Victor e Betty girano la Francia in camper truffando i casinò. Vivono nel lusso e si divertono. Rubare è davvero una grande gioia. Un “divertimento” del grande autore francese, intelligente e sottile come sempre. Premiato al festival di San Sebastiano.
Sconvolta dalla morte accidentale di una giovane ammiratrice (Johnson), l’attrice Myrtle Gordon (Rowlands) continua a vederla in allucinazioni angoscianti ed è sull’orlo di un esaurimento nervoso. Sta collaudando una nuova commedia _ The Second Woman, scritta da un’anziana commediografa (Blondell) _ di cui non è soddisfatta perché troppo seriosa. Con l’aiuto del primo attore (Cassavetes), già suo amante, risolverà la situazione con l’ironia. Al suo 9° film Cassavetes elabora il suo paradosso sull’attore, mettendo in scena il Teatro come istituzione ufficiale al pari della Famiglia, centro dei suoi interessi di autore. La tesi, fin troppo esplicita, è che si recita nella vita quotidiana, mentre il teatro diventa il momento liberatorio della verità cui si arriva se si ha una conoscenza diretta della realtà e la si accetta in modo attivo. Disposto su 3 livelli che s’intersecano (vita, teatro, fantasia o allucinazioni), dà l’impressione, nella 2ª parte, di una certa prolissa verbosità. In questo film d’attori recitano tutti bene con l’eccezione di G. Rowlands che recita benissimo.
Cittadina della Francia Centrale. Pierre Maury ha una moglie costantemente ammalata ed ha intrecciato una relazione con Lucienne, moglie del sindaco Paul Delamare il quale chiede a lui, uomo di sinistra, di appoggiarlo nel corso delle imminenti elezioni. Mentre gli incontri tra i due amanti si intensificano, la moglie di Pierre muore. Morte naturale? È ciò che si vuole far credere. Intanto Hélène, figlia di primo letto di Lucienne, comincia ad insospettirsi per lo strano comportamento della madre. Vincitore del premio della critica al festival di Berlino questo film di Claude Chabrol può essere considerato un modello del suo modo di fare cinema. Il richiamo ad Eschilo con una citazione dalle “Eumenidi” (Oreste: “O Dea, a te decidere se io sono innocente o colpevole. Quale che sia il tuo verdetto io lo accetterò”. Minerva: “È difficile poter giudicare, quale mortale sarebbe in grado di farlo?”) sembra voler collocare la vicenda in un contesto tragico classico. Di fatto però ci ricorda che da sempre la rappresentazione delle vicende umane (a partire dal teatro) ha trasfigurato uomini e donne reali che qui verranno mostrati nella loro quotidianità e nelle loro meschinità. Perché di colpe ce ne sono in questa provincia francese. Sono quelle più eclatanti che si riassumono nell’omicidio ma anche quelle di una borghesia chiusa in se stessa e volgarmente attaccata ai propri piccoli intrallazzi. Non ci sono eroi (neanche tragici) in questa storia di tradimenti nei confronti dei coniugi ma anche nei confronti della collettività (vedi il comportamento di Delamare). Semmai c’è la speranza in una nuova generazione (rappresentata da Hélène) che non ha alcun timore reverenziale e che, soprattutto, vuole vederci chiaro. Anche a costo di far saltare tutti gli equilibri.
Per questo dramma Chabrol si è ispirato a un racconto del romanziere Georges Simenon. È un ritorno del regista alla qualità dei suoi migliori film. Betty ha avuto esperienze negative con gli uomini che l’hanno portata all’alcol e a una visione pessimistica della vita. Tutto ciò viene narrato dopo che la poverina è tratta in salvo, dallo squallore di un ennesimo bar in quel di Versailles, da una ricca signora che la conduce in un grande albergo.
Una ragazza da un giorno all’altro si trova senza lavoro e ha un’idea: affittare un gigantesco spazio pubblicitario e scriverci il suo nome. Scritta da Ruth Gordon e Garson Kanin, è una commedia che con artigli vellutati graffia amabilmente usi e costumi della società americana, ma che mantiene soltanto in parte il brio satirico della 1ª mezz’ora. J. Holliday è bravissima. 1° film di J. Lemmon (1925-2001)
Victor e Betty girano la Francia in camper truffando i casinò. Vivono nel lusso e si divertono. Rubare è davvero una grande gioia. Un “divertimento” del grande autore francese, intelligente e sottile come sempre. Premiato al festival di San Sebastiano.
Uno dei più celebri film del terrore dell’intera storia del cinema, scoperto in Italia solo recentemente. Un architetto arriva in una misteriosa villa dove altri personaggi raccontano fatti paranormali che diventano altrettanti episodi. In Il conducente del carro funebre un uomo, grazie a un sogno premonitore, sopravvive a morte sicura. Alla ragazza di Il ricevimento natalizio appare in soffitta lo spettro di un bambino. Lo specchio incantato tratta di un acquisto che si rivela nefasto in quanto riflette una realtà parallela molto pericolosa. In Una storia di golf un suicida torna per fare dispetti a un suo amico, colpevole indirettamente della sua morte. Alberto Cavalcanti, oltre a supervisionare la pellicola, dirige due episodi e si distingue con l’ultimo piccolo capolavoro, Il pupazzo del ventriloquo. Interpretato da Michael Redgrave, tratta di un ventriloquo che ha un rapporto talmente stretto col proprio pupazzo da diventare pazzo e uccidere un uomo. L’influenza di questa pellicola sul cinema gotico posteriore è innegabile e ancora oggi mantiene un fascino inquietante.
Un film di Charles Chaplin. Con Charles Chaplin, Virginia Cherril, Harry Myers, Florence Lee, Al Ernest Garcia, Hank Mann Titolo originale City Lights. Commedia, b/n durata 86 min. – USA 1931. MYMONETRO Luci della città valutazione media: 4,88 su 29 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Uno dei capolavori immortali del grande Charlie Chaplin, che girò ben centomila metri di pellicola nell’arco di tre anni, ripetendo all’infinito intere sequenze e scegliendo di lasciare il film muto (con accompagnamento musicale) proprio nel periodo in cui si cominciava ad affermare il sonoro. Charlot, povero vagabondo dall’animo sensibile e pieno di generose aspirazioni, acquista una rosa da una giovane fioraia cieca che per un equivoco lo scambia per un milionario. Vagabondando per la città, Charlot arriva sul molo dove salva dal suicidio un vero milionario, in vena di generosità solo quando è ubriaco. Deciso ad aiutare la fioraia di cui si è innamorato, bisognosa di una costosa operazione chirurgica che le potrebbe restituire la vista, Charlot fa mille mestieri tra i quali lo spazzino e il pugile, prima di reincontrare il milionario da cui riceve finalmente il denaro sufficiente per l’operazione… ma il finale ha un sapore malinconico. Charlot infatti è finito per un equivoco in prigione e dopo un anno ritrova la ragazza guarita e ora proprietaria di un negozio di fiori, che lo riconosce solo nel momento in cui gli prende la mano per fargli l’elemosina. Il film, con il suo magistrale intreccio tipicamente chapliniano di tragico e comico, ebbe un enorme successo tra un pubblico già minacciato dalla recessione economica sia in Europa che in America.
L’approvazione della legge antirazziale negli Stati Uniti inasprisce così il fanatismo di un tale che convince una ragazza ad accusare un nero di averla assalita.
La storia di Marie Latour che nel 1943 venne condannata a morte e ghigliottinata. Marie procurava aborti (la chiamarono la “fabbricante di angeli”). Perché lo faceva? Per mantenere agiata la famiglia (il marito era tornato dalla guerra invalido). Uno Chabrol d’annata con la Isabelle Huppert più brava che si sia mai vista, in una parte che trent’anni fa sarebbe andata a Jeanne Moreau
Avvenne vicino a Sebastopoli il 24 ottobre 1854: un reggimento di ussari inglesi fu massacrato “per il re e per la patria”. La guerra di Crimea e il massacro di Balaklava mistificati in chiave eroica, sulla scorta di un famoso poema di Alfred Tennyson, per la maggior gloria di E. Flynn superstar. Sceneggiatura di M. Jacoby, R. Leigh. Prodotto da Warner Bros. Sono passati più di 60 anni, eppure la carica è ancora molto eccitante. Episodio rievocato da Tony Richardson in I seicento di Balaklava (1968) in tono critico.
Un film di Chan-wook Park. Con Song Kang-ho, Lee Bzung Heon, Lee Yeong-ae Titolo originale Gong Dong Kyung Bi Gu Yuk Jsa. Storico, durata 110 min. – Corea del sud 2000. MYMONETRO Joint Security Area valutazione media: 2,50 su 2 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il Nord e il Sud della Corea si incontrano lungo una striscia di terra che è denominata Joint Security Area. Un confine che, a dispetto del nome beffardo, non è affatto un simbolo di unione, ma un baratro a due sponde, su ognuna delle quali una Corea contempla e aspetta di veder sprofondare l’altra. C’è una riga di cemento a dividere gli avamposti dei due schieramenti dove le guardie trascorrono anni a fissarsi, senza mai interagire in alcun modo se non premendo il grilletto quando cede la tensione. È proprio uno di questi episodi che deve indagare il maggiore donna Sophie E. Jean: un soldato del Sud si è introdotto in una baracca della zona Nord e ha ucciso un ufficiale e un soldato nemici. Un folle commando “a solo”, sembrerebbe, ma la realtà nasconde un segreto insospettabile. JSA segna alla sua uscita (2000) il record di spesa per un film coreano, ma ripaga rapidamente tale sforzo divenendo il campione d’incassi di sempre del paese asiatico, e imponendosi come il film della svolta nell’industria cinematografica della Corea del Sud. Il segreto di questo successo è frutto della convergenza virtuosa di diversi fattori: un cast di stelle tutte in stato di grazia; una cura inedita per le ambientazioni e la scenografia; una regia consapevole e finalmente capace di osare. Ma soprattutto è la vicenda narrata a conferire a JSA la statura di un vero e proprio classico. Park Chan-wook, autore e regista, scandaglia la tensione tra Nord e Sud nel profondo, oltre la politica, oltre la storia, oltre il macroscopico conflitto, fino al punto in cui l’odio preconfezionato tra due parti di uno stesso popolo è ancora a portata di sputo, e di sorriso. Un solco divide gli uomini sia l’uno dall’altro che all’interno di ognuno di essi, dove il nazionalismo esasperato stride, con violenza, contro un riconoscimento reciproco fatto di usanze in comune, di una stessa lingua, di una fratellanza negata. Con JSA Park Chan-wook rappresenta il clichè della guerra insensata e rapidamente lo scardina, scattando una fotografia che ha l’aria di un souvenir da gita militare ma che a guardarla meglio nasconde vicende di drammatica umanità.
I subita nella versione 1080p sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
India Stoker è una ragazza sensibile e introversa, che vive con la famiglia in una bella villa isolata nella campagna americana. Il giorno del suo diciottesimo compleanno, l’amato padre muore in un incidente e, a casa Stoker, si presenta lo zio Charlie, fratello più giovane del padre, della cui esistenza India è sempre stata tenuta misteriosamente all’oscuro. Il sudcoreano Park Chan Wook debutta in lingua inglese con un cast e un copione che sembrano di sua diretta emanazione, tanto rispondono alle caratteristiche di eleganza, claustrofobia sociale e confidenza con l’inquietudine che fanno da sempre il suo cinema. Come già in Thirst non c’è scandalo alcuno nel vampirismo secondo Park. Il morso è quello del desiderio, al quale i personaggi del film non possono resistere, anche se ognuno di loro imparerà a suo modo a gestirlo. E non c’è sangue, in scena: l’arma rappresentata dalla cintura ha, anzi, la funzione del laccio emostatico, che trattiene, rigonfia, prepara. Sostituiscono il liquido rosso: il vino, di cui lo zio Charles è intenditore, e l’inchiostro nero delle lettere da lui vergate, che si porta appresso la reminiscenza del romanzo epistolare che rese (Bram) Stoker immortale (e in questo capitolo, leggerissimo, appena accennato, possiamo annoverare anche il ragno che si arrampica sulle gambe di India, possibile trasformazione zoomorfa del nuovo inquilino). La prima metà del film contiene le soluzioni visive più interessanti e la sensazione che tutto possa accadere; probabilmente la sensazione più importante, e oggi più rara, che lo spettacolo cinematografico possa riservare. La rivelazione della natura eccezionale della protagonista apre il film, ma impiegherà poco meno della sua intera durata per esplicitarsi. Siamo, infatti, anagraficamente e metaforicamente – come sempre in questi casi- sulla soglia della maturazione, della fuoriuscita dalla bambagia dell’infanzia e della scoperta di sé, innescata dal primo turbamento sessuale. Ma Park, appunto, non racconta la deflagrazione, preferendo concentrarsi sul momento preparatorio, sull’accumulo della tensione e della domanda. In questo senso, il triangolo domestico tra il pericoloso zio Charlie, la silenziosa ragazzina sul punto della ribellione e la patetica vedova di plastica incarnata da Nicole Kidman è carico di efficaci echi hitchcockiani e nabokoviani e dà luogo ai momenti più espressionisti e riusciti del film. Parabola della liberazione dalla morsa ereditaria, attraverso il suo superamento e parziale inglobamento, Stoker , giunto a maturazione, anziché chiudersi su se stesso si apre alla vita, in un finale diurno, splendidamente fotografato.
Young Goon è un cyborg, Il-Soon un ladruncolo che fa proprie le caratteristiche dei volti altrui. O almeno, così credono. Entrambi vivono in un ospedale psichiatrico dalle pareti verdi (e imbottite), trascorrendo le giornate insieme ad altri particolarissimi pazienti: una donna decisamente sovrappeso che divora tutto il cibo che le capiti a tiro, un ragazzo che ritrova la sua dimensione camminando all’indietro, “malati” che – ciascuno a suo modo – creano a loro immagine e somiglianza, qualcosa di congeniale per passare il tempo. L’universo di Park Chan Wook, dopo la consacrazione a icona mondiale del cinema (grazie alla trilogia della vendetta e all’apprezzatissimo Old Boy) torna, per sua stessa ammissione, “ad assomigliare a un giardino di infanzia, dove le ossessioni dei bambini possono, talvolta, non coincidere con la visione del mondo pretesa dagli adulti”. Proprio in questa metafora si gioca la boutade di I’m a Cyborg, But That’s Ok, nel tentativo di ritrovare un gioco spassoso con cui catturare lo spettatore, lasciando il sospetto, però, di non riuscire appieno nell’intento.
Da Parigi, François torna nel villaggio della sua infanzia per curare i postumi della tubercolosi. Appena arrivato, incontra un vecchio amico diventato panettiere e intravede Serge, minato dall’alcolismo forse per via dell’infelice matrimonio con Yvonne, che gli ha dato un figlio nato morto, ed è di nuovo incinta. Mentre stringe una relazione con la diciassettenne Marie, François cercherà di prendersi cura di Serge, mettendolo davanti alle sue responsabilità. Considerato il primo film della Nouvelle Vague, La beau Serge coniuga una sceneggiatura improntata al dramma sociale con i ricordi personali di Claude Chabrol che, dopo la militanza critica nei Cahiers du cinéma, poté esordire grazie ad un’eredità inaspettata avuta dalla moglie. È lo stesso regista a tornare, così come vediamo fare al protagonista, nel paese di Sardent (Creuse) in cui aveva trascorso l’infanzia durante i quattro anni dell’Occupazione, imparando a conoscere una realtà fatta di giovani amori e alcolismo sociale. L’attaccamento squisitamente affettivo, eppure svegliato dalla distanza critica di chi ha conosciuto anche la vita in città, è uno dei motivi di maggior interesse di un lavoro capace di dare veridicità ai luoghi mostrati, licenziando una topografia filmica del tutto affidabile in cui lo spettatore è, da subito, immerso. Nulla sembra essere cambiato nel villaggio, non il dottore incapace, non l’affittacamere impicciona, non i giochi in piazza dei bambini, eppure la mancanza di realizzazione ha segnato la vita dell’amico Serge, uno che “soffre più di tutti gli altri”, e una diffusa assenza di speranza non porta più fedeli a partecipare alle messe di un sacerdote comprensivo e disilluso: François, interno ed esterno al luogo, tenta nel miglior modo di rendersi utile, di attivarsi in favore del bene anche a rischio di minare la propria integrità emotiva e fisica, si pensi soltanto a quella sequenza finale che riecheggia Bresson. Vagamente ispirato all’amico Paul Gégauff, il personaggio di Serge rappresenta per Chabrol il simbolo del tempo perduto, in un’impressionante continuità tra diario personale e riscrittura drammatica che è cuore pulsante di un’opera imperfetta, ma sempre coinvolgente, illuminata da momenti magici, la nevicata, e argute notazioni antropologiche, la festa da ballo. Con un budget iniziale irrisorio, poi rimpolpato da un salvifico premio di qualità, La beau Serge venne presentato al Festival di Cannes fuori concorso, riscuotendo consenso di pubblico anche nella successiva distribuzione in sala: il successo inaspettato, spinse Chabrol a lanciarsi in fretta nella produzione di I cugini con la stessa troupe. Interpreti di entrambe le pellicole, Jean-Claude Brialy e Gérard Blain diventano, in breve, il volto del nuovo movimento, prima di Jean-Pierre Léaud e Jean-Paul Belmondo. Un esordio dolente e sincero.
Chabrol torna ad affondare il bisturi nella provincia francese. Questa volta però l’indagine è all’interno della psicologia maschile. Paul ha sposato una bella donna e insieme conducono un albergo. La gelosia prende a farsi spazio nella sua mente. Tutti sono possibili rivali e la moglie è una impudente fedifraga. Sarà davvero così? Chabrol non ci fornisce una risposta chiara, appagato dalla proposta dei film immaginari che l’uomo costruisce nella propria mente, montando e rimontando le sequenze dei (presunti) tradimenti.
Nell’anno col più alto tasso di crimini della storia di New York, Abel Morales, immigrato diventato onestamente imprenditore di successo nel commercio del petrolio, rischia di perdere tutto: proprio quando acquista un nuovo impianto di distribuzione, versando un ingente acconto e impegnandosi al saldo entro un mese, le sue autocisterne vengono assalite e svuotate da ignoti malviventi. Un procuratore lo rinvia a giudizio per irregolarità contabili. La banca che lo aveva sempre finanziato gli chiude la linea di credito. Il 3° LM di Chandor, anche sceneggiatore, è un crime drama sociale imperniato su un dilemma morale: rimanere onesti o accettare il malaffare? Non è tutto oro (nero) quel che luccica. Dimentichiamo l’imprenditore calvinista di Max Weber per il quale “honesty is the best policy”. Per Chandor l’onestà non è ormai che un espediente concorrenziale. Ben intonata la fotografia caravaggesca di Bradford Young.
Un bambino muore dopo essere stato investito da un pirata della strada: il padre, da quel momento, vive solo per rintracciare il colpevole. Ci riesce e scopre di avere dei potenziali ottimi complici. Il colpevole muore, infatti, avvelenato, ma nessuno saprà mai chi veramente ha messo il veleno nel bicchiere.
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