Samira ha tanti anni e un dolore grande: ha perso sua figlia, uccisa dal cancro e da una vita tribolata nella periferia di Palermo. Da sette anni la ritrova in un cimitero assolato e desolato, dove sfama cani e cuccioli prima di riprendere la strada di casa alla guida della sua Punto e a fianco di un genero ostile. Rosa ha una madre da lasciare andare e un passato da dimenticare a Palermo, dove accompagna Clara, la donna amata, al matrimonio di un comune amico. Inquieta e infastidita da una città da cui è fuggita anni prima, infila via Castellana Bandiera, un strada stretta e senza senso di marcia. In direzione ostinata e contraria arriva Samira e chiede il passo per raggiungere la sua casa a pochi metri dall’impasse. Contrariata e altrettanto risoluta, Rosa è decisa a mantenere la posizione. Irriducibili sotto il sole tenace di Palermo, Samira e Rosa si affronteranno in un duello che non contempla resa e retromarcia. Di un uomo caduto morto in un duello non si penserà che “abbia dimostrato di essere in errore riguardo al proprio punto di vista”, scrive Cormac McCarthy in “Meridiano di sangue”. Allo stesso modo Emma Dante, regista teatrale che debutta al cinema, elude ‘giustificazioni’ o allineamenti, decidendo per il dicotomico senza stabilire una vittoria di una parte sull’altra o affermare quello che è giusto su quello che invece è avvertito come inopportuno. Rosa e Samira sono opposti che si osservano e si affrontano a una distanza limite. Figlia di un’altra madre e madre di un’altra figlia, sono selvagge votate alla distruzione vicendevole, corpi in stretto rapporto e dotati dello stesso corredo di dolore. La natura identica e testarda origina allora la tragedia, riflettendole geometricamente e impedendole a praticare la tolleranza e l’integrazione emotiva dell’altro. Calate in un clima ‘pagano’, che mette in scena le incomprensioni e le follie di una comunità, le protagoniste (si) ingombrano la strada del titolo e lasciano fuori campo il buco, un vuoto, uno strappo, una ferita ‘non filmabile’. Oggetto di spettacolo diventa perciò la loro ostinazione all’immobilità. Schierate l’una di fronte all’altra come in un western classico veicolano pulsioni dissidenti e negative, infilando con via Castellana Bandiera il punto di non ritorno. Il duello, celebrazione dell’ordine sulle eventualità disgregative del disordine, nel dramma di Emma Dante genera al contrario una forza distruttiva che diventa espressione fondante della pulsione di morte dei suoi personaggi. Nessuno escluso. Non ci sono regole da stabilire (e da rispettare) in via Castellana Bandiera. Dove la forza produce un diritto e la gente abita lo stesso numero civico, c’è piuttosto da scommettere sul cavallo vincente. Acme del racconto, il duello made in Italy tra una Punto e una Multipla non risolve le tensioni create dalla narrazione ma le provoca definendo geometrie che si dispongono nella profondità delle protagoniste e da lì ripartono contaminando parenti, vicini, curiosi, avventori. Disagio e inesorabilità si distribuiscono frontalmente e si incarnano in donne incapaci di qualsiasi ricognizione, di qualsiasi compassione, di qualsiasi ripresa. Interpretato dalle efficacissime Elena Cotta e Emma Dante, ‘affiancata’ dalla Clara di Alba Rohrwacher, Via Castellana Bandiera è un film a imbuto che trascina idealmente e concretamente in un gorgo di smarrimento infinito i suoi personaggi. Confronto tragico e lontano da qualsiasi purezza eroica, l’opera prima di Emma Dante ci lascia testimoni muti e agghiacciati. Impossibilitati a intervenire inserendo la retromarcia per evitare la deriva e liberare la strada a un ‘paese’ bloccato e incapace di ripartire. Se non in direzione della collisione e del suo esito sciagurato.
Del Toro torna ad attingere dal magico mondo dei comics ancora una volta. Magico in senso stretto, perché “Hellboy” è una serie che ha molti elementi esoterici, oltre a quelli orrorifici, avventurosi e polizieschi. La saga creata da Mike Mignola e pubblicata dalla Dark Horse, ruota infatti attorno al B.P.R.D. (Bureau for Paranormal Research e Defense), centro per la Difesa e la Ricerca del Paranormale diretto dal professor Broom, che accoglie una schiera di personaggi (mostri?) piuttosto bizzarri che passano le giornate difendendo il pianeta dalla sempiterna congiura del Male contro il Bene. Hellboy, demone catapultato nella nostra dimensione dai nazisti nel ’44, adottato e cresciuto come un figlio da Broom, è aiutato da Abe Sapiens, un uomo-pesce di sovrumane facoltà intellettive, e dalla bella Liz, pirocinetica con qualche difficoltà di autocontrollo. Il nemico numero 1 è Grigori Rasputin (quel Rasputin), che cerca in ogni modo di portare Hellboy sulla cattiva strada e di usarlo per aprire un portale che permetta ai demoni dell’altro mondo di invadere (e distruggere) la Terra. Hellboy, il film, brilla per l’amalgama particolarmente riuscito di riprese dal vero e animazioni 3D (cosa che non sempre può dirsi dei film del genere). I personaggi sono tutti ben caratterizzati, le scenografie molto suggestive (Praga è una certezza) e l’atmosfera giustamente tetra (credo che non ci sia una ripresa alla luce del giorno…), ma questa non è farina del sacco di Del Toro, in quanto elementi già caratteristici del bel fumetto di Mignola. Purtroppo, del fumettista americano Del Toro prende anche i limiti. “Hellboy” era la prima serie che Mignola scriveva, oltre che disegnava, e palesava tutti i difetti che un esordiente inevitabilmente ha: plot confuso e banalotto, dialoghi dimenticabili e mancanza di coralità tra i personaggi. Tutte imperfezioni riconfermate su pellicola. Mignola nel frattempo è cresciuto come autore: Del Toro avrebbe dovuto farsi aiutare nella sceneggiatura, oltre che nella supervisione.
1943. Cesira ha una figlia adolescente, Rosetta, ed è vedova. In seguito ai bombardamenti decide di lasciare la città per tornare al paese d’origine in Ciociaria. Qui conosce Michele, un giovane intellettuale che si innamora di lei. Dopo l’8 settembre gli alleati risalgono la penisola e sia lei che la figlia vengono violentate da un plotone di soldati marocchini. Tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia il film ebbe iniziali vicissitudini produttive che De Sica riassume così: “Ponti e Girosi in un primo momento pensavano di affidare il personaggio della madre ad Anna Magnani e quello della figlia a Sophia Loren. Ma non poterono concludere questo accordo per gli impegni assunti dalla Magnani. Fui io a prospettare a Ponti la possibilità di affidare la parte della madre a Sophia Loren e di ricorrere a una bambina di dodici anni per quello della figlia. In Ciociaria le ragazze si sviluppano in fretta e si sposano a quindici anni; bastava ‘appioppare’ due anni in più a Sophia e il conto sarebbe tornato.” Una versione più ‘maligna’ vuole che la Magnani avesse rifiutato la Loren come figlia anche per problemi di reciproche altezze. Sta di fatto che questo elemento contingente (quale che ne fosse la causa) costituisce la forza del film. Perché, come ricorda Enrico Lucherini, “Tra De Sica e la Loren c’era una lunghezza d’onda comune, c’era una identica capacità di calore, di entusiasmo e di immediatezza”. Tutto ciò emerge con forza in un film che valse all’attrice un meritato Oscar perché il suo essere popolare e di origini popolane viene qui a misurarsi con un personaggio complesso, capace di grandi slanci, dotato di una irrefrenabile vitalità ma anche portatore di una rabbia interiore nei confronti di una situazione bellica che la turba più di quanto non accada ad altri con cui deve condividere la situazione di sfollata.
Un fotografo inglese a Parigi desta la gelosia della fidanzata con le sue continue infedeltà. La donna lo convince a mettersi in cura da uno psicanalista, che però risulta più infedele di lui. Il film finisce con una sarabanda di equivoci in un alberghetto compiacente: il fotografo sposerà la sua ragazza, ma non perderà certo con il matrimonio la voglia di folleggiare. Una piacevole satira sul sesso, che deve molta della sua vivacità alla sceneggiatura dell’allora quasi sconosciuto Woody Allen.
Gli anni Sessanta cominciarono con i colpi di arma da fuoco che uccisero Kennedy e proseguirono con le esplosioni della Guerra in Vietnam e i sommovimenti delle rivoluzioni giovanili. In questo clima fervente di controcultura, si incontrano nell’estate del 1965 a Venice Beach, in California, due ex-compagni di corso della scuola di cinema di Los Angeles, il giovane tastierista Ray Manzarek e il ventiduenne aspirante poeta Jim Morrison. Ray resta talmente colpito da alcune liriche scritte da Jim, che, seppure il ragazzo sia completamente sprovvisto di una pratica musicale, decide di coinvolgerlo nel progetto di formazione di una nuova band assieme al batterista jazz John Desmore e al chitarrista esperto di flamenco Robby Krieger. I quattro si chiameranno The Doors, in omaggio a un verso di William Blake (“Se le porte della percezione venissero spalancate, ogni cosa apparirebbe all’uomo per come è: infinita”), e il timido poeta lisergico diverrà una delle più celebri e famigerate rock star della storia. Pensare a Jim Morrison e alle sue canzoni evoca quasi sempre come prime suggestioni l’idea del fuoco, i paesaggi desertici e le forme e i movimenti flessuosi di una lucertola. Il giovane cantante-poeta maledetto vive di questi tre elementi nella coscienza collettiva, tanto che sia il biopic di Oliver Stone che questo documentario di Tom DiCillo iniziano con immagini che mostrano il deserto californiano e la sua fauna e che pongono enfasi su tutti i fiammiferi accesi e lentamente consumati. Anche il materiale narrativo e l’arco temporale coinvolto sono esattamente gli stessi per The Doors e per When You’re Strange: entrambi, più che sulla storia della band californiana che ha fuso il blues e il rock in suoni incendiari e psichedelici, si focalizzano sulla breve vita del cantante che ha riscritto ogni regola del divismo musicale, più di Elvis, più di John Lennon o di Mick Jagger. Ciò su cui invece i due lavori divergono, oltre alla generica differenza fra opera di finzione e ricostruzione documentaristica attraverso filmati d’archivio, è senza dubbio nel modo di leggere la figura tragica di Jim Morrison: un’icona del nichilismo e della volontà di potenza nietzschiana per Stone; un ragazzo romantico e scapigliato per DiCillo, che ha pagato il suo essere strano e straniero, continuamente in cerca di un’identità. Per veicolare quest’idea, il regista di Johnny Suede e Si gira a Manhattan pone in apertura una curiosa manipolazione fra filmati di repertorio, sovrapponendo le immagini di un film sperimentale girato e interpretato da Morrison stesso alla guida di una macchina con la notizia della sua morte diffusa via radio. L’effetto perturbante della sequenza contribuisce a dare un senso (se possibile) ancor più spettrale a quelle immagini, come se il fantasma di Jim Morrison vagasse per il deserto alla ricerca di una nuova identità dove aver perduto quella dell’infelice cantante di successo. A parte questo filmato che guarda più da vicino l’espressione della personalità artistica del cantante formatosi alla UCLA, l’utilizzo degli altri filmati opera con un certo rigore documentario e accorda più importanza alla dimensione storico-sociale che circonda la parabola dell’aura maledetta di Morrison, attraverso la voce di un altro simbolo di una gioventù ribelle come Johnny Depp (il cantautore Morgan nella versione italiana). Il suo timbro profondo da pirata ex-amante di droghe e poeti maledetti tiene assieme glorie e fallimenti della band con quelli della cultura hippie, dai dischi di platino ai movimenti pacifisti, dagli arresti e dalle accuse di oscenità al massacro della setta di Charles Manson. Con quella tragedia si chiude il sogno delle droghe leggere e dell’amore libero, ma si avvia anche il tramonto di Morrison, il suo abbandono delle scene musicali e il ritiro poetico e spirituale a Parigi. Dove lo attende una morte (avvenuta a 27 anni, come vuole il tragico destino delle rock star più celebri come Jimi Hendrix, Janis Joplin e Brian Jones dei Rolling Stones), che lo avvicina tanto a una figura umana e meschina quanto a un mito misterioso e senza tempo.
Spagna, una città del nord che deve fronteggiare i problemi della crisi industriale. Santa, Josè, Lino, Reina, Amador, Serguei: amici da sempre, che dopo aver perso il lavoro ai cantieri navali, consumano i giorni tra bevute al bar, discorsi filosofici, e improbabili ricerche di nuove occupazioni. Fra le malinconie di un futuro difficile e le gioie momentanee che scrosciano all’improvviso. Sempre pronti a non dimenticare l’unico bene prezioso che è rimasto loro: la dignità. Investito da un diluvio di Premi Goya (l’equivalente spagnolo dei nostri David), il film è una godibile commedia che si avvale di una scrittura sapiente e, soprattutto, di una recitazione magistrale di tutti gli attori, in special modo di Bardem, giunto ormai ad una fantastica maturità espressiva. Posizionandosi fra il Loach meno manicheo (quello di Piovono pietre e Riff raff, per intenderci) ed il Kaurismaki più solare, de Aranoa confeziona un piccolo capolavoro: commuove senza indisporre, fa riflettere senza essere saccente, e talora trova anche il tempo di farci divertire.
1° film a soggetto del documentarista veneziano Dordit che l’ha scritto con Serena Brugnolo, prodotto da Indigo e Rai Cinema con un articolo 28 (sovvenzioni statali), ha impiegato 3 anni a trovare accesso nel mercato delle sale, distribuito dal Luce. Sulla tela di fondo del ricco Nordest (lavoro sporco nelle concerie, manodopera di immigrati invisibili, morti bianche, soprusi di imprenditori senza scrupoli), la storia fa capo, in cadenze di investigazione, a un giornalista sportivo che sospetta retroscena loschi nella morte di un amico e al ragazzino Leo, inchiodato in un preoccupante autismo, che potrebbe essere l’unico testimone in grado di portare alla verità. Secondo F. Scott Fitzgerald, tutto lo scrivere è un nuotare sott’acqua e trattenere il fiato. Dordit “scrive” soltanto benino. Quando non scade nel bozzettismo, fatica a tenere insieme figure maggiori e minori. Speriamo che trovi il modo e i mezzi per un secondo film. Abbinato in sala al corto (14′) Trevirgolaottantasette di Valerio Mastandrea.
Alla Boxing Arena di Atlantic City (ricostruita a Montréal), durante un incontro per il titolo mondiale dei pesi massimi, il ministro della Difesa (Fabiani) è colpito a morte, davanti a 14 000 spettatori e molte telecamere, da un terrorista arabo, subito ucciso dal responsabile dei servizi di sicurezza (Sinise). Rick Santoro (Cage), poliziotto corrotto, casinista e cafone, si trasforma in eroe, scoprendo le fila di un complotto politico-industriale. Scritto dal regista con David Koepp, ebbe accoglienze critiche disparate. Chi lo sbrigò come un esercizio di stile in cui il virtuosismo è la maschera di una artificiosa futilità di fondo e chi sostenne che, quando diventa un’ossessione spinta alle sue estreme conseguenze, l’assillo stilistico genera significato come dimostrano tanti cineasti geniali (Sternberg, Ophüls, Powell, Scorsese). Si parte con un piano-sequenza truccato (più di 15 minuti) di sovreccitato virtuosismo e si chiude con un piano finale che continua sui titoli di coda, altrettanto significativo nella sua esasperata ricerca di quel che si nasconde dietro le apparenze, la proliferazione e l’arabesco delle immagini.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Chili (Travolta) è un esattore della mafia. Arriva a Hollywood e viene catturato dal morbo del cinema. Intorno a un copione che sarà un sicuro successo, si intrecciano storie di gangster, di divi del cinema, di spacciatori colombiani. Alla fine il film viene prodotto, proprio da Chili, con Harvey Keitel protagonista. Gangster story rosa che cerca parentele con Pulp Fiction e che ripropone un Travolta riveduto e corretto proprio rispetto al personaggio del film di Tarantino.
Jerry Falk è un giovane aspirante scrittore di New York. Incontra Amanda, una ragazza libera e spregiudicata, e se ne innamora pazzamente. Amore e passione, però, non bastano a tenere in piedi la relazione e Jerry chiede aiuto al suo mentore. Questo film rappresenta una svolta nel cinema di Woody Allen per più motivi. Quello più esteriore è la sua presenza (per la prima volta dopo anni e anni di programmazione dei suoi film e anche dopo l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera che fece ritirare da Carlo Di Palma) alla Mostra del Cinema di Venezia. Quelli invece più sostanziali stanno, come è giusto che sia, sul piano dello stile e del contenuto del film.Sul piano stilistico colpisce il frequentissimo uso che Woody fa dello sguardo in macchina. Jerry non perde occasione per rivolgersi allo spettatore, coinvolgendolo quindi direttamente nelle sue vicende. Woody poi utilizza per la seconda volta un alter ego cinematografico in compresenza sullo schermo. Lo aveva già fatto con il personaggio di Michael Caine in Hannah e le sue sorelle ma il rapporto tra i due non era comunque così diretto. Qui invece la relazione dei due è da maestro ad allievo nella difficile scuola della vita. Il primo insegna al secondo come comportarsi e nessuno dei due è in ottime relazioni con se stesso e il mondo. Ne nasce un interessante duetto con variazioni sui temi cari al regista. Ma dove la sorpresa si fa veramente grande è quando Woody reagisce ai soprusi con la violenza. Il suo personaggio non subisce più in totale passività. Che sia cambiato qualcosa dopo l’11 settembre? Certo è che il suo cinema costituisce sempre un invito a riflettere sull’uomo e sulla sua condizione perché Woody è perfettamente consapevole, come afferma il suo personaggio, che “Se uno va alla Carnegie Hall e vomita sul palco troverà qualcun altro disposto ad affermare che si è trattato di un’opera d’arte”. Allen non ama questo tipo di esibizioni e di estimatori.
Un ragazzo dalla natura ribelle e violenta trova sempre il modo di dare libero sfogo ai suoi impulsi distruttivi. Una notte, nel corso di una festicciola in una casa sperduta, trova pane per i suoi denti.
Cupo dramma di amore e di morte nella misteriosa casa rossa in mezzo alla boscaglia: Morgan (Edward G. Robinson), roso dai rimorsi per un terribile delitto commesso anni prima (ha ucciso l’amante e il marito di costei), finirà molto male, e con lui altri due loschi figuri.
Cecil Gaines ha imparato il mestiere di domestico nella Georgia degli anni Venti e nella tenuta dell’uomo che ha ucciso barbaramente suo padre in un campo di cotone. Riservato e (ben) educato nelle case dei bianchi, approda a Washington, dove sposa Gloria, diventa padre di Louis e Charlie e viene assunto come maggiordomo alla Casa Bianca. Orgoglioso della sua famiglia e appagato dal proprio destino, Cecil sta. Resta immobile (e invisibile) nella vita come lungo le pareti della stanza Ovale, dove serve il tè e soddisfa le richieste dei suoi presidenti. Fuori intanto il mondo si muove, il mondo si arrabbia, il mondo sta cambiando. In quel territorio infiammato milita il suo primogenito, deciso a lottare per i diritti della sua gente, resistendo al fianco di Martin Luther King o ‘armandosi’ al braccio di Malcolm X. Ripudiato il figlio, colpevole di non essere rimasto al suo posto, Cecil seguita a servire i presidenti che si susseguono mandato dopo mandato, sprofondando il paese nella guerra, riformandolo con le leggi sui diritti civili, integrandolo o mandandolo sulla Luna. Sette presidenti e diverse tazze riempite dopo, Cecil prenderà coscienza di sé e dei propri diritti, dimettendosi e scendendo in campo a fianco del figlio e di un sogno che ha il volto di Barack Obama. Contestando la candidatura di Norman Jewison alla regia di Malcolm X, Spike Lee asseriva che soltanto un regista nero avrebbe potuto far giustizia alla sua opera e alla sua vita. D’accordo o meno con la dichiarazione del regista, quello che interessa adesso è la prossimità di pensiero e di posizione che assimila Spike Lee a Lee Daniels, convinto allo stesso modo che siano pochi i registi bianchi che abbiano saputo cogliere nel segno producendo film con tematiche afro-americane. A ragione di questo The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca adotta il punto di vista degli afro-americani ed esclude personaggi bianchi che infilano la presa di coscienza. In una lunga parabola che dai campi di cotone della Georgia arriva all’elezione di Barack Obama, The Butler ripercorre le tappe fondamentali della storia americana nelle pieghe di una vicenda privata, facendo dialogare passato e presente, padre e figlio. Ispirato alla vita di Eugene Allen, maggiordomo per trentaquattro anni alla Casa Bianca, intervistato e portato a conoscenza da un giornalista del “Washington Post”, The Butler fa il paio con Precious e prosegue il percorso di rilettura critica della Storia americana. In una dialettica costante, il film di Daniels intreccia e alterna la dimensione pubblica con quella privata, proponendo ciascuna come genesi e insieme contraccolpo di una storia più grande, che include sia gli eventi collettivi (il sit-in di Greensboro, i Freedom bus, l’attentato a Kennedy, la morte di Martin Luther King, la guerra in Vietnam) sia le tragedie intime (la morte del padre in Georgia, il decesso del figlio minore in Vietnam, le detenzioni del primogenito attivista per i diritti umani). Approdato in sala dopo il Django Unchained di Tarantino e il Lincoln di Spielberg e prima di 12 anni schiavo di Steve McQueen, The Butler si accomoda tra opere che sembrano richiamarsi vicendevolmente, proseguendo l’una i discorsi dell’altra e componendo il colossale affresco di una nazione perennemente indecisa fra opzione morale e violenza brutale, tra parole e pistole. Insieme allo schiavo ‘slegato’ di Tarantino e al presidente (per)suadente di Spielberg, il maggiordomo di Daniels rimette mano (con guanto bianco) sulla questione razziale in un quadro politico-economico complesso e allargato, che contempla Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon e Reagan e confina nelle immagini di repertorio Ford e Carter, che dialoga coi padri buoni della nazione (Kennedy, Johnson) e disdegna fino al congedo quelli cattivi (Nixon, Reagan). Con il narratore umile e schivo di Forest Whitaker, il regista identifica lo strumento perfetto per condurre la narrazione filmica, ottemperando alle istanze pedagogiche con ridondanza retorica e generose concessioni didascaliche, che seguono la ricostruzione puntuale. Diversamente da Tarantino, la cui visione eversiva e indocile sulla questione ‘nera’ viene giudicata ‘bianca’ e inadeguata, Daniels si incammina su una strada diversa, quella del romanzo popolare e della robusta iconografia, rivendicando una competenza antropologica e culturale che suona come una dichiarazione di apartheid. Una separazione dura a morire che mentre denuncia l’intolleranza razziale, discrimina un artista, riducendo al colore della pelle la sua capacità di affrontare certi temi.
I Goonies, scatenato gruppo di ragazzini abitanti nel quartiere di Goon Docks, devono dare l’addio alle case dove sono nati e cresciuti: i signorini del club del golf hanno dato lo sfratto alle loro famiglie per radere al suolo il quartiere e costruire nuovi, esclusivi, campi da gioco. Poco prima di andarsene, uno dei Goonies scopre in soffitta una vecchia mappa del tesoro, scritta da un pirata spagnolo del ‘600. Mettendo le mani sul bottino dell’antico corsaro, i ragazzini potrebbero salvare le loro case.
Al fine di evitare la partenza per il fronte africano, Antonio, un soldato settentrionale, sposa la napoletana Giovanna, cui si sente subito legato da grande passione. Quando si fingerà pazzo per non doversi più separare da lei, scoperto, dovrà partire per la campagna di Russia. Dopo la ritirata del 1943, i soldati italiani ritornano a casa, ma non Antonio, che figura nelle liste dei dispersi. Decisa a non mollare e convinta com’è che sia ancora vivo, la risoluta Giovanna partirà per cercarlo fino in Russia e in Ucraina.
Il Big Kahuna è il grande colpo, la grande vendita. Tre agenti di una società in crisi cercano di agganciare un possibile ricco cliente. Parlano, parlano, del lavoro, di se stessi, della vita. Un vero “Kammerspiel” (tutto in una, anzi, due stanze). Si aspetta, si aspetta. Per niente. Si salva De Vito, più bravo del “doppio oscar” Spacey, che pure si è costruito il film addosso.
La vicenda si svolge interamente in un paesino rurale degli Stati Uniti, dove si fa subito la conoscenza di Bubba Ritter, un innocuo ritardato che è intento a giocare in un campo con la piccola Marylee, sua unica amica, che gli vuole molto bene a differenza della maggior parte dei concittadini, i quali aspettano solo un passo falso da parte sua per toglierlo di mezzo. Cosa che avviene quello stesso giorno quando, entrando per gioco in un recinto, Marylee viene attaccata e quasi uccisa da un cane: trovatola, Bubba la porta al sicuro, ma vedendolo con la bambina ferita con sé, gli abitanti credono lui il colpevole.
Il fatto porta al linciaggio nei confronti di Bubba da parte di quattro compaesani, scovandolo infine nei campi dove si era travestito da spaventapasseri per sfuggirgli.
Il conte di Montecristo, incarcerato non per una colpa commessa ma per l’astuzia terribile di un arrampicatore sociale, si troverà a passare undici lunghissimi anni in isolata prigionia.
Se è vero che la letteratura occupa un gradino più in alto del cinema, questa miniserie televisiva è il meglio che si possa immaginare. Pochi romanzi sono stati riassunti con tale dovizia di particolari che hanno il pregio di non annoiare. Il segreto? Cogliere i momenti salienti eliminando il fitto sottobosco che riempie un migliaio di pagine.
Luminita è una giovane clandestina moldava che abita in una baraccopoli alla periferia di Torino, sfruttata da 2 ignobili compatrioti che la obbligano a rubare negli ospedali e a tenere con sé un neonato di un’altra schiavizzata. L’incontro con Antonio, anziano malato dal mestiere forse losco, le cambia la vita. Scritto da 2 gemelli torinesi, attivi dal 1999 con cortometraggi, anche documentari, è il loro esordio al LM. È un tipico film per festival raccontato “contro” gli spettatori, non del tutto comprensibile nelle motivazioni psicologiche dei personaggi, guastato da un compiaciuto assillo formalistico persino nel suo radicale pessimismo nell’illustrare le 7 opere di misericordia corporale che, secondo il catechismo cattolico, un credente deve compiere per essere degno del Regno dei Cieli. Aspettiamo, comunque, il loro prossimo film. Fotografia di Piero Basso; musiche di Plus.
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