze, dopo avergli tolto la guida della parrocchia di Calenzano, lo trasferisce in un piccolo centro abitato in mezzo ai boschi, sul Monte Giovi : Barbiana. Un chiaro “esilio”, per mettere a tacere un prete scomodo.
Momenti salienti, spesso in tempo reale, degli ultimi 10 anni della vita della poetessa milanese Antonia Pozzi (1912-1938): l’amore per il suo professore di greco al liceo, stroncato dall’ingerenza paterna; il giudizio negativo alle sue poesie del suo docente universitario di letteratura; le scalate sulle Grigne; gli innamoramenti frustrati per due coetanei. Sceneggiata con Carlo Salsa, l’opera 1ª di Filomarino è un’indagine volutamente discreta e irrisolta – condotta con una scrittura asciutta ed ellittica, che lavora di sottrazione – sulla profonda ed enigmatica interiorità di un’artista. Ma è anche un tentativo riuscito di ricostruire, con acribia filologica, il suo contesto socio-ambientale, cioè la Milano degli anni ’30. Privo di colonna musicale, a eccezione della canzone “Va” di Piero Ciampi, essenziale, di grande eleganza figurativa, deve molto al nitore della fotografia di Sayombhu Mukdeeprom, ai costumi di Ursula Patzak, alle scenografie di Bruno Duarte e all’originale interpretazione di Linda Caridi. A volte, tuttavia, il regista si compiace della sua intransigente austerità e scivola nella grevità. Menzione speciale al Festival Karlovy Vary. Prodotto da Luca Guadagnino.
Salvo Borgna, operaio siciliano trapiantato a Torino, sale sulla torre più alta della sua fabbrica quando l’azienda annuncia la chiusura e il licenziamento in tronco dei dipendenti. Giorgio Bettenello, rappresentante sindacale, segue Salvo per impedire che si butti di sotto, e finisce per diventarne ostaggio – o almeno così pensa il padrone della fabbrica. In realtà Salvo e Giorgio, che hanno etichette politiche opposte – Salvo è un berlusconiano e prima ancora un “fascista”, Giorgio un “depresso di sinistra” e prima ancora un “comunista” – sono accomunati dalla disperazione non solo per aver perso il proprio posto di lavoro, ma anche per lo stato in cui il lavoro si è ridotto, negli anni della crisi. Entrambi in qualche modo addebitano la colpa del presente allo sfacelo politico ed etico degli anni precedenti, a cominciare da quel 1978 in cui Moro fu assassinato. Nel ’78 è anche nato Luca Ottolenghi, il guardiano ipovedente e borderline autistico che Salvo soprannomina “assunzione obbligatoria”. Luca, ispirandosi al saggio di Enrico Deaglio Patria (cui è a sua volta ispirato il film), ha memorizzato tutti gli eventi drammatici della storia italiana recente, e procede a ripercorrerli insieme a Salvo e Giorgio, dopo essere salito anche lui in cima alla torre. Noi spettatori a nostra volta rivediamo quegli eventi attraverso immagini tratte dalle Teche Rai oltre che da numerosi altri archivi e dal Centro Sperimentale di Cinematografia. L’idea di Patria è accattivante, e la scelta di rendere protagonisti tre “sfigati di cui non importa niente a nessuno” è nobile. Purtroppo però l’esecuzione filmica della storia è debole e poco chiara nell’identificare un rapporto di causa-effetto fra gli episodi storici e la situazione dei tre uomini sulla torre. Chi non conosce il passato recente dell’Italia – leggi: i giovani – avrà difficoltà a capire a quali eventi e quali personaggi si riferiscono le tante immagini reali che inframmezzano la narrazione fictional creata da Felice Farina come filo conduttore. Le scritte sui titoli di coda come compendio storico-politico arrivano troppo tardi a sostituire un vuoto drammaturgico, così come le ipotesi sul destino futuro dei tre protagonisti fanno venire voglia di vedere quel film, invece di quello che abbiamo appena visto. Se da un lato è interessante dare una struttura teatrale (e specificamente “beckettiana”, cui contribuisce soprattutto lo stralunato personaggio di Luca) ai dialoghi fra i tre, dall’altro sarebbe necessario “usarli” meglio per spiegare i collegamenti fra i vari eventi che hanno portato allo stato di degrado contemporaneo: in questo senso La trattativa di Sabina Guzzanti compiva lo stesso sforzo in maniera più comprensibile ed efficace (benché dichiaratamente di parte). Farina azzecca invece il tono postatomico delle inquadrature (la fotografia è di Roberto Cimatti) e l’accompagnamento musicale straniante (Valerio C. Faggioni), ricco di stridori industriali. Se la narrazione fosse rimasta altrettanto essenziale, sfrondata delle polarizzazioni ideologiche fra i personaggi e della recitazione gridata di Pannofino nei panni di Salvo, Patria ne avrebbe sicuramente giovato. Così invece la sacrosanta indignazione del regista rischia di sconfinare nel qualunquismo e nella banalizzazione di una realtà, ahimé, quotidianamente sotto gli occhi di tutti.
È un film molto intrigante e capace di coinvolgere emotivamente quello che Farina coprodusse (con Nina Film) e scrisse con Mauro Casiraghi ed Eleonora Fiorini nel 2003. Lo finì nel 2009 quando fu presentato ai Festival di Montréal e Pesaro (con premio) trovando solo nel 2010 una debole distribuzione. Orfano di padre, a 7 anni Alessandro vive con Giulia, madre apprensiva, in una villa sulla costa piemontese del Verbano. Dall’Australia torna lo zio Claudio, con cui Giulia ha un rapporto più che affettuoso. Alessandro ha un’istintiva diffidenza per lo zio, forse anche per gelosia, ed è vittima di strane “visioni” legate all’acqua, dalla quale è terrorizzato. Le sue visioni, come espressioni di un “pensiero desiderante” non si distinguono nel film dalla realtà dove il piccolo cerca di eliminare il “rivale”, prima sabotandogli i freni dello scooter, poi quelli dell’auto su cui sale anche la madre. Nell’incidente rimangono entrambi feriti, inducendolo a sentirsi un assassino, ma anche a recuperare un remoto ricordo: la morte del padre non fu accidentale, ma delittuosa. Un intelligente ispettore di polizia si interessa ad Alessandro e conquista la sua fiducia. La struttura del film è quella di un giallo a enigma visto dal punto di vista di un bambino e in cui l’ambientazione – la strana villa sul lago in cui si svolge quasi sempre l’azione, bellissima e inquietante, moderna e fatiscente – ha un ruolo importante. Pieno di sfaccettature interessanti nel disegno psicologico dei personaggi, Farina è molto attento e sensibile al mondo dell’infanzia. Gli attori lo assecondano: una Cortellesi “diversa” e credibile, il rozzo Amendola, e soprattutto l’intenso Vavassori e il suo amichetto Pavanello.
Rientrato in famiglia a Torino, il ventiduenne Walter Verra, figlio di un operaio, disoccupato, obiettore di coscienza, iscritto alla facoltà di filosofia per inerzia, vergine un po’ per scelta e un po’ per pigrizia, concupito dalle donne, vive alla giornata in una Torino multirazziale finché la morte di un’amatissima zia e l’incontro con una giovane gitana lo fanno passare all’età adulta. Forse. Da un romanzo (1994) di Giuseppe Culicchia una commedia acida, romantica e vitale che conta come ritratto di un personaggio (specifico più che tipico) più che come spaccato sociologico: “rivela un ritmo studiatissimo, ma frenetico … sorprende per questa sua generosità di riprese” (L. Pellizzari). Ha in Mastandrea un decontratto interprete del malessere generazionale e una colorita galleria di figure tra cui spicca una ritrovata C. Caselli come zia alternativa. Prodotto dal valente Gianfranco Piccioli. Dedicato a Lindsay Anderson. Sottovalutato da molta critica trovò il suo pubblico e 2 premi.
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