Tempi duri per una tranquilla famiglia di agricoltori, in un Oklahoma squassato dagli uragani e dalla Grande Depressione. Red, musicista ubriacone, condannato dalla tubercolosi, parte in cerca di miglior fortuna con il nipotino Whit. Sulla strada per Nashville, dove li attende un festival “country”, zio e nipote, accompagnati anche dal vecchio nonno, incontrano il sesso, l’amicizia, la nostalgia, il successo.
Zev Guttman, ebreo affetto da demenza senile, è ricoverato in una clinica privata con Max, con cui ha condiviso un passato tragico e l’orrore di Auschwitz. Max, costretto sulla sedia a rotelle, chiede a Zev di vendicarli e di vendicare le rispettive famiglie cercando il loro aguzzino, arrivato settant’anni prima in America e riparato sotto falso nome. Confuso dalla senilità ma determinato dal dolore, Zev riemerge dallo smarrimento leggendo la lettera di Max, che pianifica il suo viaggio illustrandone i passaggi.
Thomas Wake è il guardiano stagionale di un faro sperduto nel nulla, su un’isola battuta da venti e tempeste, nella Nuova Scozia di fine Ottocento, mentre Ephraim Winslow è il suo giovane aiutante, propostosi volontario per le quattro settimane del turno. L’accanirsi del maltempo costringerà i due uomini ad una permanenza ben più lunga del previsto e ad una convivenza forzata che porterà in superficie demoni personali, timori ancestrali e nuove, tormentate pulsioni, in un crescendo di follia e claustrofobia.
Il film è tratto dal libro di Russel Banks e si ispira a un fatto vero avvenuto nel 1980 in Texas. La vicenda si sposta a Sam Dent, paese del Canada. Un autobus pieno di bambini affonda nel ghiaccio. Ne muoiono quattordici. Sopravvivono la conducente e una bambina che rimane paralizzata. Un avvocato intende sostenere gli abitanti e ottenere i danni. Ma si scontra con un mondo piccolo e ipocrita. Anche la grande tragedia viene “digerita” e strumentalizzata. Splendida natura canadese a far parte integrante del racconto. Grande prova di Holm e buona regia di Egoyan che si è visto assegnare il Gran Premio della Giuria a Cannes.
Amanda, pubblicitaria, è sotto stress e sempre più misantropa. Quando convince il marito Clay a prendersi una piccola vacanza fuori da New York insieme ai due figli Archie e Rose, tutto sembra andare per il meglio. Finché alcuni avvenimenti difficilmente spiegabili cominciano ad accadere e i dispositivi digitali ed elettronici sembrano non funzionare più. Quando alla porta di Amanda e Clay bussano un uomo di colore e la figlia, dicendo di essere i padroni di casa, la tensione comincia a salire.
Storia vera di Christiane F. berlinese che diventò eroinomane a 13 anni e della sua caduta graduale agli stadi più bassi della tossicodipendenza. Tratto da un libro ricavato da 45 ore d’intervista con C.F., il film ha 2 difetti: eccesso di curiosità e distacco moralistico. Interessante come documento e testimonianza.
Sei anni della vita di Nelson Mandela (1918), eletto presidente della Repubblica Sudafricana nelle prime elezioni libere multietniche del 1994, dall’11/02/1990, quando uscì dal carcere speciale dov’era stato chiuso nel 1964, fino al 24/06/1995 giorno in cui la squadra sudafricana degli Springboks vinse a sorpresa la Coppa del Mondo di rugby. Scritto dal sudafricano Anthony Peckham, basato sul libro del giornalista John Carlin Playing the Enemy (2008 – Ama il tuo nemico ). Coprodotto (Malpaso) e diretto da Eastwood, interamente girato in Sudafrica con 600 effetti digitali, tra cui quelli che permisero di moltiplicare le 2000 comparse in 62 000 spettatori allo stadio Ellis Park di Johannesburg. 2 dei 9 figli (da 5 mogli) di Eastwood nel cast: il musicista Kyle e l’attore Scott nei panni del giocatore Joel Stransky che realizza i calci piazzati. Invictus (indomabile), inesistente nell’Oxford Universal Dictionary, è preso da una poesia dell’inglese William Ernest Henley (1849-1903) che finisce così: “Io sono il padrone del mio destino / io sono il capitano della mia anima”. È un film su Mandela e, insieme, sul rugby (sport, come il football, inventato dagli inglesi) di cui lui si servì per riunire nella “nazione arcobaleno” le due comunità dei bianchi “afrikaners” (discendenti degli olandesi colonizzatori) e dei neri che dell’apartheid furono per secoli vittime sfruttate e alienate. Ha i limiti e i rischi (l’agiografia) del genere bio-pic , è quasi un film su commissione. È didattico, ripetitivo (l’intelligenza politica del perdono in nome del bene comune), semplicistico, monocorde nel suo programmatico ottimismo? D’accordo, ma ci sembra ingeneroso farne una colpa.
In un macello di Budapest viene assunta una nuova ispettrice della qualità, la giovane Maria. Il direttore finanziario è subito incuriosito dal suo atteggiamento assolutamente riservato e dedito al lavoro con una rigida applicazione delle regole. A seguito di un test psicologico a cui vengono sottoposti tutti i dipendenti, emerge che entrambi sognano regolarmente di trovarsi in un bosco mentre nevica, lui nel ruolo di un cervo e lei nel ruolo della femmina. Messi a conoscenza di questo fatto i due iniziano un problematico avvicinamento.
Le riprese furono svolte in Messico nel periodo 1931-1932, col finanziamento di un gruppo nordamericano capeggiato da Mary e Upton Sinclair. I soldi terminarono anticipatamente alle esigenze ed il regista fu richiamato in Unione Sovietica dove, tra l’altro, era caduto in disgrazia presso Stalin. I sovietici non vollero neppure saperne di acquistare il vasto materiale già disponibile che, secondo accordi, avrebbe dovuto raggiungere il regista rimpatriato. I produttori, per realizzare qualcosa, ne permisero la successiva distribuzione sotto la regia di altri autori. Il materiale fu così suddiviso e utilizzato per la realizzazione di: Lampi sul Messico (1933), Eisenstein in Mexico (1933), Death Day (1934) e Time in the Sun (1940).
In questa si assiste a una premessa dello stesso Alexandrov che spiega le vicissitudini della pellicola e le modalità con le quali è stata completata e viene presentata.
Il film ha un prologo, un epilogo e si divide in cinque episodi: “Conquest”, “Sandunga”, “Fiesta”, “Maguey” e “Soldadera”, dei quali solo l’ultimo non fu completato. Elementi narrativi, di viaggio e storici occupano le sezioni in vario modo. La recente rivoluzione di quel paese è prevalentemente sullo sfondo di una ricerca artistica ad ampio respiro. La suggestiva scenografia offre una visione complessa della vita in Messico.
Nella versione del 1979 il commento è affidato alla lettura della sceneggiatura originale scritta dallo stesso Ejzenštejn. Al termine del quarto episodio appare nuovamente Alexandrov a riassumere e spiegare il contenuto di quello che doveva essere il capitolo chiave e che è rimasto incompiuto e del quale non viene mostrata altro che qualche foto di scena: “Soldadera”, con la rappresentazione del riscatto del popolo messicano per mezzo della rivoluzione. Premessa all’epilogo pieno di speranza che segue e conclude il film.
La caduta della casa Usher, tratto dal racconto omonimo di Edgar Allan Poe, non può essere considerato solo una trasposizione dal testo di Poe, ma rappresenta un tentativo molto più complesso. Il film è infatti costruito su un insieme di più racconti – tra i quali quello del titolo, “Il ritratto ovale”, “Ligeia”… – e non solo ci immerge nelle pagine inquietanti di Poe, ma riesce a rendere la vena claustrofobica e il senso di fatalità in ogni suo fotogramma. Le atmosfere allucinate di Poe diventano immagini che trasformano elementi naturali in eventi capaci di suscitare inquietudine: il vento, la penombra, gli oggetti che si muovono senza che nessuno li abbia toccati. Il film ottiene così effetti simili all’espressionismo ma servendosi di metodi del tutto diversi, dall’illuminazione all’utilizzo del ralenti. Per la realizzazione di questo film, Epstein, grande figura di teorico e di cineasta, si avvalse come aiuto regista dell’allora ventottenne Luis Buñuel.
Un film di Blake Edwards. Con Jack Lemmon, Charles Bickford, Lee Remick Titolo originale Days of Wine and Roses. Drammatico, b/n durata 117 min. – USA 1962. MYMONETRO I giorni del vino e delle rose valutazione media: 3,93 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Film contro l’alcolismo. Una coppia di coniugi ubriaconi lotta per guarire.
Un travestito, artista di cabaret, si fa credere un nobile omosessuale polacco dalle ambizioni musicali. È il successo. Ma le cose si complicano quando un boss americano inizia a girarle intorno, poco convinto dalla sua identità gay.
La vicenda si svolge nel presente in un piccolo centro olandese che ha conservato un’atmosfera tradizionale da anni ’50. Fred ha 54 anni e conduce un’esistenza grigia e abitudinaria. Un tipo solitario e rassegnato, dopo la morte della moglie, vittima di un incidente automobilistico, e la separazione dal figlio, trasferitosi altrove. Si attiene a consueti riti giornalieri: brevi gite in bus nella cittadina vicina per approvvigionamenti al supermarket, pulizia della casa, cene spartane, ogni sera alle 18 in punto, e presenza devota alla messa domenicale nella chiesa protestante. Un giorno si imbatte nel quarantenne Leo che gironzola tra le case del villaggio, comportandosi come un adolescente mansueto e ritardato. In effetti mormora poche parole e non si sa chi sia. Mosso da un sentimento di compassione, Fred lo accoglie in casa, ma lo obbliga a condividere la sua routine, educandolo come un padre esigente. Tra i due, poco a poco, nasce una sincera simpatia. Poi un giorno Leo, che adora le caprette e le pecore, si esibisce nella loro imitazione belante di fronte ad alcuni bambini. In breve la coppia viene ingaggiata come attrazione per feste di compleanno di ragazzini, ottiene successo ed è molto richiesta. Fred si diverte nel trascorrere il tempo con Teo, il cui comportamento imprevedibile e caotico gli ha ridato vitalità e buonumore. Quindi sfida la disapprovazione dei vicini e del pastore della chiesa che giudicano immorale la sua convivenza con Leo. Finché un giorno scopre che in realtà è sposato. Incontra la moglie dell’amico che gli racconta che Leo è regredito mentalmente all’infanzia in seguito ad un grave trauma accidentale e da allora le istituzioni a cui è stato affidato hanno fallito. Diederik Ebbinge ha scritto e realizzato un sorprendente film di esordio. In qualche modo ricalca lo humour raffinato di Bent Hamer, quantunque la sua rappresentazione di un individuo solitario intrappolato nella routine delle abitudini, ma pronto al contatto umano e a nuove esperienze, sia meno impassibile e più briosa rispetto ai toni del geniale regista norvegese contemporaneo. E ancora, il suo stile, che descrive situazioni assurde, ricorda quello del connazionale Alex van Warmerdam, ma senza la predominante componente dark di quest’ultimo. Da un lato dimostra notevoli qualità narrative, con un sapiente inquadramento minimalista dei suoi due “eroi” poco convenzionali (che sembrano personaggi di Jaques Tati o di Aki Kaurismäki) e della morale calvinista degli abitanti del villaggio. Dall’altro costruisce un intreccio con perfetti timing comici e toccanti svolte drammatiche e sviluppa efficacemente l’itinerario di liberazione e di superamento di complessi, paure e traumi del passato da parte di Fred. Ha dichiarato di aver concepito il film per sfruttare le doti interpretative della coppia di carismatici attori protagonisti, René van t’Hoff e Ton Kas, ben noti in Olanda per le loro performances teatrali. Da segnalare anche la brillante ambientazione del film e la scenografia, ricca di particolari retro esilaranti, curata da Elza Kroonenberg.
Hereafter = da qui in poi; l’aldilà, la vita futura. Scritto dall’inglese Peter Morgan, il film segue in luoghi diversi 3 storie che alla fine si uniscono. George è un sensitivo con un dono che lui chiama condanna: a San Francisco, tenendo le mani di chi sta soffrendo la perdita di una persona amata, entra in contatto col defunto: lo vede, gli legge dentro, lo descrive al suo paziente. Marie, famosa giornalista della TV francese, rischia di annegare, travolta da uno tsunami in un’isola del Pacifico; rientrata a Parigi, racconta in un libro quel che “ha visto” nei pochi minuti in bilico tra vita e morte, ma nessuno le crede. In un quartiere di Londra, il piccolo e taciturno Marcus perde il fratellino Jason in un incidente stradale, ma non si rassegna finché scopre l’esistenza del sensitivo George che lo aiuta a vivere. Pur non essendo “il capolavoro” di Eastwood, come alcuni pretendono, ma soltanto uno dei più riusciti tra i film che ha diretto dal 2000, possiede i requisiti essenziali di un’opera d’arte: originalità, sensibilità, sincerità e capacità di suscitare emozioni. Il tema dell’aldilà è anche la sua componente più discutibile: manca lo spazio per spiegarla, analizzandola. È un film che sta dalla parte della vita, come conferma l’epilogo. Qui stanno il talento di Eastwood e la sua straordinaria vecchiaia registica. Film di molte bellezze (memorabile l’uso degli effetti digitali nella sequenza iniziale dello tsunami), è ricco anche nei personaggi di contorno.
Attaccati a sorpresa dagli aerei giapponesi a Pearl Harbor, gli americani sono in ginocchio ma determinati a reagire. A capo di quello che resta della gloriosa flotta navale americana, l’ammiraglio Chester Nimitz prepara una trappola nell’atollo di Midway. A supportarlo l’Intelligence e l’orgoglio dei suoi uomini decisi a vendicare i caduti di Pearl Harbor.
Texas 1963. Un evaso (Costner) dal carcere comincia una lunga fuga verso l’Alaska con un bambino in ostaggio. Gli dà la caccia un Texas Ranger anticonformista (Eastwood) affiancato da una psicologa (Dern). Film d’inseguimento senza suspense in cui i meccanismi dell’azione violenta lasciano il posto alla tenerezza. Contano i personaggi e la sconsolata analisi morale della società USA. Su una bella sceneggiatura di John Lee Hancock Eastwood conferma, dopo Gli spietati , di essere arrivato al culmine della sua maturità. Troppo classico nel suo rigore etico per poter aspirare alla futile gloria dei premi Oscar e ai primi posti nella classifica degli incassi.
Nel 2070 il mondo è diviso in due blocchi, quello Occidentale guidato dagli americani che rifiutano le AI, e quello asiatico che invece le accoglie. Joshua è sposato a Maya, ma in realtà la sua è una operazione di infiltrazione nel territorio delle Repubbliche asiatiche, dove cerca di individuare quello che le AI considerano “il Creatore”. Gli americani però attaccano con la loro piattaforma orbitante prima che lui ottenga l’informazione, uccidendo nel bombardamento sua moglie Maya. Cinque anni dopo l’esercito gli dice che Maya è invece sopravvissuta: Joshua ha una nuova possibilità di salvarla, a patto che distrugga l’arma che le AI hanno costruito. Ma l’arma in questione si rivela essere una bambina robot…
È la ricostruzione storica dell’invasione della Russia da parte dei cavalieri teutonici che, dopo la presa di Pskov, furono travolti dall’esercito russo guidato dal principe Nevskij e spinti nel lago gelato Peipus. È una grande “cine-opera” (così fu definita all’epoca) realizzata da uno dei più grandi registi del mondo. La musica di Prokof’ev non si dissocia mai dalle sequenze del film che vuole essere un inno al patriottismo.
Morta la moglie, Walter Kowalski – quasi 80enne reduce dalla guerra di Corea (1951-52), ex operaio della Ford – vive solo, con la cagna Daisy e una lussuosa auto Gran Torino modello 1972, da lui stesso assemblata, in un quartiere multietnico di Detroit, vicino di casa di una famiglia asiatica Hmong, perseguitata dai vietnamiti dopo il ritiro dei soldati USA. È cattolico, polacco di origine, malato ai polmoni, astioso contro tutti, patriota razzista, ma ancora capace di cambiare e di un ultimo atto d’amore. Scritto da Nick Schenk, non è solo, nella sua classica trasparenza, in linea con gli ultimi film di Eastwood (soprattutto Million Dollar Baby ), ma è ammirevole per la libertà con cui fa convivere la semplicità dello stile con la complessità dei temi, il pathos con l’ironia (e l’autoironia), la misantropia con lo spessore etico, l’odio con la tenerezza, la denuncia della violenza con il suo uso razionale, i rimorsi del passato con un filo di speranza nell’avvenire. Questo film che si apre e si chiude con un funerale fa riflettere sulla vecchiaia e la morte e rimane aperto alla vita e alla gioventù. Commuove senza sentimentalismi. Ricorre alle parolacce senza volgarità. Fa capire che la piccolezza umana può essere una grandezza. Fa aspettare lo spettatore con una sorta di suspense per poi sorprenderlo nel finale. L’esclusione dagli Oscar è un merito ma, come non capita spesso, non gli ha precluso il successo di pubblico. È un piccolo, grande film.
Frankie Dunn, anziano gestore di una scalcinata palestra di pugilato, accetta a malincuore, convinto dall’amico Eddie – ex pugile nero – di allenare la cameriera trentenne Maggie Fitzgerald che vede nella boxe l’unica, e ultima, occasione di riscatto sociale. Talento naturale, sostenuta da un’indomabile volontà e dalla competenza di Frankie, vince un incontro dopo l’altro e si trova a contendere il titolo mondiale alla potente e scorretta Billie: le sarà fatale. Scritto da Paul Haggis, tratto da Rope Burns: Stories from the Corner ( Lo sfidante ) di F.X. Toole. Non è un film sull’eutanasia. Non è nemmeno un film sulla boxe (“sport contro natura” dice la voce narrante di Eddie). Nella sua complessa struttura di simmetrie, antinomie e ambiguità, è un film tragicamente spietato sul dolore del mondo, sull’amore, l’amicizia, la dignità in un mondo di perdenti. C’è in questo film – così trasparente e laconico, onesto e innocente in superficie – un pessimismo senza scampo. 4 premi Oscar: film, regia, attrice (Swank, cui dà la voce Laura Lenghi), attore non protagonista (Freeman).
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