Gil (sceneggiatore hollywoodiano con aspirazioni da scrittore) e la sua futura sposa Inez sono in vacanza a Parigi con i piuttosto invadenti genitori di lei. Gil è già stato nella Ville Lumiêre e ne è da sempre affascinato. Lo sarà ancor di più quando una sera, a mezzanotte, si troverà catapultato nella Parigi degli Anni Venti con tutto il suo fervore culturale. Farà in modo di prolungare il piacere degli incontri con Hemingway, Scott Fitzgerald, Picasso e tutto il milieu culturale del tempo cercando di fare in modo che il ‘miracolo’ si ripeta ogni notte. Suscitando così i dubbi del futuro suocero.
Scritto da Brian Helgeland dal romanzo La morte non dimentica del bostoniano Dennis Lehane. Eastwood continua il suo discorso sul lato oscuro della società USA con quella che definisce una “tragedia americana”, ambientata in un quartiere operaio di Boston. 25 anni dopo la violenza sessuale inflitta da due pedofili a un ragazzino, avviene un’altra, più sanguinosa violenza che, in modo diverso, coinvolge due dei suoi coetanei di allora, scopre le conseguenze innescate dalla prima e si conclude con un terzo e ancor più tragico evento. Sangue chiama sangue in un intreccio di elisabettiana crudeltà con un finale in sospeso che rifiuta ogni catarsi, come indica, ai limiti dell’irrisione, la parata conclusiva del Columbus Day. Cupo in tutti i sensi, anche nella fotografia di Tom Stern. I suoi temi – perdita dell’innocenza, supremazia maschile con coazione alla violenza, impossibilità di liberarsi del passato – non comprendono il dominio del fato e della necessità, come nella tragedia greca, ma l’indecidibilità della presenza di un dio. È, insomma, un film laico: più che la disperazione, sottolinea un dolore che diventa strumento di conoscenza dell’umana fragilità. Pur con l’apporto dell’amico Lennie Niehaus, Eastwood, esperto musicofilo e pianista, è l’autore delle musiche. Oscar per Penn, attore protagonista, e Robbins, non protagonista. Non protagonista?
Jane Hudson (Davis), ex bambina prodigio frustrata dagli insuccessi, vive da trent’anni in una vecchia casa con la sorella Blanche (Crawford), già diva degli anni ’30, paralitica dopo un incidente d’auto. Tra le due sorelle c’è un perverso rapporto sadomasochistico. Gioco al massacro tra una vittima che diviene carnefice e un carnefice che si trasforma in vittima, in bilico tra il melodramma e l’horror, è un capolavoro del grand-guignol cinematografico, detestato da molti che lo considerano una vetta del Kitsch violento. È difficile, però, non ammirare il linguaggio rigoroso e stilizzato di R. Aldrich, la sapiente sceneggiatura di Lukas Heller (da un romanzo di Henry Farrell del 1960), la straordinaria recitazione del trio principale, la dimensione gotica dell’atmosfera narrativa. 3 nomination agli Oscar: B. Davis, V. Buono, la fotografia di E. Haller. Fu tale il successo del film che ne fu tratto un “musical”.
1952. Sammy Fabelman ha sei anni e al cinema non ci vuole andare, ha paura di affrontare quel mondo di giganti. La madre gli assicura che i film sono sogni indimenticabili, il padre lo rassicura descrivendogli il prodigio di una macchina che fa muovere immagini fisse. Davanti al loro bambino, Mitzi e Burt assumono ciascuno il proprio ruolo: la poesia da un lato, la tecnologia dall’altro. In sala Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille fa il resto. Sam esce dal cinema e l’avvenire è aperto.
Recrutando come figuranti compagni di scuola e sorelle, comincia a girare western ed epopee belliche nel deserto dell’Arizona. Gli anni intanto passano e Sam, adolescente, scopre nel flusso dei suoi fotogrammi aspetti insospettabili della vita dei suoi genitori. Il padre, brillante ingegnere, vorrebbe seguire una promozione a Los Angeles, la madre, pianista che ha abbandonato la sua carriera per allevare i figli, vorrebbe restare a Phoenix. Il trasloco è inevitabile, il divorzio pure. Sam si rifugia nel cinema e in un’estate in 16mm prima di diventare grande e fare grandi film.
Dai romanzi Carlito’s Way (1975) e After Hours (1979) di Edwin Torres. Ambientato nel 1975 a Harlem, il ritratto di Carlos Brigante, malavitoso portoricano che tenta invano di cambiare vita, la traiettoria di un destino che ha per traguardo una morte violenta. Almeno 4 sequenze di rilievo in questo opus n° 22 di B. De Palma, uno dei suoi migliori, tutto narrato in flashback; 2 forti interpretazioni di A. Pacino (doppiato benissimo da Giancarlo Giannini) e S. Penn, una sapiente sceneggiatura di David Koepp. Unico difetto di questo film neoromantico, vicino al noir più che al gangster: il convenzionale tema nostalgico della malavita che “non è più quella di una volta”.
Il 15 gennaio 2009 un aereo della US Airways decolla dall’aeroporto di LaGuardia con 155 persone a bordo. L’airbus è pilotato da Chesley Sullenberger, ex pilota dell’Air Force che ha accumulato esperienza e macinato ore di volo. Due minuti dopo il decollo uno stormo di oche colpisce l’aereo e compromette irrimediabilmente i due motori. Sully, diminutivo affettivo, ha poco tempo per decidere e trovare una soluzione. Impossibile raggiungere il primo aeroporto utile, impossibile tornare indietro. Il capitano segue l’istinto e tenta un ammarraggio nell’Hudson. L’impresa riesce, equipaggio e passeggeri sono salvi. Eroe per l’opinione pubblica, tuttavia Sully deve rispondere dell’ammaraggio davanti al National Transportation Safety Board. Oggetto di un’attenzione mediatica morbosa, rischia posto e pensione. Tra udienze federali e confronti sindacali, stress post-traumatico e conversazioni coniugali, accuse e miracoli, Sully cerca un nuovo equilibrio privato e professionale. Che cos’hanno in comune gli eroi di Clint Eastwood? Sono quasi sempre personaggi destabilizzati dal destino, da un crimine, da un’ingiustizia, dalla marginalità. Tutti, ciascuno a suo modo, sono alla ricerca dell’unità perduta. Non si tratta di una semplice risorsa narrativa, destinata a suscitare l’adesione del pubblico, per l’autore americano quella ricerca riflette l’esplorazione filosofica e artistica del suo cinema, producendo una felice coincidenza tra forma e contenuto. Quello che innerva la sua filmografia e gli conferisce una rimarchevole coerenza è il raggiungimento, la restaurazione e la formalizzazione estetica di una nozione sostanziale per l’uomo: l’equilibrio. Abilmente dissimulata sotto la vernice della narrazione, la ricerca del giusto mezzo si manifesta essenzialmente nella relazione che l’individuo intrattiene con la società e le istituzioni, l’insieme delle strutture politiche, giuridiche ed etiche che la cultura ha imposto alla natura. Sully, ritratto di un eroe della working class ‘processato’ da una gerarchia senza cuore e troppi cavilli, corrisponde alla perfezione questa relazione che Eastwood affronta sempre in maniera risolutamente conflittuale. Tom Hanks, everyman umanista del cinema classico, incarna in faccia alla commissione d’inchiesta, obbligatoria in caso di incidenti, il fattore umano, la scintilla dell’esperienza, l’essenza nobile del lavoro fatto semplicemente come dovrebbe essere fatto. Non per denaro, non per gloria, non per vanità, non per approvazione. Eroe ordinario alle prese con la realtà della sua situazione, Sully è fedele al giuramento prestato e alle conoscenze acquisite con la sua professione. Girato con la tecnologia Imax, che offre allo spettatore un’immersione piena nell’azione, accomodandolo nella cabina di pilotaggio a ‘vivere’ letteralmente l’esplosione dei motori, il silenzio che segue e le turbolenze dell’aereo che plana sul fiume, Sully resta nondimeno un film intimo, svolto nella testa del suo protagonista. Quello che ha fatto ‘in emergenza’ è inseparabile da quello che immagina, sente, conosce. Eastwood ricostruisce con lucidità l’esperienza e le attitudini del suo eroe, l’esordio giovanile, gli anni nella Air Force, perché è su quella pratica e su quella competenza che Sully decide di prendere la via del fiume. Lo sguardo dell’autore e l’interpretazione dell’attore trovano in Sully intimi cedimenti, confrontando il capitano eroico che ha gestito in volo crisi e destino con l’uomo a terra a disagio nel ruolo di eroe e in conflitto con quello che avrebbe potuto essere. Ammarando, il film emerge i flussi di coscienza del suo protagonista, interrompendo coi sogni angosciosi la linearità della rotta, scivolando nel passato per mettere l’incidente in prospettiva con la vita di Chesley Sullenberger. Con Sully e dopo Flags of Our Fathers e American Sniper, il regista interroga di nuovo la nozione ambivalente di eroismo che è al cuore dell’immaginario americano. Ma se il primo procede alla destrutturazione dell’eroicità e il secondo contraddice la missione del ‘primo violino’ dell’esercito americano in Iraq, Sullyriconfigura l’eroe. Eastwood ne distilla l’essenza andando oltre la sua rappresentazione mediatica e riabilitandone la natura tragica attraverso la paura incombente della morte. Con quella paura il protagonista fa i conti dal principio, il film si apre su un aereo che scivola lungo lo skyline di New York e si schianta contro il paesaggio urbano deflagrandolo. Prima di distinguere l’oggettività della vicenda, l’aereo di Sully è realmente ammarato, Eastwood mostra allo spettatore la visione ipotetica, l’enunciato condizionale, l’incubo di Sally, l’incognita mortale connessa con l’atterraggio. Come Zemeckis (The Walk) prima di lui, recupera la gravità dell’iconografia storica US, l’immagine depositata nella coscienza collettiva e la compensa, risvegliando Sully dall’incubo e suturando le ferite di New York. Al rigore geometrico dell’uomo che cade, fotografato da Richard Drew e allineato alla verticalità della Torre Nord, Sully replica la geometria orizzontale e variabile delle ali di un airbus che galleggiano e sorreggono la vita. Quella che Sully ha garantito con un gesto solerte, abile, puro. Eppure una sorta di inerzia scorata, prodotta da una società che ha estinto l’afflato leggendario dietro a regole, protocolli, simulazioni e statistiche, prova a trascinarlo sul fondo. Certo il National Transportation Safety Board pone domande legittime e cerca la risposta giusta (ne esiste una?) ma il processo è viziato da un’accusa tacita, uno scetticismo tenace, un’idea di colpevolezza poi smentita dai fatti. Sully ha preso una decisione, probabilmente l’unica possibile. Ed è quella decisione a determinare la misura del suo eroismo, il carico di responsabilità che il protagonista ha condiviso con l’equipaggio, il co-pilota, i controllori di volo, gli agenti di polizia, i soccorritori. Insieme hanno realizzato il “miracolo dell’Hudson”, ribadendo la natura etica del lavoro (di ogni lavoro) e provando l’inscindibilità ineluttabile dei destini umani. In aula e in fondo al film, Clint Eastwood rimette in quota il suo eroe e trasmette la medaglia da veterano ai soli eroi che la valgono: non più quelli che sparano ma quelli che si espongono. Non più quelli che scaricano coi colpi la responsabilità ma quelli che l’assumono mani alla cloche
I primi anni ’70 del rock americano sono una stagione che definire memorabile è riduttivo, per quantità e qualità di offerta musicale: l’onda lunga dei ’60 mescolata alle diramazioni rivoluzionarie che verranno, l’album che si afferma definitivamente sul singolo, i generi che cominciano a mescolarsi in ibridi sempre più suggestivi. Una stagione talmente aurea da costare il semi-anonimato per talenti tutt’altro che trascurabili: gente come Bruce Palmer, Shuggie Otis o Sixto Rodriguez. La parabola di quest’ultimo, però, è così carica di curiosità e sfortunate vicissitudini da meritare un discorso à rebours, che porta a un documentario che diviene dapprima un caso e in seguito un Oscar (per una volta) indiscutibile.
Un film di Kenji Mizoguchi. Con Machiko Kyô, Masayuki Mori, Tanaka Kinuyo, Sakae Ozawa, Mito Mitsuko Titolo originale Ugetsu monogatari. Drammatico, b/n durata 93′ min. – Giappone 1953. MYMONETRO I racconti della luna pallida d’agosto valutazione media: 4,38 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nella regione di Omi, presso il lago Biwa, verso la fine del sec. XVI nel Giappone devastato dalla guerra civile, Genjuro, vasaio di campagna, e il fratello Tobei, che sogna di diventare samurai, abbandonano le mogli in cerca di fortuna.Le loro ambizioni di guadagno e di gloria provocano lutti e rovine nelle loro famiglie. Liberamente tratto da due racconti fantastici di Akinaru Ueda _ L’albergo di Asaji e La lubricità del serpente nella raccolta Ugetsu Monogatari (1776) _ sceneggiati da Matsutarô Kawaguchi e Yoshikata Yodo. Fotografia di Kazuo Miyagawa. Tra gli 86 film di Mizoguchi _ 47 muti, quasi tutti perduti _ è unico sia per il peso che vi ha la dimensione fantastica nella storia di Genjuro sia per la rapida concisione con cui espone i destini mescolati o paralleli di quattro personaggi. Anche in quest’altra dolente elegia sulla condizione femminile il suo è un cinema di immaginazione simpatetica, non di identificazione. 1 dei 4 Leoni d’argento a Venezia 1953, quando non fu assegnato il Leone d’oro.
Un uomo si suicida lasciando una lettera, da non aprire entro una data prossima futura. Suo figlio Jonas si sveglia in preda agli incubi, senza sapere che la sua vita sta per precipitare in una spirale ancora peggiore di dolore e follia. Tornato a scuola dopo un periodo di depressione, trova la sua ragazza con il suo miglior amico, inoltre la cittadina è in ansia per la scomparsa di un altro giovane. Quando la sera con gli amici si reca in prossimità delle grotte accadrà qualcosa di ancora più terribile, il tutto all’ombra di una centrale nucleare che svetta minacciosa sulla foresta.
Dal racconto Rita Hayworth and the Shawshank Redemption di Stephen King (nel volume Stagioni diverse). 1946: direttore di banca, condannato per l’uccisione della moglie e del suo amante, è inviato al carcere di Shawshank. L’amicizia con un ergastolano nero e la competenza fiscale lo aiutano a sopravvivere. È il più intelligente e sottovalutato dramma carcerario in linea con la migliore tradizione hollywoodiana (claustrofobico, violento, garantista, liberale) con 2 novità: il tema della durata (il tempo che passa) e i connotati sociali del protagonista, vittima di un errore giudiziario. Le mozartiane Nozze di Figaro in una sequenza d’antologia di un film dove il rispetto delle convenzioni assume le cadenze serene e rasserenanti del cinema classico, impregnato di un generoso umanesimo. Esordio registico dello sceneggiatore F. Darabont.
Un testo teatrale al servizio dell’occhio esperto del regista russo Nikita Mikhalkov. Remake de La parola ai giurati – film che nel 1957 segnò l’esordio alla regia di Sidney Lumet – 12 ne è un riuscitissimo adattamento, grazie anche a una prova corale degli attori senza alcuna defezione. Ambientato totalmente all’interno di una palestra, dodici giurati si ritrovano a dover decidere all’unanimità della sorte – ormai segnata – di un giovane ceceno accusato di parricidio. Ma nel meccanismo qualcosa si inceppa, e la certezza della pena viene messa in dubbio da un giurato che, poco a poco, costringe ognuno a rivedere le proprie posizioni, rendendo la sentenza più difficile del previsto.
Dodici giurati devono giudicare un ragazzo accusato di parricidio. Uno solo di loro ha qualche dubbio sulla condanna dell’imputato e, con una finezza psicologica pari alla sagacia dialettica, riesce a convincere gli altri a votare per la non colpevolezza. Tratto da un teledramma (1954) di Reginald Rose (diretto da F. Schaffner), è il 1°, eccellente film di S. Lumet, fino a quel momento attivo in TV. Serrato, intelligente, acuto, senza cadute né passaggi artificiosi sebbene l’azione si svolga interamente a porte chiuse. Fu prodotto da H. Fonda e R. Rose con l’Orion e contribuì ad aprire le porte di Hollywood a una nuova generazione di sceneggiatori e registi televisivi. Rifatto per la TV nel 1997 da William Friedkin.
Harry Powell, pastore protestante, uccide alcune vedove per denaro. Uccide anche Willa Harper, ma i suoi due figlioletti gli danno filo da torcere. Riescono a fuggire da lui allontanandosi sul fiume con una barca. In loro soccorso giunge una cara vecchietta, Rachel, che dà rifugio ai bambini abbandonati. Grande fiaba orrorifica, più per atmosfera che per scene violente, resa convincente da una regia secca e originale. Harry come orco, Rachel come fata e i due fratelli come Hansel e Gretel. La fotografia in bianco e nero di Stanley Cortez è una festa per gli occhi. Le inquadrature grazie alle luci maniacalmente posizionate sono una rilettura dell’espressionismo. Stupenda la sequenza in cui il vecchio scopre il cadavere di Willa, interpretata volutamente sopra le righe da Shelley Winters. La donna è legata alla guida dell’auto sul fondo del fiume e i suoi capelli lunghi si confondono con le alghe. Prima e unica regia dell’attore Charles Laughton che, con grande misoginia, mostra quasi tutte le figure femminili come ingenue e stupide. Si salva solo Rachel, interpretata da una grande Lillian Gish. Atto d’accusa contro il fanatismo nella religione cristiana e i falsi profeti, con riferimento al sud degli Stati Uniti. Forse la più grande e sfaccettata interpretazione di Mitchum, che sette anni dopo, ne Il promontorio della paura, si calerà in un personaggio molto simile. Tratto dal romanzo di Davis Grubb e girato in poco più di un mese. Laughton, a causa dell’insuccesso commerciale, non poté realizzare la sua trasposizione de Il nudo e il morto di Mailer. Oggetto di culto di molti cinefili è citato apertamente da Neil Jordan nel suo In compagnia dei lupi
Fargo è una serie televisivastatunitense trasmessa dal 15 aprile 2014 dalla rete via cavoFX. La serie antologica, pensata per narrare una storia diversa in ogni stagione, trae ispirazione dal film del 1996 Fargo, dei fratelli Coen, i quali figurano tra i produttori esecutivi. Ai Premi Emmy 2014 la prima stagione è stata giudicata miglior miniserie televisiva; vincendo anche il premio alla miglior regia e al miglior casting per un film, miniserie o speciale drammatico; anche ai Golden Globe 2015 è stata premiata come miglior miniserie e Billy Bob Thornton è stato riconosciuto miglior attore protagonista in una miniserie o film per la televisione. La prima stagione di Fargo segue le vicende avvenute nel 2006 in Minnesota, tra le cittadine di Bemidji e Duluth. Le città del nord degli Stati Uniti sono segnate dall’arrivo del violento delinquente Lorne Malvo, il quale, durante un casuale incontro a Bemidji, trascina in un piano criminale un sempliciotto assicuratore senza successo, Lester Nygaard. A seguire le tracce delle loro malefatte è la giovane e intraprendente agente di polizia Molly Solverso
Un poliziotto messicano, Vargas, affianca un ispettore americano, Quinlan, nelle indagini sull’uccisione di un ricco proprietario terriero. Ben presto Vargas scopre che Quinlan ha un’idea tutta sua della giustizia e che non esita a falsificare le prove pur di far combaciare la realtà con le sue convinzioni. La verità alla fine trionfa, ma non senza difficoltà. Da un “giallo” di Whit Masterson. Questo titolo è diventato, nel tempo, un vero culto per gli appassionati. Pur non essendo considerato una delle opere fondamentali del regista, contiene alcune soluzioni di linguaggio richiamate anche nelle scuole di cinema. Molto citato è il piano sequenza di dodici minuti dell’inizio. E anche le acrobazie di Charlton Heston nel finale quando pedina Quinlan cercando di registrare la sua voce per incastrarlo. L’aneddotica racconta di Marlene Dietrich, che non era prevista nella sceneggiatura, in visita casuale sul set, inserita estemporaneamente nella parte della zingara. La produzione impose al regista alcune scelte non gradite. Welles disse: “mi hanno dato Heston, biondo di un metro e novanta, per fare un poliziotto messicano”. Nel 2001 il film è stato rimasterizzato e ricomposto nella colonna sonora. È stato distribuito nel grande circuito in edizione originale sottotitolato. Il pubblico, soprattutto giovane, ha risposto bene.
Aron Ralston, 26 anni, entusiasta dello sport e della libertà, si concede una giornata di biking e trekking nel Blue John Canyon dello Utah. Sole, musica, paesaggi mozzafiato e un fortuito incontro con due belle escursioniste che si prestano a tuffi e risate: cosa chiedere di più? Tornato solo, però, scendendo un crepaccio, Aron smuove inavvertitamente un masso vecchio di milioni di anni e si ritrova immobilizzato, con un braccio bloccato tra questo e la roccia, praticamente senza cibo né acqua. Da sempre Danny Boyle intende il cinema come uno sport estremo. Nel bene e nel male, piaccia o faccia storcere il naso, questo è il suo credo, la sua marcia. In passato, però, dopo l’incontro magico con l’immaginario di Irvine Welsh, si è spesso arrabattato per far coincidere il ritmo e il senso dei racconti con quello della sua visione e della sua macchina da presa, forzando la mano e scadendo volentieri nel virtuosismo gratuito e grezzotto. La vicenda reale di Aron Ralston ha offerto, invece, al regista inglese ciò che attendeva da tempo (o forse eravamo noi ad attenderlo più di lui), vale a dire pane per i suoi denti, cibo per la sua mente. Boyle ri-immagina, infatti, l’esperienza estrema di Ralston con i ralenti e le accelerazioni, le soggettive impossibili e i raddoppi di formato (la telecamerina, come in The Beach) che tanto gli piacciono, ma anche con un pudore e una pulizia che non eravamo pronti ad attribuirgli.
Come il protagonista sfida se stesso e le possibilità del proprio corpo, traendone godimento, è evidente che il regista risponde con sicuro piacere alla sfida di costruire un film d’azione con un attore che non può muoversi. Eppure non è né questo, né il facile rovesciamento tra il sovraffollamento umano ritratto nelle immagini d’apertura e il vuoto che imprigiona il ragazzo in seguito o tra il caldo delle immagini cinematografiche e il freddo del testamento affidato al video, ad incollarci al film. Piuttosto è l’idea espressa in una frase dettata dal delirio, e cioè che quella pietra aspettasse Aron da quando è nato e che tutta la sua vita non fosse stata che una preparazione a quel giorno, che racchiude un’idea di cinema forte ed emozionante e fa sì che i flashback e le allucinazioni abbiano un’anima e che l’agire del nostro pensiero e quello del cinema tornino qui ad incontrarsi senza forzature, in nome di una somiglianza naturale. Senza cadere nella recitazione del dolore, James Franco dà una bella prova del proprio talento, riuscendo col solo primo piano a costruire un personaggio pieno di contraddizioni, dalla straordinaria forza d’animo. Al termine di un’esperienza cinematografica come questa si perdona al regista anche un finalissimo inutile, fuori stile e fuori luogo.
Il film è basato sul bestseller internazionale di Jo Nesbø. Tyldum adatta il romanzo e come risultato ne viene fuori un thriller emozionante e intenso condito da tradimento, vendetta e l’ambizione sfrenata.
Il futuro secondo Winterbottom: si è autorizzati a procreare solo se i due partner hanno la giusta compatibilità genetica; si è autorizzati a passare le frontiere solo con il permesso giusto; si è autorizzati ad entrare nelle città solo se dotati di adeguata copertura assicurativa. Chi non è autorizzato, è fuera. Avevamo lasciato il cineasta inglese ad un bivio difficile: come andare avanti, nel suo percorso di ricerca di un realismo poetico, dopo Cose di questo mondo? Cosa c’è dopo un film che rappresenta un vertice stilistico che appare impossibile da superare o bissare? Cosa si racconta dopo aver narrato una vicenda di tragicità tanto insostenibile da ammettere il silenzio come unico commento possibile? Come uscirne? Chiudendo gli occhi e cominciando a sognare il mondo che verrà. A Winterbottom, sensibile verso il dramma dell’umanità come pochissimi altri, deve esserci voluto poco perché i sogni si trasformassero in incubi e generassero questo delicato affresco di un’apocalisse minore. Nessuna meteora dall’iperspazio, niente maremoti né bombe atomiche: quando non saremo più liberi di amare chi vogliamo e come vogliamo, sarà l’Inferno sulla Terra. E, anche peggio, saremo tanto malati da non rendercene conto. Tutto in Codice 46, dalla fotografia alla recitazione, dalle musiche alle scenografie naturali, è talmente superlativo da rendere sminuente qualsiasi commento. Solo un’imperfezione, forse: una voce fuori campo spiega cose che in certi momenti non sarebbe necessario spiegare. La stessa imperfezione che aveva Blade runner. Sarà un caso?
Harry Cain è un agente di sicurezza in un centro commerciale. Un giorno la sua vita è sconvolta dalla morte della moglie, uccisa da un killer sotto i suoi occhi. Harry, disperato, cerca di scoprire l’identità dell’uomo.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.