Stefano, un giovane perito, viene assunto dal banco dei pegni per attribuire un prezzo ai beni che la gente non può più permettersi. Il suo capo, Sergio, è un cinico burocrate che gestisce il traffico delle aste attraverso le quali vengono rivenduti gli oggetti impegnati che i proprietari non hanno più potuto riscattare. Michele è un anziano pensionato che non arriva a fine mese e che, per aiutare la famiglia, accetta di dare una mano ad Angelo, uno dei tanti loschi figuri che si aggirano intorno al banco dei pegni per lucrare sulle sventure altrui, dando vita (si fa per dire) a quel mercato nero e a quel sottobosco di malaffare creato dal bisogno. Sandra è una trans costretta ad impegnare una pelliccia per sopravvivere in un mondo che rifiuta la sua nuova identità.
È la storia di un paese (in una regione non bene identificata) che sta morendo lentamente di fame. Non c’è lavoro, ma un capofamiglia se ne inventa uno: lancia l’idea di una strada che colleghi il paese alla costa. La gente s’entusiasma e con l’entusiasmo supera anche l’opposizione dei notabili del paese, del governo, dei contadini le cui terre la strada dovrebbe attraversare. Sotto la spinta e l’incitamento del sindaco, un vecchio maestro elementare, il lavoro verrà compiuto. Quando gli operai arrivano al mare, il sindaco muore.
Due giovani paesani dovrebbero sposarsi, ma non hanno i mezzi per affrontare l’apparato delle nozze con tutte le spese che comporta. D’accordo con i genitori, lui rapisce la fidanzata, per accelerare tutto.
Prodotto da Simone Bachini, Lionello Cerri, Giorgio Diritti, Valerio De Paolis, Rai Cinema e BNL Gruppo BNP Paribas. Girato in Amazzonia e Trentino. Il bolognese Diritti dice: “Ho scelto un film al femminile perché alle donne appartengono innumerevoli risorse, e una vera propensione a proteggere la vita, a reagire e agire”. 6 degli 8 personaggi principali sono donne. La Trinca è qui la complessa protagonista di un film che semplice non è. Come una Simone Weil dei nostri giorni, la sua Augusta non sente una vera vocazione mistica. Vive in una baraccopoli di Manaus, sul Rio delle Amazzoni, si comporta come un ragazzaccio, rifiuta le scorciatoie del post-colonialismo, s’immerge in una natura meravigliosa che può distruggere o guarire, lei che non può più avere figli. Scritto da Diritti con Fredo Valla e Tania Pedroni; fotografia di Roberto Cimatti. Costumi di Hellen Gomes e Lia Morandini. Distribuito da Elle Driver. In concorso al Sundance Festival.
Nord Italia, fine anni Sessanta. In piena crisi familiare, con i genitori sull’orlo della separazione, il piccolo Luciano è costretto a trasferirsi in un collegio religioso. Il severo padre, da tempo distratto da un’amante, teme che l’influenza della madre possa nuocere al figlio in un periodo così delicato. Ma Luciano mal si adatta alla vita in collegio. Mentre i rigidissimi preti soffocano ogni suo slancio, il ragazzino, che ha nostalgia di casa, si chiude sempre più in se stesso e non riesce a fare amicizia con i compagni. Le pulsioni antiautoritarie di fine anni Sessanta soffiano, con i loro venti di ribellione, sul film diretto da un giovane Gianni Da Campo, assistito da Valerio Zurlini. Ma sono venti mitigati dal tocco lieve e sensibile di una regia intimista, interessata più al racconto di un piccolo dramma individuale che alla fotografia del contemporaneo disagio sociale. Certo, la critica a un mondo ostile, autoritario, repressivo e ipocritamente religioso è evidente e traspare con grande impatto dalla sequenza sulla comunione. Eppure, il regista si concentra soprattutto sulla sofferenza, tutta interiore, del ragazzino protagonista, alle prese con una difficile situazione familiare. Anziché spiegargli i problemi nel rapporto con la madre, il padre lo taglia fuori, allontanandolo brutalmente da casa e dai suoi affetti più cari. Un cambiamento così radicale sconvolgerebbe chiunque e l’ostilità dei religiosi, tesi a impartire una rigida disciplina, secondo metodi educativi tanto in voga all’epoca, non fa che peggiorare il disagio di Luciano, un pesce fuor d’acqua in collegio, anche rispetto ai compagni. Da Campo rappresenta questo isolamento con immagini emblematiche, come quella del pulcino nero che il ragazzino mette nella gabbia con i bianchi, per vedere «se mangia con gli altri». Anche il senso di oppressione provato da Luciano è messo in scena plasticamente, con quello sguardo sognante che vola oltre la finestra del severo corridoio del collegio, in quell’intenso bisogno di libertà simboleggiato da un piccione che si libra in cielo. Queste immagini così dolenti e sensibili, sincere e pudiche, sono il punto di forza di un film – restaurato in digitale a partire dai negativi originali in 16 mm – che si richiama a illustri predecessori, quali I quattrocento colpi di François Truffaut e Zero in condotta di Jean Vigo, pur non possedendo il toccante lirismo del primo né l’impatto iconoclasta del secondo.
Figlio unico di mezza età vive in centro a Roma con la madre vedova, nobildonna decaduta che lo tiranneggia. L’amministratore gli propone di ospitare per il ponte di ferragosto sua madre e un’altra vecchia, in cambio dell’annullamento di un debito. Alle 3 vecchiette se ne aggiunge una quarta, madre di un amico medico di turno in ospedale. L’uomo si prepara a giornate difficili, ma le 4 signore gli cambiano le carte in tavola. Fervido successo di pubblico alla 65ª Mostra di Venezia 2008 e poi nelle sale. Scritto, diretto e interpretato da Di Gregorio, sceneggiatore di lungo corso che esordisce alla regia, assistito nelle riprese da M. Gaudioso, recitato da vecchie signore non attrici, è il caso raro di un film sulla vecchiaia – tema sgraditissimo – divertente, intelligente, pudico. Non fa ridere a spese dei personaggi, ma con loro, trattati con rispetto e senza indulgere a demagogia o sentimentalismo. Senza arsenico né merletti, percorso da un’ironia malandrina e leggera. Prodotto da Matteo Garrone. 5 premi per l’opera prima in Italia più 1 al London Film Festival.
Pranzo di Ferragosto fu per tutti (critici, giurie, pubblico) un esordio sorprendente, la rivelazione della stagione 2008-09. Sembrò a molti un film unico e fu un errore: Di Gregorio, sceneggiatore di lungo corso, non ha sbagliato il 2° film che pure è il seguito dell’altro. Come ci è riuscito? Con l’arma dell’autoironia che coincide con un tema socio-psicologico assai diffuso, poco trattato al cinema: il desiderio delle donne che affligge i maschi italiani di mezza età (solo loro?) che siano scapoli, vedovi o magari con moglie non più giovane. Il suo Gianni è anzitutto un gentiluomo sempre disponibile con la madre dispotica di cui è vittima, attento alla moglie e alla figlia un po’ egoista, cortese con tutti, non più che malinconico per le ristrettezze finanziarie di pensionato, aggravate dalla madre sperperatrice. Senza un’ombra di volgarità, fa ridere o sorridere, ma non a spese dei personaggi, con una leggerezza di tocco qua e là malandrina. Scritto con Valerio Attanasio.
Nell’inverno del 1943, a Venezia, un gruppo di partigiani organizza una serie di azioni terroristiche, ma il nucleo si sfalda. Il capo, un individuo alquanto intransigente, uccide un torturatore fascista e, subito dopo, viene a sua volta falciato da una raffica di mitra.
Sposata a un commerciante (Alex Arquillère) ottuso e brutale, “la sorridente signora Beudet” (Germaine Dermoz) ne è così esasperata che pensa addirittura di ucciderlo. Lieto fine. André Obey e Denys Amiel avevano applicato nella commedia la loro teoria del “teatro del silenzio” in cui ciò che si dice ha assai minore importanza di ciò che si tace ma che i protagonisti sentono profondamente. Il tema dette modo a Germaine Dulac di realizzare il suo film migliore, interpretato con bella sensibilità da Germaine Dermoz, di cui è difficile dimenticare il volto avvizzito riflesso da uno specchio a tre facce. L’azione del film si svolge in una squallida cittadina di provincia. Gli oggetti servono a esprimere i conflitti, ma non assumono mai un senso simbolico: le metafore s’esprimono col montaggio: il signor Beudet arrabbiato diventa un orco, la musica di Debussy suonata al pianoforte dalla signora Beudet evoca ruscelli e stagni. Ma il film è decisamente intellettualistico e troppo spesso irritante.
Maria di Magdala è una fervente religiosa che fatica all’idea di doversi sposare. Poco accettata nella sua famiglia patriarcale, abbandonerà quest’ultima per seguire Gesù di Nazareth e farsi apostola tra gli apostoli accanto a lui. Imparerà il significato dell’amore e sceglierà di soccorrere gli oppressi, aprendo al dialogo con le donne e all’accoglienza degli ultimi.
Il piccolo Billy riceve per Natale un Mogwai, misterioso animaletto che il padre ha comprato da un vecchio cinese. Contravviene alle istruzioni ed esso dà vita, suo malgrado, a una schiera di orribili mostricciattoli che seminano il terrore. Con E.T. Steven Spielberg commosse i bambini di mezzo mondo; con Gremlins , prodotto da Spielberg, Dante li spaventa e li fa ridere. A metà strada tra l’opera e la fantasia, è un film intelligente, astuto nella confezione, ricco di umorismo eversivo. Scritto da Chris Columbus e ispirato a un racconto (1943) di Roald Dahl che durante la guerra 1939-45 fu pilota sui caccia della RAF. Gremlin è un termine gergale, inventato – sembra – dagli aviatori inglesi durante la guerra 1939-45 per indicare i folletti ritenuti responsabili di guasti inspiegabili.
Il mondo della prostituzione in un quartiere degradato della capitale spagnola. Caye fa la prostituta e risparmia fino all’ultimo centesimo per rifarsi il seno per lei troppo piccolo. Zulema, anche lei prostituta, è domenicana e manda i soldi al figlio di cinque anni e alla madre. Le due, prima quasi nemiche visto che le immigrate rubano i clienti alle indigene, nella difficoltà e nella sofferenza diventano amiche. In attesa che il giorno fortunato, quello che sogni da tutta la vita, quello che la vita te la può cambiare, arrivi. E da prostitute, ogni tanto riescono a scoprirsi o a inventarsi principesse. È la nuova pellicola di Fernando Leon de Aranoa, regista madrileno che già con I lunedì al sole aveva fatto notare la sua sensibilità sociale, il suo sguardo attento nei confronti di realtà complesse. Incredibilmente aiutato dalla bravura delle due attrici protagoniste (l’intensa Candela Pena, già vista in Tutto su mia madre di Almodovar e la quasi esordiente Micaela Nevárez), e dalla colonna sonora in gran parte ritmata dalla musica ora malinconica ora esuberante di Manu Chao, il film, benché sembri continuamente per cadere nella banalità, riesce sempre ad aggirarne i pericoli e le insidie. Racconta così, con onestà intellettuale e freschezza visiva, la piccola storia di due giovani donne border line, a cui la vita per il momento ha regalato davvero poco. Morbosamente attaccata ai volti delle due donne, i cui primissimi piani intimoriscono, importunano e commuovono, la macchina da presa del regista si aggira in una Madrid sconosciuta, in cui si cerca una convivenza fra diversi, siano essi immigrati, prostitute o drogati, che si ritrova nella necessità di fare unione e di creare solidarietà.
Dal romanzo Dejarse llover ( Lasciarsi portare , 2005) di Paula Farias, attivista di Medici Senza Frontiere, sceneggiato da Diego Farias. Bosnia, novembre 1995, nei giorni in cui fu firmata la pace di Dayton. 5 assistenti umanitari di una ONG cercano una corda per tirare fuori da un pozzo un cadavere buttatovi apposta per allontanare gli abitanti del luogo. Si rivela un’impresa disperata. Quasi un documentario di una giornata qualunque di un gruppo di volontari in una zona bellica, riesce a far capire cos’è una guerra senza far sentire nemmeno uno sparo, a coinvolgere e perfino a divertire intrecciando le vicende umane dei protagonisti. Merito della regia, in primo luogo per la direzione degli attori, credibili e affiatati. Il titolo è lo stesso di una canzone di Lou Reed, che fa la parte del leone nell’incisiva colonna sonora.
Regolamento di conti all’interno di una banda di criminali italoamericani che agisce a Milano, imperniato su Ugo Piazza (Moschin) che, fatti tre anni di carcere, è sospettato dai suoi compari di avere intascato 300000 dollari. Dal romanzo postumo Stazione Centrale ammazzare subito di Giorgio Scerbanenco (1911-69), sceneggiato da Di Leo, è un film d’azione violenta con risvolti di critica e denuncia sociale e almeno una battuta fatidica (“Se si va avanti così, vedrai che dovranno creare l’antimafia anche a Milano”). Bella compagnia di attori tra cui spiccano Moschin e Wolff.
Huller lavora al Luna Park. Conosce Berta Maria, se ne innamora e si separa dalla moglie. Un drammone diretto con grande mestiere e pieno di suggestioni visive molto interessanti.
Il 20 aprile 1945 Hitler, Eva Braun e alcuni ufficiali nazisti si barricano in un bunker a Berlino, dove il dittatore si darà la morte assieme all’amante, che nel frattempo ha sposato. I suoi accoliti non lo seguiranno, come avevano promesso, nella morte.
Eleonora Danco, autrice e regista teatrale al suo debutto cinematografico, si aggira fra Roma e Terracina vestita di bianco, talvolta in pigiama (con letto annesso), talvolta drappeggiata da una sorta di tunica romana (con in mano un piccone). E fa domande a tutti, soprattutto a suo padre, che risponde infastidito difendendo a spada tratta la sua privacy. Danco interroga il nostro Paese concentrandosi sui suoi due estremi anagrafici: da un lato i giovani e giovanissimi, dall’altro i vecchi e vecchissimi. Le sue domande riguardano i grandi temi della vita – a cominciare dalla morte e dalla possibilità che esita un aldilà – ma anche i problemi della contemporaneità, raccontati nel loro divenire. Così la violenza domestica ritorna nelle parole di un’anziana picchiata per una vita dal marito e in quelli di una ragazza che conosce coetanee malmenate dai fidanzati; la questione del lavoro parte dallo sfruttamento minorile raccontato da un’anziana e atterra alla pizzeria dello zio dove un ragazzo presta servizio dopo la scuola. In mezzo, naturalmente, ci sono tutte le facce contemporanee della disoccupazione giovanile. Le domande di Eleonora portano l’eco delle inchieste pasoliniane, ma ciò che le distanzia dal sondaggio paragiornalistico è la decontestualizzazione di matrice teatrale. La regista e autrice colloca i suoi intervistandi in luoghi insoliti, creando attorno a loro una coreografia surreale che ha l’effetto di ottenere dai “soggetti” una verità meno condizionata dalla presenza della cinepresa. I suoi interrogativi assumono il ruolo di una sfida, soprattutto nei confronti della figura paterna, e assottigliano il confine fra curiosità e provocazione. Quel che emerge è un ritratto della contemporaneità in cui passato e presente rivelano una insospettabile continuità (perlopiù in negativo) ma anche quel gap nella trasmissione del sapere (anche solo contadino) che ha lasciato un vuoto cosmico nella percezione di sé e del mondo fra i più giovani. Un vuoto che è prima di tutto culturale (devastante il rapporto fra i ragazzi e la scuola) e poi esistenziale. Ad affrancare la narrazione dalla pesantezza sociologica è l’ironia che appartiene tanto all’intervistatrice quanto agli intervistati – soprattutto gli anziani. Il punto più debole del film è, paradossalmente, l’eccesso di presenza fisica della Danco, che aggiunge ad una narrazione già fortemente personale (nelle domande, nelle messinscena) alcuni monologhi in voce fuori campo e parecchie immagini di se stessa “teatralizzata” nel contesto urbano e marino. La potenza delle immagini di N-capace, comprese quelle che vedono la regista protagonista, resta comunque fuori discussione: lei immersa in una vasca in mezzo ai biscotti Gentilini, il primo piano della vecchia contadina in mezzo agli ulivi e ai pomodori, il quadro surreale con i due astronauti fra melanzane e i peperoni strategicamente piazzati, l’anziana signora con intorno le scarpe abbandonate (nere, non rosse, per una volta). N-capace è un coraggioso esperimento linguistico in equilibrio fra autenticità e finzione e un’efficace mappa per raccontare il presente. È anche un affresco postmoderno che mescola arti figurative e inchiesta, performance art e cinema. Un’ibridazione utile – e forse necessaria – per raccontare in modo nuovo questa Italia, oggi.
Christian, un giovane soldato tedesco, è inizialmente un convinto assertore delle teorie naziste in cui ricerca un mezzo di elevazione sociale, ma la rivelazione della crudele realtà (i campi di concentramento, l’assassinio di prigionieri feriti) provoca in lui una grave crisi esistenziale; Il film doveva essere la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Irwin Shaw, ma Brando diede del personaggio di Christian un’interpretazione più approfondita e problematica; nel libro, infatti, il protagonista è fedele fino all’ultimo all’ideologia hitleriana.
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