Tre trasposizioni da Edgar Allan Poe ad opera di altrettanti prestigiosi registi. Nell’episodio Metzengerstein, una lussuriosa castellana s’accende per un uomo che la rifiuta. Conseguenze tragiche. In William Wilson, un ufficialetto austriaco, cinico e sadico, è affrontato da un nemico che gli somiglia e ucciso. In Toby Dammit, un attore di cinema, a Roma per un western, ha continuamente un incubo.
Nuovo Messico, 1874. Corriere dell’esercito USA uccide per legittima difesa il marito di una ranchera che gli piace. Catturato dagli indiani, è liberato perché creduto il marito di lei. Uno dei primi western adulti degli anni ’50 sulla scia di Il cavaliere della valle solitaria. Un po’ verboso, ma ben recitato con la Page esordiente che si meritò una nomination all’Oscar e soprattutto da un Wayne di intensa sobrietà _ nel personaggio eponimo di un mezzo sangue che fu uno dei suoi preferiti. Da un romanzo (1953) di Louis L’Amour, ben sceneggiato da James Edward Grant che accentuò il rispetto per i pellerossa. Fotografia: Robert Burks. Restaurato nel 1995 e nel 2007 con l’originale destinazione in 3D.
Violoncellista di fila di Verona (Buzzanca) frustrato, si fa invidiare per le rotonde forme della bella moglie innamorata (Antonelli) finché la esibisce nuda davanti a 20 000 spettatori dell’Arena durante l’ Aida . Finisce in manicomio. Dal poco noto romanzo Il complesso di Loth di Luciano Bianciardi una delle più pimpanti e aguzze commedie di Festa Campanile che, con un crescendo paradossale, è un iperbolico apologo sulla crisi d’identità con un Buzzanca in forma e con una fulgida Antonelli al culmine della sua sensualità dalle segrete reticenze. Leo Pestelli, sorvegliato critico di “La Stampa”, scrisse: “Attrice da tenere sott’occhio, e possibilmente sottomano”. Uno dei film italiani più esportati dell’epoca.
West Hollywood, California, 1979. Drag queen in un locale di Los Angeles, Rudy Donatello conosce il vice procuratore distrettuale Paul Fliger col quale ha un fugace rapporto sessuale. Quando la sua vicina di casa tossicodipendente è arrestata, il figlio di lei, Marco, quattordicenne affetto dalla sindrome di Down, viene affidato ai servizi sociali. Una sera, Rudy incontra il ragazzo che è riuscito a tornare all’appartamento in cui viveva con la madre dopo essere fuggito dai servizi sociali. Rudy decide così di prendersene cura: per riuscire ad ottenere la custodia temporanea di Marco, chiede aiuto all’uomo di legge Paul, insieme al quale costituirà una famiglia che attirerà pregiudizi e discriminazioni. Basato su un fatto realmente accaduto, Any Day Now è carico di passione, umanità, lampi di fortissima commozione che creano un’empatia immediata con il pubblico. Del resto, siamo alle prese con personaggi autentici, credibili, assorbiti in una spirale da melodramma in puro stile anni Settanta, in un rimescolamento delle coscienze che mette in gioco il punto di vista sugli affetti, la cura dell’altro, lo smarrimento emotivo: risulta curioso, in tal senso, notare che nello stesso anno in cui questa storia veniva vissuta e patita dai suoi reali protagonisti al cinema usciva Kramer contro Kramer, al quale il lavoro di Travis Fine può essere accostato per alcune affinità di scansione drammatica.
Il film racconta la storia di coppie sposate e frustate da partner noiosi, figli viziati e vite prevedibili, che il giorno sembrano famiglie perfette mentre nella notte sono tutt’altro. Sarah è una madre sposata con un marito, Richard, ossessionato con il porno su internet. Todd è un padre casalingo sposato con Kathie, documentarista fissata dal voler fargli riprendere la carriera legale. Mary Ann è una supermamma organizzata con una figlia di 4 anni già con il futuro destinato ad Harvard. E infine Ronnie, un pedofilo uscito dalla prigione che fa ritorno a casa. In questo clima di famiglie disfunzionali, Sarah e Todd iniziano una storia che li riporta all’età dell’adolescenza, in quel periodo di libertà tra le responsabilità dell’infanzia e quelle di essere genitori.
Nick è uno scrittore disoccupato, torna al paese natio per assistere la madre malata e compra un bar in società con la gemella. Il giorno del suo quinto anniversario di matrimonio, sua moglie Amy – figlia di una coppia di celeberrimi scrittori di libri per bambini che hanno inventato il personaggio della “mitica Amy” a lei ispirato – scompare e Nick è sospettato di averla uccisa. I media si scatenano, coinvolgendo l’America intera. Riduciamo al minimo la trama per gli spettatori che non hanno letto il libro Gone Girl (2012), best seller di Gillian Flynn, anche sceneggiatrice. Per quelli che invece l’hanno letto la riduzione inevitabilmente frettolosa a colpi di scena ravvicinati può lasciare perplessi. Prodotto da Reese Witherspoon, è in superficie uno psico-thriller, assolutamente non hitchcockiano, come invece qualcuno ha scritto, coinvolgente e che mette a disagio; un’analisi impietosa del matrimonio come tomba dell’amore, dell’erotismo e del divertimento e, scavando ancora un po’, il ritratto di un’America tremenda, di facciata, falsa, schiava delle apparenze e dei più beceri mezzi di comunicazione. Affleck, meno bamboccione del Nick della Flynn, ma incapace di una vasta gamma espressiva, rende involontariamente benino il suo personaggio. La Pike è una perfetta psicopatica con l’occhio allucinato. I personaggi minori (la gemella Margot, il primo moroso di Amy e soprattutto i tremendi – nel libro – genitori) troppo opachi e fuori fuoco.
Nel 1910 il terrore si sparge a Vandorg, paese della Foresta Nera, per una serie di omicidi misteriosi in cui le vittime sono impietrite. Due scienziati e un poliziotto indagano. C’è una donna che, durante le notti di luna piena, si sdoppia e diventa la mitica Gorgone che dolorosamente pietrifica con lo sguardo chi la desidera. È uno degli horror più tristi della Hammer e l’unico, tra quelli diretti da T. Fisher, imperniato sul dualismo di una protagonista femminile (B. Shelley e, da mostro, P. Hyman). Scritto da John Gilling, si presta a una doppia lettura: psicanalitica e come un’allegoria della scopofilia. Secondo Esiodo e il mito greco, le Gorgoni erano tre: Euriale, Steno e Medusa. Soltanto la terza era mortale. Tolti alcuni passaggi lirici, T. Fisher mette in immagini la storia con spiccia energia. Peccato che i trucchi siano grossolani. E C. Lee sembra a disagio nel suo rigido abito di tweed.
Un imbianchino parigino (Piccoli) che vive con la madre e la sorella ha d’improvviso un’irrefrenabile pulsione di rivolta: si barrica in casa, trasformandola in una specie di caverna, contagiando col suo esempio tutto il quartiere. Le forze dell’ordine sono impotenti. Film senza dialoghi, sostituiti prima con grugniti e poi con ruggiti liberatori. Apologo radicale di taglio anarchico e libertario condotto al ritmo farsesco del teatro dell’assurdo.
Come S. Frears e il suo sceneggiatore Peter Morgan hanno salvato la regina Elisabetta II (e un po’ anche Tony Blair) quando, nell’agosto 1997, la famiglia reale attraversò un grave momento nella settimana seguente alla morte della principessa Diana. Erano così imbalsamati nella tradizione da non voler rompere con il protocollo nemmeno in quella situazione di lutto popolare. Sostenuto da una maniacale attenzione ai dettagli e da un puntiglioso lavoro di documentazione, convincente negli inevitabili passaggi inventati sui retroscena, il film riesce a essere divertente, persino commovente, ma anche puntuto e perfido con intelligenza, con azzeccati inserti di filmati di repertorio. Frears lavora con la maestria di un grande direttore d’orchestra. Attrice versatile che recita di fino – specialista in regine (Cleopatra a 18 anni in teatro; Queen Charlotte in La pazzia di re Giorgio con premio a Cannes; Elisabetta I nel 2004 in una miniserie TV HBO con un premio Emmy) – H. Mirren vinse con merito l’Oscar e la Coppa Volpi a Venezia 2006 dove fu premiata anche la sceneggiatura. Nel 2003 M. Sheen interpretò Tony Blair nel film TV The Deal della coppia Morgan/Frears.
A Barrytown – quartiere immaginario a nord di Dublino, sfondo di una saga operaia in 3 romanzi di Roddy Doyle – sta per nascere uno snapper (in gergo irlandese “marmocchio”) concepito in stato di ubriachezza birrosa, frutto di una gravidanza indesiderata della ventenne Sharon Curley (Kellegher), commessa in un supermercato e figlia di un imbianchino che ha altri cinque figli. L’annuncio mette in crisi la famiglia e in movimento le malelingue. Sceneggiato dallo stesso R. Doyle dal suo romanzo omonimo e prodotto a basso costo dalla BBC, è una commedia ottimistica e impertinente di impetuosa vitalità, sanguigna e tenera nel suo ruvido umorismo irlandese, diretta da S. Frears dopo la sua parentesi hollywoodiana. La sua direzione degli attori, tutti irlandesi e in buona parte provenienti dall’Abbey Theatre, è ammirevole. C. Meaney, che interpreta la parte del padre, aveva lo stesso ruolo in The Commitments .
Rimasta vedova e piena di quattrini, Lady Henderson decide di investire il suo denaro nella ristrutturazione e nel rilancio di un locale del West End, il Windmill, nato come sala cinematografica e trasformato poi nel 1931 in teatro di prosa prima e in teatro di varietà poi. Per conquistare maggior audience – si direbbe oggi – propone al suo direttore di introdurre negli spettacoli nudi femminili con l’escamotage, per aggirare la censura, che le ragazze siano quadri viventi, immobili sullo sfondo dello spettacolo. Il pubblico affluisce numeroso. La storia – parzialmente vera – è raccontata da Frears con elegante e raffinata leggerezza, la stessa con la quale sfiora la realtà della guerra e l’eroico comportamento quotidiano dei londinesi. In primo piano, la Dench trionfa in istrionismo e trascina con sé un Hoskins sommessamente autoironico in una lunga serie di bisticci affettuosi e piccati, quali solo un’anziana coppia può avere.
Un giovane con l’auto in panne trova ospitalità in una fattoria. Non tarda ad accorgersi di strani fenomeni. I componenti della famiglia (fra cui una ragazza di cui il giovanotto si innamora) attendono di essere trasformati in morti viventi. Finale cruento.
Nel X secolo i Vichinghi, pirati della Scandinavia, per anni hanno attaccato le coste inglesi. Durante un’incursione, il capo Ragnar uccide il re e usa violenza alla regina di Northumbria. Nasce un bimbo che, dopo mille disavventure, diventa re dei Vichinghi e sposa Morgana, assicurandosi la corona inglese. Trascinante film d’avventure percorso da una forza d’immagini spesso brutale e da un lirismo potente. Girato con larghi mezzi ha esaudito tutte le ambizioni di un regista che si è avvalso dell’opera di professionisti come Jack Cardiff per la fotografia e Mario Nascimbeni per la musica. Tratto dal romanzo The Viking di Edison Marshall, sceneggiato da Calder Willingham. Nell’edizione originale la voce narrante era di Orson Welles. I disegni animati (dell’UPA) che aprono e chiudono il film sono ispirati a una tappezzeria di Bayeux. Superbo Douglas, anche coproduttore.
Cento anni fa nasceva a Rimini Federico Fellini. Regista amato all’inverosimile in quegli Stati Uniti che l’hanno persino corteggiato a un certo punto, ma alle cui lusighe Fellini non ha mai ceduto (diceva che fuori dall’Italia non avrebbe saputo come raccontare un altro popolo).
Criterion perciò ne celebra il centenario con un cofanetto contenente 14 dei suoi film (mancano I clowns, Casanova, Prova d’orchestra, La città delle donne, Ginger e Fred e La voce della luna), più altro materiale che ne arricchisce l’offerta. Undici di questi sono stati rimasterizzati in 4K, il che di per sé rappresenta un incentivo non da poco. Il resto lo trovate di seguito, a partire dai titoli, oltre che sul sito ufficiale di Criterion.
La vedova di un broker ucciso da un folle che ha compiuto una strage decide di citare in tribunale un’importante industria di armi e si fa rappresentare da Wendall Rohr (Hoffman), tenace avvocato che crede nel trionfo della giustizia. All’ombra di quello della controparte, invece, è stato posto Rankin Fitch (Hackman), corrotto e spregiudicato, ma rinomatissimo “consulente per giurie”. E mentre i due principi del foro si fanno la guerra, Nick Easter (Cusack), uno dei giurati in isolamento, con la segreta complicità della sua bella fuori, manipola la giuria per ottenere il verdetto che vuole. Da un best seller di John Grisham con 2 sostanziali differenze: nel libro la vedova di un uomo morto per tumore ai polmoni trascina in tribunale una multinazionale del tabacco; l’azione è spostata da Biloxi in una suggestiva New Orleans (350 miglia). Una macchina-film che funziona a meraviglia fino alla sorpresa finale politically correct . Due mostri sacri, entrambi vincitori di 2 Oscar, si contendono la scena con due personaggi opposti in tutto e si divertono gigioneggiando alla grande. Ne escono alla pari. L’incontro-scontro nei bagni vale da solo la visione del film. Ma sono bravi anche gli altri, primo fra tutti Cusack.
La tormentata esistenza dei soldati in uno sperduto forte nella pampa argentina del primo Ottocento. Indigeni e disertori complicano la vita quando un convoglio di donne si mette in viaggio verso il forte. Efficace nell’ambientazione e nella ricerca dei motivi che portano alla disperazione gente allo sbando e mal guidata. È il remake di Pampa bárbara (1945), il 1° film dell’argentino H. Fregonese che lavorò a Hollywood e in Europa. Altro titolo originale: Savage pampas.
«Morire gratis è morire per niente ma io non ho paura della morte… artista delegato, impotente, alcolizzato». Sono le parole di Franco Angeli, nella vita come nel film artista romano di piazza del Popolo, in viaggio on the road da Roma a Parigi in compagnia della sua ultima creazione artistica: una lupa capitolina. In netto anticipo rispetto a Easy Rider (la droga viene nascosta nel ventre della scultura, nel film statunitense veniva collocata nel serbatoio delle motociclette), Morire gratis è l’unico lungometraggio, mai distribuito, di Sandro Franchina, rosselliniano nell’ascendenza (interpretò il bambino di Europa ’51), amico di Jean Rouch, di Bellocchio e di Rohmer, collaboratore di Langlois alla Cinémathèque Française. Il film è uscito solo di recente dall’ oblio.
Il professor Abel ha inventato il “siero Z” che può mantenere in vita organi di animali morti collegandoli ad una macchina avveniristica. Sofferente di crisi cardiache, l’uomo ordina al dottor Ood di trapiantare il suo cuore in caso di un attacco mortale e quando il temuto evento si verifica, l’assistente segue scrupolosamente le indicazioni del maestro, ma con intenti “leggermente” diversi: di Abel sopravvivono, infatti, soltanto il cervello e la testa amputata. Reso folle dall’ebbrezza del successo e sapendo di poter costringere quanto resta di Abel (…la parte più geniale) a collaborare, il dottore continua altri spaventosi esperimenti che culminano nel trapianto della testa di Irene – infermiera dal viso bellissimo ma dal corpo sgraziato – sulle membra perfette di Lilly, splendida spogliarellista. Come è prevedibile, le sparizioni delle ragazze insospettiranno ben presto la polizia che non tarderà a ricollegarle al laboratorio del dottor Ood. La presenza del “mostro sacro” Michel Simon (nel ruolo del professor Abel) e le scenografie di Hermann Warm (che al suo attivo ha il celebre Gabinetto del dottor Caligari) conferiscono al film le giuste atmosfere per farlo apprezzare. Il personaggio di Irene richiama, forse, la figura di Nina, infermiera bella ma deforme nel corpo, di House of Dracula (da noi giunto con il titolo La casa degli orrori).Ultimo film di Victor Trivas (già sceneggiatore di El Moderno Barba Azul), conosciuto negli Stati Uniti con i titoli: A Head for the Devil, The Head, The Screaming Head.
Scritto dal regista con Anna Boden. Un sensibile e idealista prof in una scuola media si fa di eroina per sopportare le delusioni e le frustrazioni della sua vita. Un’allieva di 13 anni scopre il suo segreto. Tra i due nasce una cauta e intensa amicizia. Un tema difficile e delicato che poteva scadere nella retorica didascalica, ma i due protagonisti – lei con la sua precoce saggezza di adolescente in crescita, lui nella sua ambivalente e dolorosa psicologia – sono scritti e diretti con tale grazia leggera che risultano credibili e appassionati. Non a caso Gosling ebbe per questo ruolo una candidatura all’Oscar. Avrebbe meritato di vincere.
Marianne (Yvonne Molaur) è un’insegnante francese diretta a una scuola femminile in Transilvania dove dovrebbe prendere servizio. Una sosta apparentemente casuale la blocca nei pressi del castello Meinster e la baronessa (Martita Hunt) la invita a trascorrervi la notte. Al castello abita anche il suo misterioso figlio, il barone Meinster (David Peel), tenuto legato perché, dice la baronessa, malato di mente.
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