Un ufficiale della Legione straniera a riposo ha una schiena preziosa, visto che reca un tatuaggio firmato nientemeno che da Modigliani. Un antiquario, che a tutti i costi vuole l’insolito dipinto, fa con lui un contratto: in cambio del Modigliani si impegna a restaurare la sua casa-castello. Dopo continue difficoltà per rispettare l’accordo, l’antiquario si decide a trasferirsi nel maniero dell’ufficiale
Braccato dalla polizia a causa di numerosi furti e rapine, il bandito Pepé le Moko (Jean Gabin, qui all’apice della sua carriera) si rifugia nella casbah di Algeri, dove gode di appoggi e protezioni, sempre tenuto d’occhio a distanza dall’ispettore Slimane.La travolgente passione per Gaby, una sensuale ragazza parigina, porterà Pépé a lasciare la casbah per tentare inutilmente di imbarcarsi alla volta della Francia (così come ne Il porto delle nebbie Jean non riuscirà a partire per il Sudamerica), ma quando vedrà il suo piano fallire, Pepè decide di uccidersi prima di cadere nelle mani della polizia. Uno dei più famosi cult-movie del cinema francese, che consacra la stagione del ‘realismo poetico’, debitore in parte ai gangster movie americani (Scarface di Hawks), ma con un sottofondo di romanticismo e di esotismo esaltato da complessi movimenti di macchina e da ricchi contrappunti sonori. Un’autentica “romantica tragedia moderna” segnata da una pesante sconfitta umana e dall’impossibilità di una qualunque forma di riscatto sociale.
La storia di Andy Kaufman, una sorta di comico di rottura, forse geniale, forse idiota, forse dotato, forse cialtrone. Passava dall’imitazione di Elvis alla lettura integrale, davanti a un pubblico letteralmente addormentato, de Il Grande Gatsby di Fitzerald. Morì di cancro dopo aver inutilmente visitato quei guaritori orientali cialtroni come lui. Davvero bravo Carrey, che non sarà simpatico a tutti, ma è ormai un attore vero. Forman ci sa sempre fare, anche se è lontano dalla qualità dei suoi copolavori: Il cuculo, Amadeus.
Èun’ennesima versione del romanzo di Tolstoj sceneggiato oltre che dallo stesso Duvivier anche dal celebre commediografo Jean Anouilh. L’interpretazione di Vivien Leigh, diversissima da quella della Garbo, è efficacissima.
Roma primi anni Sessanta. Giovanni Alberti cerca di fare l’imprenditore edile senza avere capitali, e si trova in grandi difficoltà. I suoi amici sono tutti costruttori e hanno un tenore di vita che Giovanni non può sostenere. Quando chiede prestiti gli altri fanno orecchie da mercante. Giovanni deve ridimensionarsi e la moglie, abituata all’agiatezza, non capisce, in sostanza lo lascia. Giovanni incontra la moglie, non giovane, di un grande costruttore. Questa, ammiccante, gli dà un appuntamento. Ma la ragione non è quella che Giovanni immaginava: la donna gli chiede se sarebbe disposto a vendere un occhio al marito, che lo aveva perso in un incidente. Giovanni dapprima è furioso, ma poi capisce di non aver altra scelta. Con l’anticipo dei duecento milioni pattuiti dà una grande festa, per l’invidia di tutti, e sana i suoi debiti. La moglie torna a casa e tutto va a posto. Adesso però c’è da vendere l’occhio. In clinica Giovanni è terrorizzato, cerca di scappare ma viene ripreso. Non potrà proprio sottrarsi. Il film ebbe allora critiche pessime. Bastava che una storia dispensasse qualche sorriso perché venisse ritenuta di serie B. Era il dramma del povero Totò. Il Boom è del 1963, che fu proprio l’anno fondamentale del miracolo economico italiano (del “boom” appunto), e De Sica fece un ritratto che risulta geniale soprattutto a posteriori, quando sappiamo che quella stagione era soprattutto una speranza se non un abbaglio. La vicenda individuale di Alberto Sordi era come sempre la storia della speranza di un italiano. Del resto è proprio con ruoli come questo che l’attore è diventato l'”Albertone nazionale”, l'”Italiano medio”, il “più italiano degli italiani”. Noi riteniamo che nessun film come questo rappresenti quei sentimenti e quella confusione. Tutto questo con in più l’effetto De Sica, maestro assoluto, conoscitore della gente come nessuno e con l’effetto Sordi, nel momento migliore della sua carriera.
Dal libro di Michael Cunningham, emergentissimo autore americano già insignito di Pulizter. Storia di tre donne legate dal romanzo “Mrs Dalloway” scritto da Virginia Woolf e letto dalle altre due con risultati devastanti. Prima storia: della stessa Woolf (Kidman, deturpata per assomigliare all’originale), fine anni venti, Inghilterra, quando la scrittrice non riesce ormai più a controllare il suo mortale esaurimento (infatti si annegherà riempiendosi le tasche di sassi). La seconda è quella di Laura (Moore) a Los Angeles 1949, che ha, fra le altre angosce, un marito dolciastro e convenzionale che le fa odiare la vita e il figlio: li abbandonerà per trovare se stessa.
Un film di Carl Theodor Dreyer. Con Sybille Schmitz, Julian West, Henriette Gérard, Rena Mandel Titolo originale Vampyr ou l’étrange aventure de David Gray. Drammatico, b/n durata 75 min. – Francia 1932. MYMONETRO Vampyr valutazione media: 3,89 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
David si ferma per una notte in una locanda e conosce uno strano vecchio che gli lascia un incartamento che gli chiede di leggere dopo la propria morte. Ripreso il viaggio giunge al maniero dell’anziano personaggio ed è testimone della sua morte. Letto il manoscritto scopre l’esistenza di una vampira, certa Marguerite Chopin. Dopo alterne vicende David riesce a sconfiggere il male, colpendo al cuore la vampira con un paletto. Capolavoro pieno di inquadrature mirabili come la soggettiva di David che viene condotto, nella bara, verso la sepoltura. Dreyer miscela realtà e onirismo in uno spettacolo di grande effetto. Tratto dal libro Camilla di Sheridan Le Fanu e fotografato da Rudolph Matè. In circolazione non esistono copie in italiano restaurate. Per poterlo vedere al meglio bisogna accontentarsi di copie in originale con sottotitoli in inglese.
L’onorevole Massimo Bonfili, attualmente impegnato nell’elaborare una riforma del diritto di famiglia, ha moglie, due figlie e una abitazione altoborghese. Ha però anche un’amante, Martina, una splendida attricetta che lui ha molto aiutato a trovare un suo spazio nel mondo dello spettacolo. C’è però il rischio di essere scoperto e Bonfili non se lo può permettere, non tanto sul piano della conservazione degli affetti familiari quanto piuttosto su quello della politica. La soluzione è a portata di mano: basta chiedere all’autista Mariano di fingere di essere l’amante della ragazza.
Un pilota sposa una ragazza e l’abbandona la prima notte di nozze dopo averla derubata. Un errore di persona lo dà per morto e sua moglie, che nel frattempo ha avuto un figlio, sposa un altro. Quando il pilota viene trovato assassinato entrambi si autoaccusano.
Non ho trovato versione in italiano. I sottotitoli in italiano sono tradotti da google, potrebbero esserci degli errori
Diane è una madre single, una donna dal look aggressivo, ancora piacente ma poco capace di gestire la propria vita. Sboccata e fumantina, ha scarse capacità di autocontrollo e ne subisce le conseguenze. Suo figlio è come lei ma ad un livello patologico, ha una seria malattia mentale che lo rende spesso ingestibile (specie se sotto stress), vittima di impennate di violenza incontrollabili che lo fanno entrare ed uscire da istituti. Nella loro vita, tra un lavoro perso e un improvviso slancio sentimentale, si inserisce Kyle, la nuova vicina balbuziente e remissiva che in loro sembra trovare un inaspettato complemento. C’è spazio per una persona sola nei fotogrammi di Mommy. Letteralmente. Il formato scelto da Xavier Dolan per il suo nuovo film infatti è più stretto di un 4:3. Inusuale e con un altezza leggermente maggiore della larghezza, costringe a prevedere una persona sola in ogni inquadratura o a strizzarne due per poterle guardare da vicino. Come un letto a una piazza. Attraverso questa visione simile a una gabbia, Dolan racconta di nuovo di un figlio e una madre, cercando di cogliere una complessità inedita nella storia della rappresentazione di questo rapporto al cinema e finendo per creare tre personaggi lontani da qualsiasi paragone o altri esempi già visti, che si presentano come destinati all’infelicità sebbene condannati a provare a sfuggirgli. Intrappolati in un formato claustrofobico, non gli rimane che sognare la libertà e serenità di un irraggiungibile 16:9. Nonostante infatti un inizio di gran ritmo e divertimento, lentamente i medesimi eccessi che suscitano risate diventano una catena. Le battute e le interazioni non cambiano ma dal ridicolo si passa alla compassione quando da un livello superficiale di osservazione si entra dentro alla famiglia e ciò che ci appariva divertente si trasforma in un inferno. E’ solo una delle tante piccole raffinatezze di questo quinto film di Xavier Dolan, sempre caratterizzato dalla volontà di non negarsi il piacere della sottolineatura (i consueti ralenti, il gioco con i formati, l’uso di musiche molto note) in storie che nulla hanno di normale. La grande dote del cineasta ragazzino è di immaginare archi narrativi diversi da quelli cui siamo abituati, storie che cercano il coinvolgimento senza ricorrere al consueto ma anzi stimolando curiosità nuove, e di saper condire tutto ciò con una capacità di generare immagini come pochi altri sanno inventare. Steve che zittisce la madre mettendole una mano sulla bocca e poi bacia il dorso della mano stessa frapposta tra le loro labbra è un momento di inusitata forza, perfetto per chiarire d’un colpo il loro rapporto fatto di soprusi e violenza che alimentano e rendono difficile comunicare amore. Dolan ha il merito indubbio di cercare le sensazioni forti unito al pregio di trovarle, fa di tutto per strappare lacrime ed è quindi molto difficile non commuoversi di fronte ad un certo pietismo per l’illusoria ricerca di un’impossibile felicità che anima le speranze dei personaggi. Confondere il desiderio di catarsi di un’autore che sa picchiare come un pugile professionista con il bieco arruffianamento del pubblico sarebbe però una prospettiva miope incapace di comprendere il più bel film passato al Festival di Cannes. Dopo tre film che in un modo o nell’altro mettevano in contrasto madri disamorate con figli bisognosi di comprensione, ora Dolan è passato dall’altra parte della barricata e il risultato ne guadagna. Steve è il meno gestibile dei figli possibili, malato e bisognoso d’affetto è capace di distruggere tutto quel che gli è intorno e sua madre forse è il soggetto meno indicato per curarlo, prendere una parte questa volta è impossibile, perchè ci vorrebbe la migliore delle famiglie per Steve, invece si ritrova una donna incapace a gestire anche se stessa. Da qui Mommy parte verso i lidi meno prevedibili, perchè nella violenza che caratterizza il loro rapporto lentamente emerge una delle forme d’amore più genuine che si possano immaginare, comunicato senza nessuna sottigliezza, solo urlando e passando per clamorose scenate. Mentre il mondo intorno a loro pensa che si odino, lo spettatore lentamente comprende che non è così. Il salto di qualità però Mommy lo fa non puntando unicamente su un contrasto titanico che da solo basterebbe ad animare il film. Ambientando la storia in un futuro a breve termine (solo un anno in avanti) introduce elementi di fantasia come una legge inesistente che gli consente di piegare gli eventi in maniere altrimenti impossibili (oltre ad affermare una libertà creativa dissetante), in più tra madre e figlio posiziona anche un terzo personaggio che alla lunga si rivela il più interessante: una vicina di casa con problemi psicosomatici di balbuzie e una vita che forse non l’aiuta. Remissiva, specie se confrontata ai due tifoni umani che comincia a frequentare, la Kyla di Suzanne Clement introduce lo spettatore nell’assurda vita della famiglia Deprés ma dopo poco supera lo statuto di “personaggio osservatore” e diventa un terzo polo d’attrazione sentimentale, lasciando entrare un’emotività sommessa da dove nessuno se l’aspetterebbe
Un ex detenuto incarica un investigatore privato di rintracciare la sua amichetta scomparsa, ma c’è un’inchiesta parallela su gioielli rubati. È il 2° adattamento del romanzo di Raymond Chandler Addio, mia amata (1940) dopo quello mediocre del ’42 con G. Sanders e prima di quello buono del ’75 con R. Mitchum nella parte di Philip Marlowe. Il migliore dei 3. Quintessenza del film nero, un piccolo capolavoro di cinema espressionista (fotografia di Harry J. Wild) con una qualità visiva che influenzò molti film dell’epoca.
È il primo film di De Seta. Il personaggio principale è un pastore che, suo malgrado, è costretto a tenere in casa alcuni banditi. Sospettato e ricercato dalla polizia non troverà altra alternativa che quella di darsi al banditismo. Il film ebbe un premio speciale a Venezia.
La storia di un grande circo, in un film rimasto famoso nel suo genere, si intreccia ai drammi personali degli attori e dei dipendenti che vi lavorano. I guai delle persone sono di scarso rilievo di fronte all’esigenza dello spettacolo che deve andare avanti a tutti i costi (e fare cassetta).
Il primo film storico sonoro di Cecil B. de Mille. Claudette Colbert nel ruolo di Poppea fa il bagno nel latte e il trentenne Charles Laughton (Nerone) sembra un lattante un po’ troppo cresciuto.
Nell’isola di Procida, Arturo è cresciuto solo perché la madre è morta e il padre si fa vedere pochissimo. Ma improvvisamente la situazione cambia e il padre si stabilisce sull’isola insieme alla giovanissima moglie. Arturo, che ha 15 anni, si innamora della matrigna, ma questo sentimento non viene mai inquinato da passioni morbose. Il ragazzo compie le sue prime esperienze sessuali con una ragazza più grande di lui. Da Elsa Morante.
Proprietario di una falegnameria che funziona come centro di formazione professionale, il gentile e laborioso Olivier (Gourmet) accoglie tra i suoi allievi il sedicenne Francis (Marinne), reduce da cinque anni di riformatorio che, dopo averlo conosciuto, gli chiede di diventare suo tutore, non sapendo che è il padre del ragazzino da lui ucciso cinque anni prima. L’intreccio del 3° film dei fratelli Dardenne “è il personaggio, opaco, enigmatico. Forse è l’attore stesso” (Gourmet fu premiato a Cannes 2002). Braccato dalla cinepresa (una recente A-Minima) che gli sta incollata addosso, spesso alle spalle, Olivier è il raro caso di un personaggio inseparabile dalla suspense angosciosa che imbeve lo spettatore, costretto moralmente a immedesimarsi con lui anche nella prima ora abbondante in cui ignora la natura del suo rapporto con il ragazzo. I Dardenne “continuano a togliere, ad asciugare trama, dialoghi e décor. E più tolgono, più il risultato è potente” (F. Tassi). Cinema lucido, concreto – “La verità è concreta” (B. Brecht) – preciso nei particolari, fatto di sguardi, con un uso della cinepresa a spalla che raramente è stato così fluido, funzionale, espressivo. Si chiama Il figlio . Poteva chiamarsi Il padre . Fotografia: Alain Marcoen. Senza musica.
Gloria e Michel si conoscono tramite un sito di appuntamenti online e già la prima notte scoppia la passione. La mattina seguente Michel chiede in prestito dei soldi a Gloria e le dà un numero di telefono falso, ma la donna non si arrende e cerca di rintracciarlo. Esponente dell’ondata del nuovo cinema estremo di lingua francese, quella che unisce Alexandre Aja, Gaspar Noè e un capolavoro come Martyrs, il belga Fabrice Du Welz conferma con Alleluia di disporre di un tocco ineguagliato per disturbare lo spettatore, trasmettergli inquietudine e trascinarlo poi con sé sui binari del delirio.
India, 1938. Chuya, una ragazzina di appena otto anni, viene allontanata dalla sua famiglia e trasferita in una casa ritrovo per vedove indù, per espiare la colpa d’un marito perso e mai conosciuto, attraverso l’eterna penitenza imposta dai testi sacri. Tra veglie e preghiere, la ragazzina porterà una ventata di freschezza – e di scompiglio – che contagerà l’affascinante Kalyani, giovane vedova innamorata di Narayan, un fervente idealista sostenitore di Gandhi. Il film di Deepa Mehta va a concludere una personale trilogia sugli elementi acqua, fuoco e terra. Il tema trattato – la condizione della donna e in particolare delle vedove – apre nuovi spiragli su una condizione di disagio che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni dalle conquiste del “profeta” Gandhi, contagia centinaia di migliaia di donne costrette alla ferrea osservanza delle pratiche religiose. Se l’argomento è encomiabile nel suo tentativo di scardinare i dogmi della tradizione per far posto ai mutamenti sociali e culturali, il film in sé resta paradossalmente impigliato proprio in questo tentativo. Il labile confine che separa il tono documentaristico dalla finzione filmica si perde in scene didascaliche e incomplete, in recitazioni affettate e poco credibili, nella lezioncina da cinema (b)hollywoodiano – con tanto di lacrima finale – buttata giù a memoria e tutt’altro che impeccabile. Un film che apre uno spiraglio di speranza e di conoscenza in più su pratiche sconosciute al grande pubblico, ma che scontenta il botteghino – e gli spettatori – per l’eccessiva austerità.
In una notte di pioggia il giovane e appassionato fotografo Isaac viene chiamato per scattare l’ultima foto a una morta. Angelica, questo è il suo nome, apre gli occhi e sorride mentre Isaac scatta. Da quel momento per il giovane ha inizio un’ossessione amorosa. Agli incubi si alternano momenti di profonda gioia quando vede la fanciulla comparire dinanzi a lui come uno spirito carico di positività.
A New York il tenente Muldoon (Fitzgerald) della squadra omicidi è impegnato nella caccia a un lottatore di professione che ha assassinato una ballerina, uccidendo poi il suo scomodo complice. Da un racconto di Malvin Wald che lo sceneggiò con Albert Maltz, prodotto per l’Universal da Mark Hellinger, ex cronista di nera. Il titolo è quello di un libro del fotografo Weegee (pseudonimo di Arthur Felling) sulla violenza, la povertà, la criminalità di New York. Notevole soprattutto per la forza espressiva degli esterni, rimane un ammirevole esempio di cinema poliziesco con una trascinante sequenza finale. 2 Oscar: fotografia di William Daniels e montaggio di Paul Weatherwax. Suggestive musiche di Frank Skinner e Miklós Rósza. Diede origine a una serie TV.
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