Settembre 1967, la compagnia Bravo 2 americana agisce in Vietnam vicino al confine con la Cambogia. Tra i soldati c’è anche il nuovo arrivato Chris Taylor, partito volontario “perché non trovavo giusto che a combattere fossero solo i poveri o gli uomini di colore”. Al suo fianco ci sono il brutale e cinico sergente Bob Barnes e il più comprensivo e umano sergente Elias Grodin, che combatte già da tre anni, in continua lite sul da farsi. Il soldato è così iniziato alle marce estenuanti nella giungla, alle trincee da scavare, alle notti di guardia, alle imboscate dei vietcong e alle droghe per sostenere le atrocità. Diventato amico di Grodin, vendicherà lui e le tante crudeltà inflitte dall’altro ufficiale agli abitanti dei villaggi.
Ho rivisto questo film dopo tanti anni e mi ha colpito come e più della prima volta. Capolavoro. Willem Dafoe in stato di grazia.
Uno studioso, che si trova nel deserto per le proprie ricerche, chiede ospitalità in un villaggio. Lo portano alla capanna di una donna che sta in una fossa di sabbia alla quale si accede mediante una scala di corda. La mattina seguente lo scienziato si accorge di essere prigioniero poiché la scala è stata levata.
Lucas ha un divorzio alle spalle e una nuova vita davanti che vorrebbe condividere con il figlio Marcus, il cane Funny e una nuova compagna. Mite e riservato, Lucas lavora in un asilo, dove è stimato dai colleghi e adorato dai bambini, soprattutto da Klara, figlia del suo migliore amico. Klara, bimba dalla fervida immaginazione, è affascinata da Lucas a cui regala un bacio e un cuore di chiodini. Rifiutato con dolcezza e determinazione, Lucas invita la bambina a farne dono a un compagno. Klara non gradisce e racconta alla preside di aver subito le attenzioni sessuali dell’insegnante. La bugia di Klara scatenerà la ‘caccia’ al mostro, investendo rovinosamente la vita e gli affetti di Lucas. Disperato ma deciso a reagire, Lucas affronterà a testa alta la comunità nell’attesa di provare la sua innocenza. La legge è chiara, un uomo non può essere considerato colpevole fino a quando sussiste solo l’ipotesi di reato. Diversamente, ai tribunali del popolo piace condannare, processare e cuocere sulla griglia mediatica il presunto colpevole.
Volendo ne ho anche una versione dvdrip dan subita, se a qualcuno interessa me la richieda nei commenti
I colori forti del profondo sud statunitense, fanno da contrasto alla disperazione di tutti i giorni, che vive sul paradosso di un sogno letterario. Eliot e Frost (fra gli altri) sono la fonte di ispirazione e il nutrimento spirituale per sopravvivere al giorno che passa, e una speranza futura per chi ha ancora un’esistenza da costruire. Nella New Orleans dei giorni nostri si consumano il dramma, la solitudine, le relazioni familiari di Bobby Long, alcolizzato ex professore universitario, Lawson, aspirante scrittore fallito, e Purslane, ragazza senza sogni, incontrata a causa della morte di Lorraine, madre odiata e donna che ha segnato indelebilmente la vita di Bobby. Il film di Gabel, vive nel contrasto e nella convivenza fra intellettualismo tinto di blues e speranze diluite dal tempo, e delinea i caratteri dei protagonisti, vera forza del lungometraggio, nelle loro contraddizioni ormai radicate. Nella seconda parte, A love song for Bobby Long, si perde nel voler dare troppe spiegazioni e giustificare banalmente la solidità dei rapporti in un non necessario lieto fine. Grande John Travolta nell’esecuzione della canzone del titolo.
1986, bimbo indiano di 5 anni si addormenta in una stazione e poi, cercando il fratello maggiore che sta lavorando, sale su un treno che percorre 1600 km prima di fermarsi a Calcutta. Il piccolo non sa dove viveva, non parla bengalese e non sa dare indicazioni sulla sua famiglia. Dopo vane ricerche, è adottato da una coppia australiana. 25 anni dopo, sulla base di vaghi ricordi, si mette in cerca della sua famiglia. Sembra incredibile, ma è una storia vera e Davis la racconta con emozione e senza facili stratagemmi strappalacrime, coinvolgendo lo spettatore, portandolo a riflettere sulle problematiche dell’adozione (e a conoscere meglio come funziona) e sull’incontro di 2 culture tanto diverse.
Nader e sua moglie Simin stanno per divorziare. Hanno ottenuto il permesso di espatrio per loro e la loro figlia undicenne ma Nader non vuole partire. Suo padre è affetto dal morbo di Alzheimer e lui ritiene di dover restare ad aiutarlo. La moglie, se vuole, può andarsene. Simin lascia la casa e va a vivere con i suoi genitori mentre la figlia resta col padre. È necessario assumere qualcuno che si occupi dell’uomo mentre Nader è al lavoro e l’incarico viene dato a una donna che ha una figlia di cinque anni e ed è incinta. La donna lavora all’insaputa del marito ma un giorno in cui si è assentata senza permesso lasciando l’anziano legato al letto, un alterco con Nader la fa cadere per le scale e perde il bambino. Asghar Faradhi conferma con questo film le doti di narratore già manifestate con About Elly. Non è facile fare cinema oggi in Iran soprattutto se ci si è espressi in favore di Yafar Panahi condannato per attività contrarie al regime. Ma Faradhi sa, come i veri autori, aggirare lo sguardo rapace della censura proponendoci una storia che innesca una serie di domande sotto l’apparente facciata di un conflitto familiare. Il regista non ci offre facili risposte (finale compreso) ma i problemi che pone sono di non poco conto per la società iraniana ma non solo. Certo c’è il quesito iniziale non di poco conto: per un minore è meglio cogliere l’opportunità dell’espatrio oppure restare in patria, soprattutto se femmina? Perchè le protagoniste positive finiscono con l’essere le due donne. Entrambe con i loro conflitti interiori, con il peso di una condizione femminile in una società maschilista e teocratica ma anche con il loro continuo far ricorso alla razionalità per far fronte alle difficoltà di ogni giorno. Agghiacciante nella sua apparente comicità agli occhi di un occidentale è la telefonata che la badante fa all’ufficio preposto ai comportamenti conformi alla religione per sapere se possa o meno cambiare i pantaloni del pigiama al vecchio ottantenne che si è orinato addosso. Sul fronte opposto della barricata finiscono per trovarsi gli uomini che, o sono obnubilati dalla malattia oppure finiscono con l’aggrapparsi a preconcetti che impediscono loro di percepire la realtà in modo lucido. Ciò che va oltre alla realtà iraniana è l’eterno conflitto sulla responsabilità individuale nei confronti di chi ci circonda. Ognuno dei personaggi vi viene messo di fronte e deve scegliere. Sotto lo sguardo protetto dalle lenti di una ragazzina. Una nota a margine: il cinema iraniano è veicolo stabile di una falsificazione narrativa che sta a priori di qualsiasi sceneggiatura. Sussistendo il divieto per le donne di mostrarsi a capo scoperto in pubblico i registi sono obbligati a farle recitare con chador o foulard vari anche quando le scene si svolgono all’interno delle mura domestiche narrativamente in assenza di sguardi estranei stravolgendo quindi la rappresentazione della realtà.
So che è facile sottovalutare questo film ma non lasciatevelo scappare.
Giovane violoncellista rimasto senza lavoro torna con la moglie nella città natia, nella casa della sua infanzia. Accetta un posto di cerimoniere funebre: lavare, vestire, truccare e sistemare i defunti nella bara. Inizi difficili, esperienze traumatiche, il disagio di non rivelare alla moglie il mestiere che fa per permetterle di continuare gli studi. Ma grazie al vecchio istruttore impara l’antica dignità del suo compito, una migliore conoscenza di sé stesso, l’occasione di rappacificarsi con il passato, il conforto ai parenti dei morti, la capacità di convivere con il dolore. Film dolente e intenso nella sua analisi, particolarmente significativo per gli spettatori che in Occidente vivono in una cultura incline all’inutile rimozione della morte, spesso incapaci di darle il rispetto e l’onore che merita. Ha il suo culmine emotivo nella morte del padre, che aveva abbandonato il protagonista bambino. La commozione è sempre controllata, sublimata negli intermezzi musicali al violoncello. Fotografia: Takeshi Hanada. Musiche: Joe Hisaishi. Oscar 2008 per il miglior film straniero.
A Manhattan (ricostruita in studio a Pinewood, GB) alla fine del ‘900, la quieta vita di una giovane e agiata coppia – un medico e una gallerista con una bambina – entra in crisi quando cominciano a incrociarsi desideri, fantasie sessuali, adulteri sognati o mancati. L’epilogo è pragmatico, non consolatorio. Pur nella sua sostanziale fedeltà, il 13° e ultimo film di Kubrick, sceneggiato con Frederic Raphael, reinventa il romanzo breve Traumnovelle ( Doppio sogno , 1926) di A. Schnitzler. Opera imperfetta, un po’ ripetitiva e incompiuta (nel montaggio) che a livello stilistico rifiuta ogni pathos, è leggibile in chiave ironica, psicanalitica, politica, persino filosofica come suggerisce il titolo: per vedere meglio – per accedere a un'”altra” visione – bisogna tenere gli occhi ben chiusi. Fondato sul numero 2 (la coppia, lo specchio, il doppio, ecc.), è un film che trasuda denaro nella sua impietosa descrizione dei rapporti di classe, di censo, di potere, soprattutto sui poveri e sulle donne e sui loro corpi. È forse il film più politico di Kubrick, sostenuto da quel moralismo laico, materialista, settecentesco che l’ha sempre guidato nell’esplorare territori di una frontiera “che separa, ma per ciò stesso, connette” (U. Curi). Qui la frontiera è tra realtà e sogno nel senso che la vita è strutturalmente anche sogno, non contenuto ma forma della Traumnovelle .
23 giugno 2018. Dodici ragazzi di una squadra di calcio restano intrappolati assieme al loro allenatore nella grotta thailandese di Tham Luang, che è stata allagata dall’arrivo dalle piogge monsoniche durante la loro visita. Per cercare di salvarli, vengono mobilitati i Navy Seals locali, oltre diecimila volontari provenienti da tutto il mondo e un team di esperti sommozzatori di cui fanno parte Richard Stanton e John Volanthen.
Cow-boy texano doc – cresciuto solo a bistecche, fucile e Bibbia da un padre diacono-insegnante in una Sunday School protestante – Chris Kyle è sconvolto dalle immagini TV degli attentati antiamericani di Al Qaeda, si arruola nei Navy Seals, si sposa e dal 2003 al 2009 combatte come cecchino ( sniper ) in Iraq, uccidendo 160 nemici (anche donne e bambini se armati) ufficialmente (di fatto molti di più), e diventando “The Legend” per i suoi commilitoni e “Il Satana di Ramadi” per i fondamentalisti islamici. Procrea 2 figli nei periodi di licenza trascorsi a casa, ma la guerra rimane il suo pensiero fisso. Congedato, si dedica al recupero dei reduci affetti da PTSD (post-traumatic stress disorder) e viene ucciso da uno di loro. Il suo funerale si trasforma in una manifestazione nazionale di patriottismo. Tratto acriticamente dall’omonima autobiografia best seller di Kyle, stesa insieme a 2 scrittori militaristi, spaccia per resoconto oggettivo un’autorappresentazione soggettiva della guerra irachena intrisa di retorica bellicistica e di manicheismo, in cui solo i nemici sono raffigurati come sadici assassini e dichiarati “bestie” e “selvaggi”, mentre i soldati americani si sacrificano per il bene dell’umanità. Che il protagonista sia in buona fede è un’aggravante che denuncia, peraltro involontariamente, il devastante vuoto culturale e intellettuale in cui alligna l’intervento militare americano in Medio Oriente, e ne spiega gli esiti funesti. L’85enne Eastwood, tradisce gli ideali umani e antibellicistici ma anche la grande vena artistica di Lettere da Iwo Jima , e gira, con bravura tecnica pur sempre eccezionale, un film di propaganda americana che politicamente sta all’operazione Iraqi Freedom come Berretti verdi (1968) di J. Wayne sta alla guerra del Vietnam. Oscar al montaggio.
Zev Guttman, ebreo affetto da demenza senile, è ricoverato in una clinica privata con Max, con cui ha condiviso un passato tragico e l’orrore di Auschwitz. Max, costretto sulla sedia a rotelle, chiede a Zev di vendicarli e di vendicare le rispettive famiglie cercando il loro aguzzino, arrivato settant’anni prima in America e riparato sotto falso nome. Confuso dalla senilità ma determinato dal dolore, Zev riemerge dallo smarrimento leggendo la lettera di Max, che pianifica il suo viaggio illustrandone i passaggi.
Torna l’Olocausto, e per mano di un “autore”. Pareva che Spielberg avesse detto l’ultima parola, invece ecco una storia sul ghetto di Varsavia. Siamo nel ’38.Comincia a stringersi la tenaglia nazista che produrrà le prime limitazioni per gli Ebrei: prima leggere -la stella di Davide cucita sul braccio- poi pesanti, poi intollerabili, poi mortali. Fino alla decimazione. Wladyslaw, giovane, talentoso pianista, sta suonando Chopin per una registrazione radiofonica proprio mentre arriva la notizia dell’invasione nazista della Polonia. Il giovane assiste all’orribile spirale: tutta la famiglia deportata e poi le condizioni del ghetto: bambini che muoiono di fame, gente uccisa per nulla, e una piccola parte di ebrei che tradiscono per sopravvivere. Alla fine Wladyslaw è di nuovo al piano, proprio come all’inizio. Ma naturalmente l’esperienza lo ha devastato. Niente, neppure Chopin sarà più come prima. Il film ha vinto la Palma d’oro al festival di Cannes 2002. Molti hanno disapprovato.
Gaetano, napoletano timido, arriva a Firenze con un candidato al suicidio, si fa sedurre da una disinibita infermiera, scappa, ritorna. Si ritrova con un figlio che potrebbe essere non suo. Raro esempio di un film che ha messo d’accordo critica e pubblico. Quello di Troisi è uno degli esordi più folgoranti nel campo della nuova commedia italiana degli anni ’80. Vicino, come attore, a Eduardo più che a Peppino De Filippo o a Totò, Troisi combina felicemente nel suo agro umorismo ironia e tenerezza, condendolo con una fantasia nevronapoletana e invenzioni seicentesche. Il Seicento è un secolo partenopeo.
Messico, 1970. Roma è un quartiere medioborghese di Mexico City che affronta una stagione di grande instabilità economico-politica. Cleo è la domestica tuttofare di una famiglia benestante che accudisce marito, moglie, nonna, quattro figli e un cane. Cleo è india, mentre la famiglia che l’ha ingaggiata è di discendenza spagnola e frequenta gringos altolocati. I compiti della giovane domestica non finiscono mai, e passano senza soluzione di continuità dal dare il bacio della buonanotte ai bambini al ripulire la cacca del cane dal cortiletto di ingresso della casa: quello in cui il macchinone comprato dal capofamiglia entra a stento, pestando i suddetti escrementi. Perché nel Messico dei primi anni Settanta tutto coesiste: la nuova ricchezza come la merda degli animali da cortile, il benessere ostentato dei padroni e la schiavitù “di nascita” dei nullatenenti. Tutto convive in un sistema contradditorio ma simbiotico in cui le tensioni sociali non tarderanno a farsi sentire, catapultando il recupero delle terre espropriate in cima all’agenda dei politici in cerca di consensi.
Nonomiya Ryota è un professionista di successo, un uomo che lavora sodo ed è abituato a vincere. Un giorno, lui e la moglie Midori ricevono una chiamata dall’ospedale di provincia dove sei anni prima è nato loro figlio, Keita, e vengono a sapere che sono stati vittima di uno scambio di neonati. Il piccolo Keita è in realtà il figlio biologico di un’altra coppia, che sta crescendo il loro vero figlio, insieme a due fratellini, in condizioni sociali più disagiate e con uno stile di vita molto differente. Ryota si trova di fronte alla necessità di una decisione terribile: scegliere il figlio naturale o il bambino che ha cresciuto e amato per sei anni?
Il titolo internazionale è “Like Father, like Son”
Mildred Hayes non si dà pace. Madre di Angela, una ragazzina violentata e uccisa nella provincia profonda del Missouri, Mildred ha deciso di sollecitare la polizia locale a indagare sul delitto e a consegnarle il colpevole. Dando fondo ai risparmi, commissiona tre manifesti con tre messaggi precisi diretti a Bill Willoughby, sceriffo di Ebbing. Affissi in bella mostra alle porte del paese, provocheranno reazioni disparate e disperate, ‘riaprendo’ il caso e rivelando il meglio e il peggio della comunità. La speculazione sale e progredisce, affondata nel Missouri, situato al centro degli States e rivelatore della crisi che scuote il Paese. Nello stato che non ha mai completato il percorso dallo schiavismo e genocidio delle origini al garantismo costituzionale e all’ideale pluralista multiculturale, l’autore svolge la storia di una madre che vuole giustizia. La pretende da poliziotti distratti, affaccendati a escludere gli omosessuali dalla protezione del “Civil Rights Act”, approvato nel 1965, o a “torturare persone di colore”, la sceneggiatura di McDonagh sottolinea lo slittamento semantico per bocca dell’agente di Sam Rockwell. Richiamati al loro dovere dai manifesti del titolo e dall’inconsolabile dolore di una madre, i cops adottano misure repressive, criminalizzando chi vuole soltanto giustizia. Ma è a questo punto della vicenda che il drammaturgo irlandese, cresciuto a Londra ma all’ombra di Samuel Beckett, scarta e rilancia realizzando il desiderio di Marty (7 psicopatici), lo sceneggiatore alcolizzato di Colin Farrell che provava a fuggire l’apologia della brutalità, la mitologia del crimine caustico, la verbosità prolissa e i motherfucker interposti. Lo scarto è incarnato dallo sceriffo di Woody Harrelson, magnificamente contre-emploi. Attore nato per uccidere, che misura sovente la propria performance in situazioni estreme, Harrelson è il cuore morbido di questa ‘commedia profonda’ che cerca e trova l’anima dell’America sotto l’intolleranza acuta e la mentalità settaria. È il suo gesto, ‘inoltrato’ con tre lettere, a impegnare gli altri personaggi.
Nell’attesa di trovare un lavoro che gli dia la possibilità di emergere, Lou si guadagna da vivere rubando. Quando vede dei reporter free-lance in azione sul luogo di un incidente decide di intraprendere quella carriera e iniziare così la sua scalata verso il successo al soldo di una produttrice che intuisce il suo potenziale e gli chiede sempre di più. Se fatti cruenti e sanguinosi non accadono, basta farli accadere. Ottimo esordio per Gilroy, che sceglie di mostrarci il lato più cinico e meschino del mito americano in chiave moderna, ponendo al centro della vicenda un ragazzo venuto dal nulla (strepitoso Gyllenhaal), con un passato di disprezzi e umiliazioni, che si accultura su internet e impara tutto e in fretta. Non c’è analisi del passato, delle cause, Lou sembra essere semplicemente figlio della società odierna: ingannevole, amorale, cinica. Eccellente fotografia di Robert Elswit. Ottima anche la colonna sonora di James Newton Howard.
C’era stato un tempo in cui il western era uno dei generi più popolari di Hollywood. Che si trattasse di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco o Burt Lancaster e Kirk Douglas in Sfida all’OK Corral o Clint Eastwood nella trilogia di Sergio Leone, il vecchio West era un modo sicuro per stare in testa al box office fino agli anni ’70 quando scomparve repentinamente quasi del tutto. Ma Kevin Costner nel 1990 riaprì al meglio la stagione del western e nel giro di tre anni ben due film del genere (per l’appunto Balla coi lupi e “Gli spietati”) riuscirono ad aggiudicarsi l’ambita statuetta di miglior film agli Oscar. E per la prima volta Hollywood “premiò gli Indiani” (e lo fece nella persona di Costner, un diretto discendente della tribù Cherokee) anche se non era certo il primo western della parte dei nativi americani. La pellicola si guadagna un indiscusso posto d’onore nella storia del cinema, non sfigurando di fronte ad un inevitabile confronto con i maestri di sempre. Ed è certo il solo film di questi ultimi vent’anni ad affrontare il mito del West, oggetto di tanto revisionismo annunciato, con una passione e un realismo che vanno in direzione della leggenda anziché della demistificazione. Diretto e coprodotto oltre che interpretato dallo stesso Kevin Costner è un debutto impressionante. Ne sono state più volte sottolineate le debolezze che sfiorano il manicheismo e il culto dello spettacolo, non considerando invece come riesca a coniugare i canoni propri del genere a vantaggio di una narrazione epica che conferisce un raro stato di grazia e di sentito a questo racconto elegiaco interessato più che alla fedeltà storica a una verità morale e antropologica. Ma gli intenti di Costner non rifuggono spesso dall’utopia. Balla coi lupi ha la forza e i difetti della sua semplicità e della sua programmatica generosità, conservando una qualità indiscutibilmente emozionante: quella di contribuire a trasmettere l’invito a conoscere l’altro prima di decidere di combatterlo o sterminarlo.
Il nipote del famigerato barone Frankenstein, neurochirurgo americano, va in Transilvania e decide di ripetere l’esperimento dell’avo. Crea un mostro di incommensurabile bontà. Più che una parodia è una reinvenzione critica della nota storia (1818) di Mary Shelley, carica di comicità che diventa qua e là poesia. Un bianconero di alta suggestione. Attori bravissimi. Scritto dal regista con Wilder.
La timida seconda moglie di Maxim de Winter, facoltoso gentiluomo della Cornovaglia, è ossessionata nella dimora di Manderley dall’immagine della prima moglie defunta. Dal romanzo (1938) di Daphne du Maurier. Dopo Intrigo internazionale il più lungo film di Hitchcock – qui al suo esordio a Hollywood – che gli valse 8 nomination e 2 premi Oscar (miglior film, fotografia di G. Barnes). Soprattutto nella 1ª parte una romantica, angosciosa, disperata mystery story. Nel racconto gotico è una vetta.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.