Il seguito di Fuga dalla scuola media di Todd Solondz, un film indipendente corale. Una delle storie sarà incentrata su Dawn Wiener, soprannominata senza pietà “Weiner Dog”. Attorno a lei ci sono altre persone, la cui vita è stata ispirata o modificata da un particolare bassotto in grado di diffondere conforto e gioia.
Maddalena Ciarrapico, operaia napoletana in un salumificio, sbarca a New York per raggiungere il fidanzato Michele, proprietario di un ristorante. Non le permettono di uscire dall’aeroporto perché ha con sé una mortadella: dopo l’epidemia di febbre suina del 1967, una legge USA proibisce l’importazione di insaccati. I doganieri risolvono il caso mangiandola. Delusa da Michele, in Italia di sinistra, qui preoccupato solo di guadagnare, si affida a un giornalista locale, autore di uno scoop sul suo caso. La delude anche lui. Rimane sola nella metropoli. Scritta da S. Cecchi D’Amico, Monicelli, R. Lardner Jr., è una commedia con pretese di critica sociologica sugli USA visti dagli italiani. Un po’ stracca, ricca di stereotipi, in funzione di una star calante.
Harry e Moe, uno italo-americano, l’altro ebreo-italiano, due criminali di piccolo calibro, vivacchiano alle dipendenze di un boss che li usa come cavie (assaggiano i cibi o avviano il motore dell’auto per proteggerlo da eventuale omicidio) e sognano di avere un ristorante. Un giorno scappano con l’ingente somma che dovevano puntare, per il capo, su un altro cavallo. Ne vedranno di tutti i colori ma poi riusciranno a recuperare i fondi per il loro ristorante.
Chili (Travolta) è un esattore della mafia. Arriva a Hollywood e viene catturato dal morbo del cinema. Intorno a un copione che sarà un sicuro successo, si intrecciano storie di gangster, di divi del cinema, di spacciatori colombiani. Alla fine il film viene prodotto, proprio da Chili, con Harvey Keitel protagonista. Gangster story rosa che cerca parentele con Pulp Fiction e che ripropone un Travolta riveduto e corretto proprio rispetto al personaggio del film di Tarantino.
Jerry Falk è un giovane aspirante scrittore di New York. Incontra Amanda, una ragazza libera e spregiudicata, e se ne innamora pazzamente. Amore e passione, però, non bastano a tenere in piedi la relazione e Jerry chiede aiuto al suo mentore. Questo film rappresenta una svolta nel cinema di Woody Allen per più motivi. Quello più esteriore è la sua presenza (per la prima volta dopo anni e anni di programmazione dei suoi film e anche dopo l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera che fece ritirare da Carlo Di Palma) alla Mostra del Cinema di Venezia. Quelli invece più sostanziali stanno, come è giusto che sia, sul piano dello stile e del contenuto del film.Sul piano stilistico colpisce il frequentissimo uso che Woody fa dello sguardo in macchina. Jerry non perde occasione per rivolgersi allo spettatore, coinvolgendolo quindi direttamente nelle sue vicende. Woody poi utilizza per la seconda volta un alter ego cinematografico in compresenza sullo schermo. Lo aveva già fatto con il personaggio di Michael Caine in Hannah e le sue sorelle ma il rapporto tra i due non era comunque così diretto. Qui invece la relazione dei due è da maestro ad allievo nella difficile scuola della vita. Il primo insegna al secondo come comportarsi e nessuno dei due è in ottime relazioni con se stesso e il mondo. Ne nasce un interessante duetto con variazioni sui temi cari al regista. Ma dove la sorpresa si fa veramente grande è quando Woody reagisce ai soprusi con la violenza. Il suo personaggio non subisce più in totale passività. Che sia cambiato qualcosa dopo l’11 settembre? Certo è che il suo cinema costituisce sempre un invito a riflettere sull’uomo e sulla sua condizione perché Woody è perfettamente consapevole, come afferma il suo personaggio, che “Se uno va alla Carnegie Hall e vomita sul palco troverà qualcun altro disposto ad affermare che si è trattato di un’opera d’arte”. Allen non ama questo tipo di esibizioni e di estimatori.
Il Big Kahuna è il grande colpo, la grande vendita. Tre agenti di una società in crisi cercano di agganciare un possibile ricco cliente. Parlano, parlano, del lavoro, di se stessi, della vita. Un vero “Kammerspiel” (tutto in una, anzi, due stanze). Si aspetta, si aspetta. Per niente. Si salva De Vito, più bravo del “doppio oscar” Spacey, che pure si è costruito il film addosso.
La bella scrittrice di romanzi rosa Joan Wilder (Turner) si trova coinvolta con l’avventuriero Jack Colton (Douglas) nella caccia ad una mitica e preziosissima pietra verde tra i mille pericoli della giungla colombiana. Tra spietati e grotteschi militari sudamericani, gangster pasticcioni e famelici coccodrilli, i due troveranno lo smeraldo e l’amore. Film di buon intrattenimento, dove l’avventura e l’azione sono in perfetto equilibrio con l’ironia delle situazioni e la simpatia dei personaggi (che incontreremo di nuovo nel sequel Il gioiello del Nilo).
La famiglia Lisbon, composta dai genitori e da cinque ragazze fra i 13 e i 17 anni, vive in una cittadina dell’Oregon. Le cinque sorelle sono tutte molte belle e affascinanti ed esercitano sui ragazzi del vicinato un fascino irresistibile. Tutto cambia quando la più giovane, Cecilia, si suicida buttandosi dalla finestra.
Un avvocato mette in guardia un cliente raccontandogli la storia di due coniugi che, all’inizio, sembrano i più felici di questo mondo, ma finiscono con l’odiarsi e desiderare la morte dell’altro. Danny De Vito, che ha sempre raggiunto appena la sufficienza come attore, dimostra con questo film che si può fare di una commedia un capolavoro, Allendocet. Già il titolo originale occhieggia ironicamente alla guerra delle due rose e di conflitto sanguinario si tratta veramente. Fino al termine della prima parte si crede di essere nel bel mezzo di una commedia hollywoodiana, anche se le carte in tavola sono già un po’ mischiate, ma ci si accorge ben presto che i due si odiano davvero e il finale non è per nulla consolatorio. Le migliori interpretazioni della carriera di Douglas e della Turner. Non adatto a chi crede nella famiglia e al lieto fine.
La storia di Andy Kaufman, una sorta di comico di rottura, forse geniale, forse idiota, forse dotato, forse cialtrone. Passava dall’imitazione di Elvis alla lettura integrale, davanti a un pubblico letteralmente addormentato, de Il Grande Gatsby di Fitzerald. Morì di cancro dopo aver inutilmente visitato quei guaritori orientali cialtroni come lui. Davvero bravo Carrey, che non sarà simpatico a tutti, ma è ormai un attore vero. Forman ci sa sempre fare, anche se è lontano dalla qualità dei suoi copolavori: Il cuculo, Amadeus.
Nel 1952 a Los Angeles regnano corruzione, scandali, inganno, ambizioni sfrenate e già la droga. I personaggi principali sono 3 agenti della Squadra Omicidi, ambigui difensori della legge. Tratto dal romanzo (1990) di James Ellroy, sceneggiato dal regista con Brian Helgeland, è uno di quei polizieschi che esimono dal dovere di raccontare la trama, tanto è densa di personaggi e complicata nello sviluppo dei fatti, esposti in sequenza cronologica con un ritmo che non lascia un attimo di tregua, come ha insegnato Hawks. Hanson, regista di mestiere, ha dato il meglio di sé, specialmente nella scelta e nella direzione degli attori, ma anche l’ambientazione è talmente accurata che, se non fosse per il colore, sembrerebbe un nero d’epoca. Accolto con unanime favore dalla critica USA, è un riuscito poliziesco di prim’ordine. Efficace fotografia di Dante Spinotti. Due Oscar: attrice non protagonista (Basinger) e sceneggiatura non originale.
Baltimora, 1963. È la storia dell’ostinata e rissosa inimicizia tra due tin men, venditori di rivestimenti d’alluminio per case, capaci di vendere guanti a un monco e costumi da bagno a un eschimese. Tragedia della classe media recitata come una farsa. 3 attori in stato di grazia per un’analisi impietosa e divertente della subcultura maschile americana all’insegna della competizione e del cinismo. Scritta dal regista nato e cresciuto a Baltimora (Maryland), è una commedia d’autore.
A bordo di migliaia di dischi volanti i marziani arrivano sulla Terra. Il presidente degli USA è indeciso sul da farsi. Gli esperti si dividono in ottimisti e pessimisti. Il primo contatto con l’equipaggio di una nave spaziale dimostra che hanno ragione i secondi. Una vecchia nonna scopre per caso l’arma acustica che annienta gli invasori: melodie country & western ad alto volume. La sceneggiatura di Jonathan Gems è ispirata alla serie omonima di figurine della Topps Chewing Gum Company, uscite nel 1962. Prodotto dalla Warner, l’opus n. 7 dell’immaginoso Burton è sotto il segno di un’intelligenza impertinente, burlevole, caustica e politicamente scorretta che sbeffeggia e dileggia tutto e tutti. Costruito a capitoletti brevi per tener dietro al folto stuolo di personaggi (10 star almeno in un cast di 69 attori), infila una lunga catena di gag, invenzioni iperboliche, trovate oniriche, mostruosità bizzarre, quadretti umoristici che durano come la fiamma di uno zolfanello in una struttura narrativa (volutamente?) lasca, frammentaria e ridondante. Menzione speciale per Lisa Marie, compagna del regista, che fa la cotonata seduttrice aliena, incrocio tra una Barbie e una modella di Playboy . Ultimo film di S. Sidney.
Nessuno sa ideare e portare a termine un colpo con la perizia di Joe Moore (Gene Hackman): aria distaccata e sorniona, modi freddi ma gentili, è un rapinatore che riesce ad essere razionale anche sotto pressione. Nell’ultimo, geniale furto ad una gioielleria, però, il suo volto viene ripreso dalle telecamere: il colpo riesce comunque, ma Joe ritiene sia arrivato il momento di ritirarsi.Non la pensa così il ricettatore Mickey Bergman (Danny De Vito), che lo costringe a progettare un furto di lingotti d’oro caricati nella stiva di un aereo svizzero. E per essere ben sicuro che Joe non cambi idea, gli mette alle costole l’ambizioso Jimmy Silk, che non nasconde il proprio interesse per la giovane e bella moglie di Joe, Fran (Rebecca Pidgeon, per la cronaca l’attuale moglie di Mamet). Affiancato dai suoi compagni di sempre, Bobby e Pincus, Joe mette a punto un piano, o meglio, più piani di riserva, poichè qualcuno – o forse tutti – sembrano fare il doppio gioco… Presentato con successo all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, Heist è un incastro di scatole cinesi, dove ogni tranello ne nasconde un altro. David Mamet, regista e sceneggiatore ironico e tagliente, è bravo a costruire una storia complessa, dove la lealtà, dichiarata, scontata, sottintesa o tradita, è la chiave di volta per capire l’andamento della storia. È nell’evoluzione dei rapporti tra i membri della banda che si nasconde il vero giallo.
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