Capocomico di una compagnia di guitti, in tournée in Messico, fa amicizia con un prete, segretario di un cardinale in missione, ed entrambi si fanno coinvolgere dalla rivoluzione. Commedia umoristica incline alla farsa, incentrata sul duo Gassman-Villaggio che funziona in modo sorprendente.
Scritto dal regista con Margaret Mazzantini, sua moglie, dal suo romanzo omonimo (2008). Come per Non ti muovere , è lecito preferire la scrittura registica allo script , zeppo di fatti, peripezie, passioni, sentimenti: un vero “melodrammore” come e più degli altri. Scandito in 3 tempi (1984, 1992, 2011), ambientato tra Sarajevo e Roma, è il più internazionale dei film di Castellitto (solo 3 italiani tra i 10 attori principali), il più storico (l’assedio serbo di Sarajevo, 1992-95, ormai dimenticato dai media di questa Italia dalla memoria corta) e, secondo noi, il migliore. La storia fa capo anche alla sterilità di Gemma. Non riuscendo ad avere un figlio dall’amato Diego, lo induce a far l’amore con la bella Aska e si appropria del bambino che nascerà, ignara del terribile segreto che sta a monte di quella gravidanza. Doloroso happy end . Bravi e diretti bene gli attori, bravissima la Cruz che, nonostante le difficoltà temporali del ruolo, risulta attendibile.
Prima di entrare nell’Aldilà, i morti stanno in un limbo dal quale si dipartono solo quando, tra i vivi, non c’è più nessuno che li ricordi. Scritta con David Grieco e Vincenzo Cerami, è una collana di storie cui fa da mastice il trucido, affabile, cinico custode del cimitero Gassman che fa il verso a un samurai povero. La Melato in una doppia parte briosa ed energica.
La Distancia è la storia di una rapina condotta da tre nani telepati contro un guardiano mutante, dove suspence, fantascienza e location incredibili si mescolano ad un corrosivo e surreale sense of humour.
Quando la 15enne Angela va in coma dopo una brutta caduta, per suo padre Timoteo, affermato medico-chirurgo di origine proletaria e tiepido marito della giornalista Elsa, è l’occasione di fare i conti col passato e soprattutto di rievocare la passione miserabile e i rimorsi per la dolce, derelitta, patetica Italia. Il passato è un precipizio e il futuro una montagna. Il 2° film di Castellitto regista – tratto dal romanzo della moglie Margaret Mazzantini, premio Strega 2002, sceneggiato da entrambi – costringe a distinguere tra la scrittura registica e la materia narrativa fin troppo densa di fatti e di sentimenti. Si possono avere molte riserve sulla sceneggiatura e, insieme, ammirare la regia? Per la direzione degli attori (specialmente della Cruz), l’energia febbrile della messinscena, le invenzioni plastiche (fotografia: Gianfilippo Corticelli), la scansione ritmica del montaggio (Patrizio Marone). Rimangono i dubbi su questo ritratto di maschio codardo e padre distratto. Prodotto dalla Cattleya di Riccardo Tozzi & C. 2 premi David (Castellitto, Cruz), Nastro d’argento alla sceneggiatura; Globo d’oro. Ciak d’oro e Premio Flaiano.
In un ristorante dove si incontrano per decidere le vacanze dei figli, i separati Gaetano e Delia ricostruiscono in flashback la loro storia. Si parte da quando lei, giovanissima e afflitta da problemi con il cibo, lui assetato di affermazione, s’incontrano e nasce una grande passione. Matrimonio, figli e, dopo una prima fase di affievolirsi dei rispettivi disturbi, l’esplosione di tutto in un inesorabile peggioramento individuale e di coppia. Che cosa è rimasto? Rancore, rabbia più o meno repressa, insofferenza: lei rigida, aggressivamente sulla difensiva; lui più accomodante, ma incapace di autocritica. Sarà la loro ultima cena o c’è la possibilità di ricominciare? Castellitto dirige, sua moglie Margaret Mazzantini adatta il proprio romanzo in questo melodramma molto gridato, ricco di luoghi comuni anche se veritieri, povero di approfondimento psicologico ma capace di portare lo spettatore a identificarsi ora nell’uno ora nell’altra, nessuno simpatico, nessuno dalla parte della ragione. Il meglio? Roberto Vecchioni nei panni del saggio vicino di tavolo.
Regia di Sergio Caballero Con Pau Nubiola, Pavel Lukiyanov, Santí Serra
Una notte, due fantasmi che indossano il classico cappuccio con i buchi per gli occhi, lasciano il magazzino in cui il festival musicale Sònar sta avendo luogo e decidono di incamminarsi sulla strada che va da Barcellona a Finisterre, in Galizia (ma nell’antichità visto anche come il luogo alla fine del mondo)…
Indossati i panni dei Re Magi in una recita parrocchiale in un paesino del Sud, tre saltimbanchi da circo attraversano mari e monti, guidati da una cometa, sempre delusi e mazziati, alla ricerca del Bambin Gesù. Incontrano varie Marie e altrettanti Giuseppe e concludono che forse è Gesù ogni bambino che nasce. 8° film di Citti, nato da una costola di un vecchio progetto di Pier Paolo Pasolini ( Porno-Teo-Kolossal ), “sembra un film speditoci dal passato, con l’intenzione di farci da monito per il futuro” (F. Chiacchiari), frutto della strenua fedeltà di Citti a un antico cinema rapsodico e popolare di raffinata ingenuità e di comicità beffarda ma non cattiva, “bassa” ma non triviale. Tocca molti temi – egoismo, razzismo, familismo, violenza, avidità di denaro, televisione, mancanza di futuro, incapacità di immaginare o desiderare qualcosa di diverso – con una leggerezza che approda a esiti di magica serenità.
Un film di Frank Capra. Con Harry Langdon, Gladys Brockwell, Al Roscoe Titolo originale Long Pants. Commedia, durata 60′ min. – USA 1927. MYMONETRO Le sue ultime mutandine valutazione media: 3,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Muto. Indossati finalmente i suoi primi calzoni lunghi, il timido sognatore Harry perde la testa per una bella dissoluta dei quartieri alti e, per amor suo, tenta di uccidere inutilmente l’ingenua Priscilla, sua coetanea e vicina di casa. Langdon ha fatto film più divertenti, ma Long Pants (titolo italiano imbecille) fa macchia nella sua carriera per il carattere ibrido tra romance e commedia, con lampi di film noir e di cinema d’avanguardia. Sviluppa un tema che fu centrale nella narrativa nordamericana a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento: il conflitto tra innocenza ed esperienza, gentilezza della provincia e corruzione urbana.
Il personaggio attorno al quale costruì larga parte delle sue sceneggiature, e che gli diede fama universale, fu quello del “vagabondo” noto al pubblico italiano come Charlot (in realtà il personaggio non aveva nome, e in inglese era chiamato semplicemente The Tramp).[1] La rivolta umanistica, talora nostalgica e sentimentale, talora comica e beffarda, contro le ingiustizie della società capitalistica moderna fece della maschera di Charlot l’emblema dell’alienazione umana (in particolare delle classi sociali più emarginate) nell’era del progresso economico e industriale.
Bombetta, bastoncino e scarpe di Charlot, esposte dalla Fondation de Musée Chaplin, presso Chaplin’s World, Corsier-sur-Vevey, Vaud, Svizzera
Chaplin fu una delle personalità più creative e influenti del cinema muto. La sua vita lavorativa nel campo dello spettacolo ha attraversato oltre 76 anni. Fu influenzato dal comico francese Max Linder, a cui dedicò uno dei suoi film. Star mondiale del cinema, fu oggetto di adulazione e di critiche serrate, anche a causa delle sue idee politiche. Nei primi anni cinquanta, durante le persecuzioni del cosiddetto Maccartismo, le sue idee di forte stampo progressista furono infatti avversate dalla maggior parte della stampa; fu inviso anche al governo federale statunitense. In viaggio con la famiglia verso Londra (settembre 1952), dove si sarebbe tenuta la prima mondiale di Luci della ribalta e successivamente un periodo di vacanza, fu raggiunto dalla notifica del procuratore generale degli Stati Uniti in base alla quale gli veniva annullato il permesso di rientro negli USA: visse il resto della sua esistenza in Svizzera, nella tenuta de “Manoir de Ban”,[2] nel comune di Corsier-sur-Vevey, fra Losanna e Montreux, sul lago di Ginevra.
Scritto dal regista con Paolo Giordano, autore del fortunato romanzo, e spinto da un produttore lungimirante che ne aveva comprato i diritti prima che diventasse un bestseller, è il 3° film di Costanzo e il 1° su commissione, frutto di una operazione difficile e ambiziosa: farne qualcosa di nuovo e diverso. Costanzo ne ha fatto “un horror sentimentale sulla famiglia” (parole sue) e la sua impossibile emancipazione, citando Bava, Argento e Kubrick (con occhiate a Polanski e Bellocchio) e circondandosi di collaboratori affidabili o di moda tra cui il poliedrico musicista californiano Mike Patton, ma anche i Goblin nelle sequenze iniziali. Del romanzo ha ingarbugliato i fili, alternando le vicende dei 2 protagonisti e i 3 livelli temporali (bambini, adolescenti, adulti), cercando al montaggio (Francesca Calvelli) di far emergerne i temi latenti delle vite (quasi) parallele di Alice e Mattia, sconvolti nell’infanzia da dolorosi eventi. S’incontrano, si sfiorano, forse si amano nell’incertezza, ma si trovano sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Cercano di riconciliarsi col passato: l’uno con l’altra? Finale aperto.
Il 30enne Andrea si sottopone a un periodo di esercizi spirituali in preparazione al sacerdozio nel convento sull’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia. Tra padri superiori esigenti, anziani preti diffidenti, novizi incerti o ansiosi, scopre un mondo diverso ma altrettanto complesso e difficile. Grande è la tentazione di rinunciare. Messa in sottordine l’omosessualità, tema centrale nel romanzo Un gesuita perfetto (1960, ripubblicato nel 1999 come Lacrime impure ) di Furio Monicelli da cui prende spunto, Costanzo ha fatto un film più rigoroso e coraggioso del suo esordio nel superpremiato e sopravvalutato Private (2004). Definito un thriller dell’anima, è piuttosto la storia di un’indagine alla ricerca della verità (spirituale o concettuale?), “un vero e proprio giallo della comprensione” (P.M. Bocchi). C’è, però, il sospetto che sia un esercizio stilistico sotto il segno dell’indecisione. Pencola tra il saggio filosofico-teologico (Agostino d’Ippona o Tommaso d’Aquino?) e la denuncia del dogmatismo vaticano, l’analisi della prassi gesuitica di meditazione e proselitismo e la critica a una tecnica puntata alla conquista di potere e di influenza sul mondo. Il difetto è di sceneggiatura, non di regia, e rischia di far scivolare il rigore nella rigidità. Ingombrante colonna musicale degli Alter Ego e Carlo Crivelli. Fotografia: Mario Amura.
Nella New York dei giorni nostri, Jude, newyorkese, e Mina, italiana, entrambi orfani di uno dei due genitori, s’innamorano – galeotto fu il w.c. di un ristorante cinese, in una iniziale scena di dubbio gusto – si sposano e concepiscono un figlio. Lo svezzamento del neonato li risucchia in un gorgo di incomprensione, diffidenza e odio che uccide il loro amore. E non solo. Al suo 4° film, Costanzo, anche sceneggiatore, rimaneggia il romanzo Il bambino indaco (2012) di M. Franzoso e sembra volersi servire di una situazione-limite come di una lente d’ingrandimento per osservare le emozioni conflittuali che la nascita di un figlio suscita in una coppia. Ma l’eccesso iperbolico ben presto travalica il realismo, e con esso la possibilità di un’immedesimazione riflessiva, a favore di un compiaciuto manierismo espressionista e sensazionalista che flirta con l’horror e ammicca al noir. Coppa Volpi per i 2 protagonisti al Festival di Venezia 2014.
Katherine è un genio dei numeri e della matematica. Borsa di studio ad honorem e laurea. Viene assunta con le sue 2 amiche del cuore – Dorothy, ingegnere, e Mary informatica – alla NASA, dove si lavora per inviare l’uomo nello spazio. Ma siamo in Virginia, è il 1961 e le 3 ragazze sono nere. Combattono contro ogni discriminazione e la spuntano. Melfi racconta un capitolo della Storia americana, noto al mondo e da sempre coniugato al maschile, da un punto di vista diverso, per il fondamentale contributo non solo femminile, ma anche afroamericano. Lo fa in modo appassionato e appassionante, convenzionale ma mai piatto. La “violenza” della scena in cui Katherine, per poter andare in bagno (i bagni dei neri erano separati da quelli dei bianchi) deve percorrere più di 1 km e deve farlo di corsa (per non assentarsi a lungo) salta agli occhi con evidenza. E di dettagli di questo tipo il film è pieno e le 3 ottime protagoniste danno il loro contributo di lotta, con il riuscito disegno di 3 personaggi molto diversi ma ugualmente ostinati e forti.
Estate in un camping sulle coste del grossetano. Nic, dodici anni, ha un fratello più piccolo, un padre volgare e manesco e una madre sempre sul punto di giungere a una separazione definitiva ma apparentemente incapace di volerla veramente. Marie, coetanea di Nic che vive a Ginevra ma parla bene l’italiano, ha una madre che si ostina a volerle negare tutta la verità sulle sorti di un padre che lei non ha mai conosciuto. I due si incontrano e danno vita a una piccola banda dedita a giochi che spesso riproducono le loro insicurezze. Rolando Colla con questo film sembra essere in ricerca così come i suoi personaggi. Realizza infatti un’opera che prende respiro in progress sia per quanto riguarda la scrittura (anche se alcune battute suonano come poco verosimili) sia per quanto concerne la direzione degli attori. In questo finisce con l’aderire a una vicenda in cui i più giovani si trovano in balia di un mondo adulto incapace di offrire loro certezze.
Le luci rosse del titolo sono gli indizi più o meno evidenti che possono razionalmente spiegare i cosiddetti eventi soprannaturali. Margaret Matheson e il suo aiuto Tom Buckley sono investigatori di questi fenomeni. Il loro lavoro consiste nello smascherare coloro che fingono di possederli. Tra questi ultimi c’è Simon Silver che da anni campa sulle sue finzioni. Scritto dal regista spagnolo che già si era distinto con Buried – Sepolto (2010), il film si affida esplicitamente alla dicotomia illusione/realtà che è, in fondo, uno dei princìpi fondatori degli audiovisivi, cinema e televisione. A livello tecnico-narrativo, il film è ingegnoso quanto e forse più di Buried . Manca però di spessore sociologico e perde di credibilità se si tiene conto in quale misura sia diffusa tra la popolazione degli USA la ricerca, o la speranza, di un nuovo messia. Distribuisce 01.
Un ufficiale napoleonico capita in un castello sul mare dove appare e scompare una bella baronessa assassinata vent’anni prima che cerca di indurre al suicidio il vecchio barone pieno di rimorsi. Fantasma o diabolico trucco? Girato in 3 giorni per utilizzare scenografie e attori del precedente I maghi del terrore , risente della fretta. Qualche buona sequenza.
Parigi, Gare du Nord. Una banda di ragazzini dell’Europa dell’Est si muove per l’immensa stazione, sotto lo sguardo della polizia ma anche di Daniel, un cinquantenne discreto, che ha messo gli occhi su uno di loro, Marek, al quale strappa un appuntamento sessuale a pagamento. A casa dell’uomo, però, l’indomani, si presenta la banda al completo, che svaligia allegramente l’appartamento del malcapitato, lasciandolo pressoché vuoto. A Daniel non resta che incassare il colpo. Ma qualche giorno dopo Marek (il cui vero nome è Rouslan) torna da lui, solo, e tra i due ha inizio una relazione molto diversa, fisica, ma lontana dalla violenza della banda, e sempre più necessaria ad entrambi.
Camionista al servizio di una società privata USA in Irak, Conroy si sveglia in una bara con un coltello, una barretta fosforescente, un accendino e un cellulare semiscarico. Non sa perché e ricorda male come è finito lì. Dal telefono qualcuno gli dice che uscirà da quel buio solo se convincerà il suo governo a versare 5 milioni di dollari. Scritto da Chris Sparling e diretto da un regista spagnolo che firma il montaggio, è un film-scommessa imperniato su una trovata paradossale e crudele in bilico sul tragicomico sarcastico. Rischia la monotonia, ma la evita. Non è la morte che lo attende ad angosciarlo: “Il suo dolore più sanguinante è la scoperta che il suo io è ben poca cosa non solo qui, sotto il deserto iracheno, ma anche in patria” (R. Escobar). Nessuno lo ascolta.
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