Uno dei primi film di Cassavetes, che già s’infischiava delle regole della drammaturgia (seguendo i personaggi anche negli atti quotidiani) ma non aveva ancora imparato a rendere quei personaggi veramente degni d’essere seguiti. Protagonista è un giovane musicista che “punta” una bella bionda e cerca di strapparla al suo innamorato.
Tra la giovane Why, che sbarca il lunario dipingendo cerbiatte sui marciapiedi di Parigi, e la ricca Frédérique nasce un’amicizia “particolare”. Ospite di Frédérique a Saint-Tropez, Why si innamora di un architetto, Paul. Frédérique fa allora in modo che Paul volga subito le proprie attenzioni da Why a lei. In un primo tempo Why soffre, poi è felice di vivere insieme ai due amanti ai quali sente di voler molto bene, senza rancore. Però per Frédérique la presenza di Why diventa un peso e quindi se ne torna a Parigi col suo uomo. Why, contrariata, la raggiunge e la uccide.
Edit 8 Settembre 2024: sostituita copia precedente perchè difettosa a 0:45:23 e 1:08:19. Questa nuova non dovrebbe avere problemi. Fatemi sapere.
Il 15 settembre 2008 la banca di New York Lehman Brothers chiede la procedura fallimentare, anticamera della più grave crisi della finanza globale dal 1929 in poi. Margin Call , in traduzione libera, sta per “tutto in una bolla”. Scritto e diretto dall’esordiente Chandor il cui padre lavorò per quasi 40 anni nella banca Merryl Lynch (da tempo scomparsa). Si parte col licenziamento in tronco del capo della gestione rischi: accompagnato alla porta, lascia a un giovane analista una chiave USB. È appena iniziata la notte. Il giovane mette insieme i pezzi mancanti e dà l’allarme ai piani alti. La banca ha le ore contate. Puntiglioso e tagliente, qua e là anche arguto, il thriller fa un discorso molto chiaro: i responsabili del disastro sono vittime della loro stessa attività, della miopia e degli sbagli nell’ordine delle priorità. Il sistema di Wall Street può essere condannabile, ma vi lavorano persone diverse per responsabilità tecniche ed etica personale.
Arringa dell’avvocato-regista André Cayatte contro la pena di morte. Nella stessa cella, in una prigione francese, si trovano cinque condannati a morte: un ex partigiano, guastato dal clima di violenza instaurato durante e dopo la guerra; un giovane corso che ha ucciso per tenere fede a un giuramento familiare; un medico, accusato di aver ucciso la propria moglie; un maniaco omicida; un poveraccio incapace d’intendere e di volere. Su tutti la società si vendica. Ma è giusta la vendetta?
Cronenberg ha, in ugual misura, seguaci fanatici e detrattori accaniti. Qui si misura con la realtà virtuale. Un film-videogame o un videogame che non riesce a diventare film?
Il medico legale Warren Chapin (Vincent Price), confortato dai risultati delle autopsie condotte sui cadaveri di alcuni condannati a morte, ha sviluppato la teoria secondo la quale la paura, al massimo stadio, sprigiona il “tingler”, un’energia di tale intensità da schiacciare la spina dorsale e condurre alla morte. Convinto di riuscire a materializzare questa sfuggente forza negativa, Chapin sperimenta droghe pesanti su se stesso, sulla infedele moglie Isabel e sulla muta Martha Higgins, consorte dell’equivoco Oliver, giungendo alla conclusione che il “tingler”, sempre in agguato in ciascuno di noi, può essere reso inoffensivo soltanto da un grido di terrore. Quando Martha muore, apparentemente vittima di uno dei suoi allucinogeni, Chapin, dissezionandone il cadavere, riesce finalmente a catturare la diabolica presenza, che ha la forma di un mostruoso parassita, e la chiude in una piccola gabbia. Isabel tenta inutilmente di servirsi del mostro per uccidere il marito e questi, ormai persuaso della pericolosità della sua ricerca, lo restituisce al cadavere facendo sì che Martha, per un attimo, si rianimi e provochi la morte di Oliver, vero responsabile dell’omicidio. Lo sceneggiatore Robb White è costretto a sacrificare l’elemento fantastico per architettare una soluzione che liberi il protagonista dai dubbi e renda giustizia alla povera donna assassinata. Il film che ne deriva è, in parte, macchinoso negli sviluppi e povero nelle situazioni, svolgendosi tra la sala della morgue e le borghesi pareti domestiche, e slittando tra uno scienziato un po’ folle, due donne infelici, e un uomo cinico che medita l’omicidio perfetto. Nonostante tutto, The Tingler è un piccolo cult. Girato in bianco e nero, con una breve e quasi impercettibile sequenza a colori (quella della vasca riempita di sangue), poggia sulla personalità di Vincent Price, sull’esplicito (e dati i tempi, coraggioso) riferimento al LSD, e sull’idea della “morte in diretta” che anticipa – secondo alcuni – le tematiche dell’Occhio che uccide diretto da Michael Powell l’anno successivo. Ma la vera attrazione del film, al momento della sua prima distribuzione, è il procedimento “Percepto!”, un effetto speciale – per così dire – collaterale escogitato dall’inventivo William Castle per coinvolgere direttamente il pubblico in sala. Alle ultime bobine, mentre sullo schermo si proiettava l’ombra del “tingler”, le poltrone del cinema cominciavano improvvisamente a vibrare e il pubblico, sorpreso e divertito, si abbandonava al grido liberatorio trascinato dalla voce tonante di Vincent Price che comandava di urlare per sbaragliare il mostro.
Un film di Roger Corman. Con Jean Hale, George Segal, Ralph Meeker, Jason Robards. Titolo originale St. Valentine’s Day Massacre. Drammatico, b/n durata 100 min. – USA 1967. MYMONETRO Il massacro del giorno di San Valentino valutazione media: 3,00 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
È la cronaca romanzata del famoso massacro del 14 febbraio 1929, in pieno proibizionismo, che vide eliminarsi a vicenda le organizzazioni di Al Capone e Bugs Moran. Il giorno della strage, mentre ben sette uomini di Bugs morivano uccisi da falsi poliziotti, Al Capone, il mandante, se ne stava in Florida a prendere il sole.
Versione in chiave musicale del film precedente riscritta da Moss Hart. 1° film a colori e in Cinemascope di Cukor, e uno dei suoi più costosi (4 milioni e mezzo di dollari, cifra altissima per l’epoca). 1° personaggio drammatico per J. Garland dopo 4 anni di assenza _ professionalmente out _ che rivela eccezionali doti di attrice, cantante, mima, ballerina. Una stella muore, un’altra nasce: viva il cinema! Apoteosi dello star system: “Il film rivela cosa c’è dietro” (E. Comuzio). Tagliato dalla Warner (anche se Sidney Luft, il produttore principale, era il 3° marito della Garland) e sottovalutato dalla critica del tempo, è un film straordinario a vari livelli tra cui, oltre a quello musicale, quello figurativo.
Pimpante vecchietta dal passato amoroso burrascoso va alla ricerca del solo uomo che ha veramente amato e si trascina dietro un pacifico nipote. Film di strenua eleganza, interpretato da una Smith superlativa, che restituisce soltanto in parte, ma con sapienti spostamenti, il fascino e l’arguzia del romanzo omonimo (1969) di Graham Greene. “Calibrato, delicato, spiritoso, con una lievità cui non si era più abituati, e in un’aura che è tutto fuorché greeniana” (G. Fofi). Ha una qualità innegabile: la simpatia.
A New York un miliardario di origine francese s’innamora di una ballerina del Greenwich Village ma, per essere certo di essere amato per sé stesso e non per i soldi, si fa passare per un attore in bolletta. Più commedia con canzoni che musical, soffre di un fiacco copione di Norman Krasna che propone una storia risaputa senza rinverdirla. Cukor è a suo agio nella rappresentazione del mondo dello spettacolo, ma sono pochi i momenti felici. Persino la Monroe è più opaca del solito e si riscatta soltanto cantando “My Heart Belongs to Daddy” di Cole Porter. Debolucci anche i numeri musicali con le coreografie di Jack Cole.
Da un romanzo di Hank Searls. Per battere i sovietici nella corsa alla luna, gli americani lanciano una capsula, guidata da un pilota civile allenato in tempi stretti da un colonnello suo amico. Più che di fantascienza, è un buddy-buddy film , cioè la storia di un’amicizia maschile messa alla prova dai politici. Pur manipolato dai boss della Warner, è un interessante e ingegnoso esempio di contaminazione tra fiction e documentario.
La storia infrangibile della Signora delle camelie (1848) di Alexandre Dumas figlio: cortigiana si innamora di un bel giovane ricco che la ama, rinuncia a lui con la morte nel cuore e muore di tisi tra le sue braccia. È, forse, la più grande interpretazione della Garbo, in perfetto equilibrio tra cuore e cervello. Fredda, ma, sotto, ribelle. Incandescente, ma controllata. Superba capacità di trarre il massimo dal minimo, ma non va trascurata l’eleganza geniale del regista. La Garbo ebbe una nomination all’Oscar che fu vinto da Louise Rainer per Il paradiso delle fanciulle .
Un film di John Cassavetes. Con Seymour Cassel, Ben Gazzara Titolo originale The Killing of a Chinese Bookie. Drammatico, durata 113′ min. – USA 1976. MYMONETRO Assassinio di un allibratore cinese valutazione media: 3,43 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Cosmo Vitelli, proprietario di un locale di spogliarelli in forte debito con una banda mafiosa, è costretto a commettere un omicidio nel torbido quartiere di Chinatown. È con Gloria (1980), uno dei due gangster movie di J. Cassavetes, regista che contraddice le regole del genere a 3 livelli: l’improvvisazione del linguaggio; la peculiare direzione degli attori (un ottimo B. Gazzara); i temi complementari che gli sono cari: la chiusura e la tirannia della famiglia, intesa anche in senso criminale. È il più involuto e originale dei due, insolito per il taglio della short story, lo stile sincopato, il frastuono del traffico che lo assilla da cima a fondo in una giostra di morte: un’intuizione straordinaria, la definizione acustica dell’inferno. In Italia distribuito in un’edizione colpevolmente ridotta a 85′.
Nell’Inghilterra vittoriana un gentiluomo persuade la giovane moglie ad abitare nella vecchia casa dove fu assassinata sua zia e, con una diabolica strategia psicologica, la spinge sull’orlo della pazzia finché interviene un ispettore. Tratto dalla pièce Gaslight (1938 _ in italiano Via dell’angelo o Luce a gas) di Patrick Hamilton, già filmato nel 1939 da Thorold Dickinson, è un venerando melodramma psicologico, non privo di artifizi, che conta soprattutto come saggio di manipolazione psicologica e per la recitazione. La sapienza registica di Cukor fa il resto. 7 nomination e 2 Oscar per la Bergman e la scenografia.
In un negozio di articoli casalinghi lavorano quattro ragazze che, per evadere dalla monotonia quotidiana, finiscono nei pasticci. La più giovane e romantica cade nelle mani di un uomo che aveva scambiato per un innocente ammiratore e che si rivela un bruto.
Rudy si è appena laureato in legge, non è ancora procuratore ma lo diventa quasi subito. Vive a Memphis e si dà da fare. Si trova a patrocinare la famiglia di un malato di leucemia: l’assicurazione non vuole riconoscere il legittimo risarcimento. Rudy va avanti. Quando si trova di fronte al micidiale corporativismo delle assicurazioni, non si fa intimidire da una schiera di avvocati da “mille dollari l’ora” e affronta la sua battaglia. Alla sua prima causa, ma col furore del Davide onesto, il ragazzo vince su tutta la linea. La compagnia assicurativa, che era una vera associazione per delinquere, perde la causa ed è costretta al fallimento. Chi conosce John Grisham, l’autore del libro, sa che alla fine giustizia sarà fatta. Nelle sue storie ognuno ha esattamente quello che si merita. Gli onesti hanno la meglio sui cattivi, pure organizzatissimi. E mettiamoci Coppola, che racconta con la giusta tensione. Si esce dalla sala col magnifico senso liberatorio dei grandi film di un tempo. Coppola-Grisham, ovvero il fronte opposto ai maledetti tarantiniani. Teniamoceli stretti. Quando i buoni vincevano si diceva “succede solo al cinema”, poi non è più successo neanche al cinema. Grisham e Coppola ripristinano la speranza. Il film come sogno e benessere. Il cavaliere della valle solitaria è tornato. E la presenza della vecchina Teresa Wright (mito di Hollywood: Signora Miniver, I migliori anni della nostra vita) è un altro segnale di qualità, una garanzia rassicurante verrebbe da dire, senza corporativismi.
Una giovane e ambiziosa conduttrice televisiva viene sedotta da un maturo scrittore sposato. Egocentrico e sensibile alle belle donne, l’uomo ne fa un’amante esperta e focosa e la introduce ai giochini viziosi del jet set parigino. Ma la passione, si sa, è volubile. Specie se la differenza d’età è abissale, lui è accecato dal narcisismo e dall’egoismo e lei è infantile e in preda agli slanci totalizzanti del primo grande amore. Quando viene abbandonata dall’anziano amante, la ragazza si consola tra le braccia di un giovane miliardario psicologicamente instabile da tempo innamorato di lei e arriva addirittura a sposarlo. E a questo punto il solito stucchevole triangolo altoborghese sfocia in tragedia… L’innocenza del peccato, presente nel 2007 al Festival di Venezia nella sezione Fuori Concorso, segna una flessione nella meravigliosa e prolifica carriera di Chabrol, che continua a sfornare un film all’anno mantenendosi a livelli qualitativi finora sopraffini. Qui l’acume nell’inquadrare i molti vizi e le poche virtù dell’alta borghesia risulta annacquato e impoverito da un calligrafismo stucchevole e superficiale. Il maestro francese non riesce a inserire il dito nella piaga del vuoto di valori e a vivificare il connubio amore-morte, limitandosi a un ritratto d’ambiente patinato, formalmente impeccabile e benissimo recitato ma mai incisivo o inquietante. La deriva etica che guida le azioni dei protagonisti resta sullo sfondo e il finale simbolico, di cui naturalmente non anticipiamo nulla, è di un didascalismo imbarazzante. Un’opera di maniera che fa rimpiangere la lucida e sottile cattiveria non solo dei capolavori degli anni Settanta, ma anche dei recenti La damigella d’onore e La commedia del potere.
L’artista Saul Tenser e la sua assistente Caprice eseguono performance di asportazione di nuovi organi di natura tumorale dal corpo dello stesso Tenser. Quando i due decidono di registrare il brevetto dei nuovi organi generati nel corpo dell’artista, il loro percorso incrocia quello di una setta dedita a mangiare plastica, già nel mirino delle forze dell’ordine dell’unità Nuovo Vizio.
Fondendo l’estetica dei suoi primi film e gli elementi psicanalitici dei suoi ultimi lavori, David Cronenberg realizza un film di fantascienza inconsueto, spiazzante, in cui l’estetica vintage si pone in secondo piano rispetto a un contenuto radicale.
Le protesi e i dispositivi tecnologici sembrano realizzati secondo una antica idea del futuro che caratterizzava gli anni Ottanta – le visioni aliene di H.R. Giger, ancor più che i primi film di Cronenberg – mentre la storia raccontata completa e canonizza il lavoro di eXistenZ e Crash, tra autocitazione e aggiornamento di una poetica alla contemporaneità.
Crimes of the Future invita a smarrirsi in un futuro remoto che è al contempo una verosimile prosecuzione del nostro presente. Un mondo grigio e quasi inabitabile, in cui la sovrastimolazione del corpo, sollecitato ed eccitato anche durante il sonno o durante il pasto, ha portato a un’esasperazione e nel contempo a un annullamento del piacere e del dolore. In questo panorama piatto e orizzontale il film stesso sceglie di non evolvere e di procedere in accordo con le musiche di Howard Shore, come un bordone mononota che dilata emozioni statiche.
L’intrigo noir, che vede Tenser alle prese con un’indagine su un omicidio e su una setta di plasticofagi, è il pretesto per esplorare una nuova dimensione della sensualità, che ha esteso la profanazione del corpo dall’esteriorità all’interiorità, rimpiazzando il sesso con la chirurgia. La fame di celebrità e l’adorazione per gli artisti è legata al senso che questi riescono ad attribuire ad attività che in realtà tutti sembrano praticare: Cronenberg insiste proprio su questo contrasto, in una possibile allegoria del rapporto tra arte e consumo di massa, incarnate dalle performance concettuali di Tenser da un lato e dai mangiatori di plastica dall’altro.
La popolazione femminile in età post-puberale è stata decimata dalla “malattia di Rouge”, l’epidemia che lo scomparso dermatologo Antoine Rouge ha imprevedibilmente scatenato nel tentativo di curare le patologie derivate dallo smodato uso dei cosmetici. Nella clinica House of Skin del dottor Adrian Tripod, allievo di Rouge, si cerca di scoprire una terapia per combatterla, o meglio per addomesticarla, ma gli esperimenti condotti in vari reparti simili a compartimenti stagni procedono stancamente. Tripod stesso si scopre passivo spettatore del lavoro dei suoi medici: uomini in camice bianco, con una gestualità da rituale stregonesco, asportano da se stessi e dalle loro cavie umane organi e tessuti per compararli tra loro e rigenerarli, mentre misteriosi individui venuti dal mondo esterno tentano di sottrarre dalle loro aberranti pratiche sessuali una enigmatica ragazzina che forse rappresenta l’ultima chance per la procreazione di una nuova specie. La clinica come microcosmo di un mondo in evoluzione; l’immaginazione come inesauribile motore della vita; la morte come stadio di passaggio verso una nuova oggettiva realtà; il concetto di corruzione assunto a struttura portante di un divenire libero dal peso di speculazioni morali; una razionalità che cerca le proprie giustificazioni nell’irrazionalità; un virus letale che necessariamente deve trasformarsi in fonte di sopravvivenza; un protagonista che è insieme artefice e spettatore di quanto si sta vivendo; la contraddizione come chiave di lettura del racconto… I temi, le ossessioni, lo stile ermetico e surreale di Cronenberg sono già tutti ben delineati in questa quarta opera semisperimentale, problematica e disturbante come poche altre sue pellicole. I crimini del futuro – la manipolazione genetica, l’ibrido sessuale, la violenza, la pedofilia – sono le vie che l’uomo, in un incerto domani, potrebbe trovarsi nella necessità di percorrere per piegare la malattia a strumento di rigenerazione.
La storia dei celeberrimi innamorati di Verona. Fanno parte di due famiglie divise da rivalità e odio. Si innamorano ma non riescono a essere liberi. E letteralmente muoiono d’amore. Forse il loro sacrificio servirà a portare finalmente la pace. Una delle rappresentazioni classiche di maggior qualità spettacolare mai realizzate. Ma non solo spettacolare, anche artistica. Stranamente questo film non ha mai sedotto la critica. Forse era giudicato troppo fastoso. È senz’altro vero che il cinema entra con grande prepotenza nel teatro, ma è un preciso diritto del cinema. Il lavoro è squisitamente o disperatamente Metro-Goldwyn- Mayer, con tutte quelle caratteristiche: sfarzo di tutto, grande ricerca storica, budget cospicuo. Vennero assunti i massimi esperti di Shakespeare, di costumi e musica dell’epoca, in omaggio alla cultura inglese (un amore-odio che è precisa tendenza degli americani, che diventa solo amore quando si tratta di Hollywood). Il regista Cukor era noto per le sue attitudini allo stile, all’eleganza e alla cultura. Volle che Romeo fosse uno dei più grandi attori di teatro dell’epoca, Leslie Howard, che aveva quarantatré anni ed è forse il più vecchio Romeo della storia del teatro. Giulietta venne affidata a Norma Shearer, allora trentaquattrenne e dunque a sua volta inadeguata: era la moglie di Irwing Thalberg, boss della Metro. A Howard la produzione contrappose il più grande attore americano di ogni epoca, John Barrymore, che, bizzarro e alcolizzato, creò enormi problemi, ma che accende la sequenza ogni volta che appare. Nella parte di Mercuzio, Barrymore esegue un vero esercizio di virtuosismo, specie nel lungo monologo iniziale. Nell’ottica classica il film presta sicuramente il fianco a molte critiche per le visibili contaminazioni, ma se si accetta la collaborazione tra teatro e cinema, il risultato è straordinario. E finirei con un’altra menzione, che non viene mai fatta: i doppiatori. Spesso le nostre voci hanno migliorato il prodotto, in questo caso certamente non lo hanno peggiorato. Ricordiamo le tre principali: Ruffini (Barrymore), Panicali (Howard) e Pagnani (Shearer).
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.