Nei futuristici laboratori della “Canadian Academy for Erotic Inquiry” un gruppo di volontari, tra loro sconosciuti, si sottopone ad un esperimento di induzione biochimica cerebrale teso a sviluppare le potenzialità telepatiche del cervello, rendendo superfluo l’uso della parola. Coordinato dal dottor Luther Stringfellow (che, peraltro, è assente durante il test) e monitorato dai computer, il progetto mira a liberare la psiche umana dalle pastoie inibitrici del comportamento quotidiano, aprendo prospettive infinite all’espressione, alla percezione e alla creatività. Gli individui prescelti, sotto l’effetto di droghe e afrodisiaci, esaltano i propri impulsi sessuali, ma scoprono, al tempo stesso, la capacità di nascondersi l’un l’altro proiettando un ego fittizio. L’esperienza è traumatizzante, rischia di condurre alla schizofrenia e non consente ritorno: due uomini, incapaci di eliminare il bisogno della dipendenza psichica, si suicidano. Dopo aver firmato due cortometraggi (Transfer e From the Drain) Cronenberg realizza un soggetto più articolato con la collaborazione degli amici di università che si prestano ad interpretarlo. Il regista si autofinanzia e riesce a presentare il film in alcuni festival d’avanguardia fino a richiamare l’attenzione della International Film Archive di New York. La pellicola, girata in 35 mm, è tutta risolta in immagini: l’unica voce è quella del narratore che introduce la storia e commenta, con un bizzarro liguaggio scientifico (il titolo stesso allude ad una forma di comunicazione multidirezionale) le fasi dell’esperimento. Anche se il racconto è permeato di un morboso gusto per l’orrore e di istanze intellettualistiche, gli angosciosi temi cronenberghiani del dualismo intelletto/materia cominciano già a delinearsi con rigorosa coerenza.
Una Plymouth Fury rossa del ’58 ha un potere malefico e demoniaco. Vent’anni dopo un adolescente timido la rimette in sesto e stabilisce con essa un rapporto di gelosia morbosa, seminato di molte morti violente. Da un romanzo di Stephen King. Il mostro è un’auto di serie, macchina orrorifica ingegnosa, ma non ha abbastanza carburante per tutto il percorso.
Un padre di famiglia, in provincia, allaccia una relazione con una bella attrice, umiliando senza remore di sorta la moglie e la figlia. Il figlio maschio, attaccato morbosamente alla madre, per vendicarla, uccide l’attrice. Poi cerca di convogliare i sospetti sul fidanzato della sorella. Ma gli va male.
Dal dramma di Francis de Croisset, già filmato nel 1938 in Svezia da Gustaf Molander con la giovanissima Ingrid Bergman (Senza volto). Col viso deturpato da una cicatrice procuratale quand’era bambina dal padre ubriaco, una ragazza brucia i suoi giorni dedicandosi al male finché un’operazione di chirurgia plastica la riappacifica con la vita.
L’avvertimento iniziale che nega qualsiasi riferimento a personaggi reali è, insieme, vero e ironico. Tutto è inventato nel film, scritto da Odile Barski con il vecchio C. Chabrol che continua a credere nei rapporti e nella lotta di classe, ma anche ispirato allo scandalo politico dell’affare Elf che scosse la Francia alla fine degli anni ’80: quello dei dirigenti di un potente gruppo finanziario che – con corruzioni, accordi segreti e compromessi politici – si arricchirono impuniti finché non si intromise Eva Joly, giudice istruttore. Impregnato di un’analisi comportamentale più che psicologica, ha diversi motivi di interesse: l’interpretazione di I. Huppert (ben doppiata da Angiola Baggi), al suo 7° film di Chabrol, ammirevole nel suggerire la mescolanza di forza combattiva e di intima fragilità di Jeanne Charmant-Killman (un nome pesantemente allusivo); l’ambiguità dei suoi rapporti con il nipote Fèlix (T. Chabrol), con il politico Sibaud (P. Bruel) e con il marito (R. Renucci); l’esercizio hitchcockiano della realtà nascosta dalle apparenze; l’evoluzione di Jeanne verso la pietà mentre si avvia alla sconfitta finale. L’ebbrezza del titolo originale riguarda anche lei che persegue un ideale di giustizia, ubriaca di potere e ancora ignara che esistono poteri più forti del suo. La sua battuta conclusiva – “Qu’ils se démerdent!” (“Che se la sbroglino!”) – è quella dello scettico Chabrol.
A Sagliena, paesino dell’Italia centrale, il nuovo maresciallo dei CC mette gli occhi su Maria – orfana e povera, detta la Bersagliera, innamorata di un carabiniere veneto – e fa la corte alla levatrice Anna. Campione d’incassi della stagione 1953-54, Orso d’argento a Berlino 1954, rilanciò De Sica caratterista, sanzionò la Lollobrigida, che ebbe il Nastro d’argento; fu il 1° successo di Comencini. È, insieme, il trionfo dell’Arcadia e della commedia dell’arte con le sue maschere, la versione spuria e furba di Due soldi di speranza (1951) di Castellani con cui ha in comune lo sceneggiatore Ettore M. Margadonna.
Per sposare la levatrice, che è una ragazza madre, maresciallo deve dare le dimissioni. Si rifà vivo, però, il seduttore. Intanto la Bersagliera ha un amore contrastato con carabiniere. Seguito, altrettanto fortunato per successo di pubblico, della commedia strapaesana, con risvolti di amarezza e satira sociale, inventata da Margadonna che qui ha l’aiuto di Eduardo De Filippo. 2° campione d’incasso della stagione dopo Ulisse di Camerini.
Protagonista è una famiglia americana composta da Nick, capocantiere, sua moglie Mabel e tre bambini. La donna ha un esaurimento nervoso. Ricoverata in una clinica neuropsichiatrica, ne esce dopo sei mesi. L’impatto con la vita “fuori” è molto forte e Mabel non ce la farebbe se non fosse per i tre bambini, che la sostengono e la proteggono col loro affetto.
Reduce da un ospedale psichiatrico, un uomo tenta di ricostruire la propria esistenza accanto alla figlia e alla moglie. Quest’ultima però non intende aiutarlo in alcun modo, mentre la figlia dedica tutta se stessa al reinserimento del padre nella vita normale.
Ispirato al romanzo del 1977 “La morte non sa leggere” di Ruth Rendell (già adattato per il grande schermo dal regista Ousama Rawi nel 1986). La premessa narrativa è irrilevante. Sophie (Sandrine Bonnaire) viene assunta dalla benestante famiglia Lelièvre a lavorare come collaboratrice domestica presso la loro residenza. La ragazza è dislessica e nasconde ossessivamente il suo handicap: non sa leggere. Stringerà presto amicizia con una postina (Isabelle Huppert) odiata dalla famiglia Lelièvre. Le due donne caratterialmente opposte ma a loro modo complementari nascondono un passato poco trasparente. Un’amicizia osteggiata che porterà al licenziamento di Sophie e a delle conseguenze imprevedibili. Claude Chabrol (ribattezzato come il maestro francese della suspance) costruisce un thriller gelidamente controllato, rilettura degli stratagemmi hitckockiani (regista a cui Chabrol è stato più volte comparato) e di suprema eleganza ed estetica minimalista, disarmante e pieno di disperazione. Il titolo originale della pellicola (“La Ceremonie”) richiama lo stile registico. Chabrol delinea gesti e azioni facendoli sembrare rituali ma nello stesso tempo rendendone impercettibili le modifiche infinitesimali, mantenendo ambigue tutte le pedine in gioco fino alla fine, senza far sospettare allo spettatore (quasi come se lo estraniasse e distraesse) l’incombenza e l’ineluttabilità del massacro finale. Di per sé, Il buio nella mente, offre un modello narrativo archetipo, molto familiare al regista, che sovente si spinge dal quotidiano alla tragedia con incursioni nella letteratura poliziesca e in quella più colta. Nel romanzo poliziesco, il comportamento criminale spesso non è tanto un risultato del libero arbitrio quanto qualcosa di determinato da fattori psicologici e sociali. Tuttavia in Chabrol il bisogno di comprendere il crimine è minata dalla visione che il male sia di per sé inspiegabile. I comportamenti illeciti di Sophie e Jeanne non sono semplicemente una reazione compulsiva contro le disuguaglianze di classe, ma un rito curiosamente ordinato, uno sfogo nato dal niente, di inconsapevole valenza rivoluzionaria (o quasi). La pellicola conferma un assioma fondamentale: un capolavoro non può essere “premeditato” in anticipo ma è il risultato di un’imprevedibile alchimia tra sceneggiatura, cast e regia. Superba l’interpretazione delle due protagoniste, Coppa Volpi alla Mostra del cinema di Venezia.
Sì, vendetta! Il terzo episodio della trilogia della vendetta di Park Chan-wook mette nelle mani di una donna il compito di chiudere il cerchio, aperto con Mr Vendetta e continuato da Old Boy. Una donna, perchè solo l’umanità femminile può trasformare la violenza in espiazione. Geum-ja è una ragazza che ha trascorso in prigione tredici anni della propria vita per avere procurato la morte di un bambino di sei anni. Accusata ingiustamente, la protagonista, scontata la pena, si vuole vendicare con il vero autore del misfatto. Strutturato con repentini flashback che ricostruiscono il passato delle compagne di carcere, e formalmente rigoroso nella scelta delle inquadrature, Lady Vendetta è incisivo fin dai titoli di testa (un bianco accecante fa da “carta” su cui vengono disegnate rose rosse) e cresce in un climax ascendente e drammatico. È l’alternanza di toni a sorprendere. Ironia, grottesco, dramma a tinte forti, violenza si fondono fino ad apparire stridenti a noi occidentali. Ma la violenza di Park Chan-wook non è mai gratuita e qui si mette al servizio dell’espiazione. Geum-ja (Lee Young-ae) è una sorta di angelo che si è perso e che deve ritrovare la retta via. E solamente la consapevolezza di assurgere verso la pace interiore potrebbe riaccendere la luce e restituire il candore, ora coperto da una coltre di dolore. La sequenza che si svolge nel finale all’interno di una scuola, esprime tutta la visionarietà, anche tecnica del regista che esplora le anime con movimenti di macchina e inquadrature fisse, esprimendo ora un dolore profondissimo, ora un momento di black humour. La fotografia segue questo “viaggio” e le tonalità più aperte e pastello vengono prima sostituite da colori lividi, per poi tornare ai bianchi. Sensibilmente meno riuscito dei primi suoi due film della trilogia per qualche sfilacciatura nella sceneggiatura, Lady Vendetta ha il merito di colpire e di lasciare un segno profondo, quasi indelebile, nella mente dello spettatore.
Un film di George Cukor. Con Norma Shearer, Joan Crawford, Rosalind Russel, Mary Boland, Paulette Goddard. Titolo originale The Women. Commedia, b/n durata 132′ min. – USA 1939. MYMONETRO Donne valutazione media: 3,75 su 15 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Da una commedia (1936) di Clare Boothe Luce: arrivata a Reno (Nevada) per ottenere il divorzio dal marito fedifrago, la ricca Mary Haines fa la conoscenza di diverse signore che vi albergano per la stessa ragione. Da una commedia salottiera, riscritta da due altre donne (Anita Loos, Jane Martin), un film corale piccante, elegante (nella versione originale una sfilata di moda di 5′ a colori) e cattivo che toglie la pelle sorridendo. Soprattutto una parata di attrici dirette al meglio dal più raffinato regista di donne di Hollywood. 135 donne sullo schermo, e nemmeno un uomo. Rifatto con Sesso Debole (1956) di David Miller.
Lavardin va in Bretagna per indagare sull’assassinio di uno scrittore cattolico, trovato morto, e nudo, sulla spiaggia. La sua figliastra quattordicenne gli fornisce la pista giusta. Come in Una morte di troppo (e con lo stesso attore, il bravo Poiret), Chabrol fa passare attraverso lo schema dell’inchiesta poliziesca il suo disprezzo per la borghesia e il gusto per la buona tavola. Intrigante.
Quando la nuova insegnante di matematica e di educazione fisica di una seconda media tedesca, Carla Nowak, decide di prendere l’iniziativa per scoprire chi è il responsabile dei furti che si sono verificati nella scuola, lo fa con le migliori intenzioni. Prima su tutte quella di interrompere la prassi degli interrogatori ai danni di studenti innocenti e di liberarli dall’ombra del pregiudizio che grava su di loro. Sa benissimo, perché lo ha visto con i suoi occhi, che, per esempio, anche tra il corpo docente c’è chi non brilla per onestà. E sa benissimo, perché lo insegna in classe, che una tesi ha bisogno di una dimostrazione valida, da condursi passaggio dopo passaggio, altrimenti si finisce nell’ambito dell’opinione, nel relativismo, nell’anarchia. Eppure la sua azione finisce per innescare una reazione a catena, che sfocia proprio là dove Nowak non avrebbe mai voluto, in quell’immagine finale, che è iconograficamente associabile a una vittoria, ma racconta una tragica sconfitta.
Il formato originario è quello della miniserie televisiva composta da sei puntate, che vennero trasmesse in prima visione dal canale nazionale RAI dal 29 dicembre 1970 al 2 febbraio 1971[1].La fiction incontrò un grande successo di pubblico (una puntata totalizzò circa 21 milioni di spettatori) grazie soprattutto alle qualità dei due attori protagonisti: Renato Rascel, perfetto (anche fisicamente) nel ruolo di padre Brown e Arnoldo Foà, nei panni di Flambeau, l’inafferrabile ladro convertito e riportato sulla retta via da padre Brown fino a diventarne il fidato e validissimo compagno di avventure.
Cukor viene dal teatro e lo si vede soprattutto in questo film per il quale si è servito, almeno in parte, di un testo shakespeariano. Un attore confonde realtà e finzione teatrale; l’esasperazione e l’alterazione psichica lo inducono infatti a strangolare una donna, come fa Otello con Desdemona.
Michele e Francois sono fratellastri. Lui torna da una lunga permanenza negli Stati Uniti e riscopre l’amore per lei. Ma in famiglia ci sono problemi ben piu’ gravi. La madre di Francois e’ impegnata nella campagna elettorale municipale e i suoi avversari scavano nel passato della sua famiglia e in quella del padre di Francois. Cio’ che emerge non e’ certo piacevole. Ancora un groviglio di vipere nella borghesia medio-alta di provincia per un Chabrol che ripete se stesso con una classe ineguagliabile. Attori tutti perfetti, ambienti che diventano a loro volta protagonisti e la voglia di costruire gialli che non restino in superficie (come fa tanto cinema americano) ma scavino nel profondo degli individui non dimenticando il contesto che, in parte, li determina ad agire. Si veda la visita ‘elettorale’ della candidata nel casermone periferico e si capira’ cosa vuol dire fare cinema senza i paraocchi di genere.
Da un romanzo di Compton Mackenzie: dopo la morte della madre, Sylvia Scarlett fugge, travestita da ragazzo, dalla Francia in Inghilterra, col padre, un imbroglione ricercato dalla polizia. Si aggregano a uno scalcinato Carro di Tespi e, con un intraprendente giovanotto, commettono varie truffe ai danni dei gonzi. Fiasco al botteghino e poco apprezzata dalla critica del suo tempo, è una commedia insolita, pungente e fantasiosa imperniata sul gioco, la finzione, il travestimento, ricca di malizie e volute ambiguità tanto che fu boicottata dalla Legion of Decency, interpretata benissimo da una squadretta di attori tra cui spicca la Hepburn, magnifica.
Le strade di una metropoli moderna (Milano) sono sparse dei cadaveri di una rivolta giovanile; la gente, indifferente e frettolosa, cammina tra loro evitando di toccarli; la legge dello Stato lo proibisce, pena la morte. La giovane Antigone decide di dar sepoltura al fratello, contro il parere dei familiari e del fidanzato Emone, figlio del primo ministro. La aiuta Tiresia, giovane straniero che parla in una lingua sconosciuta e disegna sui muri un paese. Ispirato all’Antigone (441 a.C. ca) di Sofocle. Mitico più che politico, onirico più che realistico, qua e là ridondante nel macinio dei suoi simboli, impregnato di un raro sentimento di pietà e di dolore misti a rabbia civile, ha forse il torto di aver contrapposto alla fiera ostinazione di Antigone non l’empietà dello Stato moderno in generale, “bensì una specie di orwelliano 1984 capitalista.” (Alberto Moravia). Fotografia (Techniscope): Giulio Albonico; musiche: Ennio Morricone. Gianni Amelio aiutoregista.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.