A Milano, un giovanotto fa la corte a una ragazza portandola a spasso sull’automobile del padrone, ma per un equivoco i due litigano e lui perde il posto d’autista. Più tardi si ritroveranno alla Fiera campionaria e, grazie ai buoni uffici del padre di lei, un tassista, finiranno per sposarsi.
Regista del cinema muto, gran dongiovanni impenitente al tramonto, dà spregiudicate lezioni di seduzione a un giovane allievo che s’innamora di una coetanea che il maestro _ in contraddizione con sé stesso _ vorrebbe sposare. In chiave autobiografica non priva di amarezza, è una dichiarazione d’amore al cinema muto delle origini e una divertita, ma anche commossa, ricostruzione della Belle Époque. L’intrigo sentimentale _ paragonato dall’autore, un po’ abusivamente, a quello della Scuola delle mogli di Molière _ non è originale, ma serve da tramite per il resto. Tenero, divertente, qua e là caustico. È il 1° film che R. Clair girò in Francia dopo il suo soggiorno americano, e il migliore tra quelli fatti dopo la guerra. Nella parte di Chevalier doveva esserci Raimu che morì poco prima delle riprese.
Un film di Frank Capra. Con James Stewart, Claude Rains, Jean Arthur, Harry Carey, Edward Arnold. Titolo originale Mr. Smith Goes to Washington. Commedia, b/n durata 129 min. – USA 1939. MYMONETRO Mister Smith va a Washington valutazione media: 4,08 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Due politicanti hanno bisogno di un uomo di paglia che possa portare avanti, a Washington, una legge che favorirà certe speculazioni. La scelta cade su Mr. Smith (Stewart), uomo bonario, apparentemente condizionabile, forse anche un po’ sprovveduto. Eletto senatore Smith va a Washington. Una giornalista prezzolata fa in modo che venga sistematicamente distratto dalle situazioni. Ma l’uomo, nell’atmosfera epica della capitale, prende coscienza del suo ruolo e dimostra ben presto di non essere quello che tutti credevano. Si rende conto dell’imbroglio e comincia la sua battaglia personale contro gli speculatori. Naturalmente i marpioni gli rivoltano tutto contro; inventando ogni genere di calunnia, fanno apparire lui il disonesto. Ma Smith non demorde, con un lunghissimo discorso al Senato riesce a commuovere tutti, e quando cade svenuto, anche il suo più acerrimo nemico si arrende e confessa. Insieme a È arrivata la felicità, Arriva John Doe e La vita è meravigliosa, questo film è uno dei più rappresentativi della carriera di Capra, uno dei massimi autori del cinema.
Un film di Alain Cavalier. Con Catherine Mouchet, Helene Alexandridis, Aurore Prieto Biografico, Ratings: Kids+16, durata 90′ min. – Francia 1986. MYMONETRO Thérèse valutazione media: 4,00 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
È la storia di Thérèse Martin, nata nel 1873 ad Alençon, che, entrata sedicenne nel convento di Lisieux seguendo l’esempio delle due sorelle, vi morì di tubercolosi nel 1897. Fu elevata agli altari nel 1925 col nome di Santa Teresa di Lisieux. È il caso raro di un film laico, appoggiato più all’antropologia che alla psicologia, che, attraverso la leggerezza e la concretezza della vita quotidiana, suggerisce il senso del sacro, la religione vissuta come energia dell’amore. Premio speciale della giuria a Cannes e 6 premi César.
Luglio 1945. Il corrispondente di Guerra, ora in divisa, Jake Geismer torna a Berlino per occuparsi della Conferenza di Potsdam che vedrà presenti Truman, Churchill e Stalin. Qui ritrova Lena Brandt, la donna che ha amato e che ora dipende totalmente da Tully, l’uomo che gli è stato assegnato come autista. Ben presto Tully, pronto a fare commercio di qualsiasi cosa, viene ritrovato ucciso e Geismer non solo vede rinascere la passione per Lena ma si trova anche al centro di un gioco di segreti che è meglio non rivelare e di cui lui è a conoscenza. Steven Soderbergh ci ha da tempo quasi assuefatto alla sua irrefrenabile voglia di sperimentare che peraltro aveva già manifestato a partire dal suo primo film Sesso bugie e videotape. Da qualche anno ha trovato in questa sua linea di tendenza la collaborazione dell`amico Clooney che lo ha seguito nell’impresa del remake di Solaris così come in Ocean’s Eleven e Ocean’s Twelve. Clooney deve aver visto in questo film la possibilità di misurarsi da vicino con gli attori del cinema classico a cui la critica spesso lo accosta. L’occasione sulla carta era di quelle da non perdere. Intrigo a Berlino è stato girato così come lo si sarebbe potuto girare nel 1945. Stesse macchine da presa, stessi mezzi di illuminazione, stesse condizioni di registrazione del suono, stesso bianco e nero. Sul piano tecnico solo la ‘ratio’ (i rapporti tra larghezza e altezza del fotogramma) è leggermente cambiata a causa dei proiettori oggi in uso. Da questo punto di vista il film rappresenta una scommessa vinta. Lo è invece molto meno sul piano dello spettacolo.Realizzare nel nuovo millennio un ‘finto’ film del 1945 (con qualche inconguenza sul piano del linguaggio e della rappresentazione della sessualità, che mai avrebbero potuto passare il vaglio del Codice Hays di censura) rischia di diventare un’operazione tanto curiosa sul piano filologico quanto sterile su quello narrativo. Soderbergh non riesce mai a far appassionare alla vicenda perché propone un intreccio già visto nei classici ma che in quelli ‘veri’ può essere accettato e condurre a una partecipazione attiva anche lo spettatore di oggi. Qui invece si può restare freddamente ammirati dinanzi alle citazioni (compresa quella finale decisamente eccessiva e già sfruttata con esiti migliori nel passato più o meno recente) ma non si va oltre. Gli attori (Tobey Maguire escluso) hanno ‘le phisyque du rôle’ ma l’empatia non scatta. È invece interessante il tema dibattuto: in guerra diviene ‘lecito’ ciò che, una volta che questa si è conclusa, viene letto come una colpa. Soderbergh non manca poi di ricordarci, facendoci attraversare le macerie di una Berlino ricostruita a Los Angeles, che in quella guerra la bomba atomica fece il suo esordio, anche se ‘fuori campo’. Sono ammonimenti sempre utili che l’algida operazione di ingegneria vintage rischia di vanificare. Tre stelle per le tecniche impiegate.
Autumn Moon, Ping e Sylvester sono tre ragazzi difficili delle case popolari di Hong Kong: il primo è un mezzo delinquente abbandonato dal padre, la seconda ha una madre piena di debiti ed è affetta da un tumore che si diffonde rapidamente; Sylvester, invece, ha un ritardo mentale che lo rende sistematicamente lo zimbello dei bulli del quartiere. Moon diventa il capo di questo terzetto accomunato dall’insoddisfazione: quando i tre vengono in possesso della lettera scritta da una ragazza prima di suicidarsi, i loro destini cambiano irreversibilmente.
Il Titanic impiegò 2 ore e 40 minuti per colare a picco dopo la collisione con un iceberg nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912. Il canadese Cameron ha rievocato la tragedia in 3 ore e 14 minuti di cui poco più di un’ora riguarda l’affondamento. Il resto racconta il prima e il poi, con un prologo nel regno dei morti, a 4000 metri di profondità oceanica nel 1996 e un epilogo zuccheroso in paradiso, entrambi di carattere onirico, ma in modo diverso. È una storia d’amore tra il proletario Jack e l’aristocratica Rose sotto il segno della morte, un fiammeggiante melodramma romantico che si spegne nelle acque gelide dell’Atlantico. Cineasta dai codici filmici forti, Cameron vi fonde il melodramma, il catastrofico e l’epico nel contesto della rigorosa cronaca di una tragedia colposa, indicando gli errori tecnici, le responsabilità umane, le smanie da prima pagina, le viltà, la divisione in classi. Si presta così a molti percorsi interpretativi: il politico, il sociale, lo storico, il simbolico, il filmico, il metacinematografico, il tecnologico. Come e più che nei film precedenti del regista, gli effetti speciali sono al servizio della storia e dei personaggi: un mezzo e non un fine. È il film dei primati: per i 200 milioni di dollari di costo (ma meno di Cleopatra , 1963); per il sovraccosto (60-70 milioni più del preventivo); per gli incassi (i più alti in senso assoluto, ma al 22° posto in termini relativi, cioè in numero di spettatori); per gli 11 Oscar (eguagliando Ben Hur): film, regia, fotografia (Russell Carpenter), scene (Peter Lamont, Michael Ford), costumi (Deborah Lynn Scott), montaggio, musiche (James Horner), suono, effetti sonori, effetti speciali visivi, canzone (“My Heart Will Go on”, cantata da Céline Dion). K. Winslet doppiata da Chiara Colizzi, L. DiCaprio da Francesco Pezzulli. Al film lavorarono più persone di quante ne furono imbarcate nel 1912 sulla nave.
Regia: Kurt Neumann, Edward Bernds, Don Sharp, David Cronenberg, Chris Walas
La trilogia classica degli anni ‘60 (L’Esperimento del Dottor K., La Vendetta del Dottor K. e La Maledizione della Mosca) e gli spettacolari film degli anni ‘80 (La Mosca e La Mosca 2). Cinque film per altrettanti viaggi nella paura in compagnia di scienziati pazzi, mutazioni genetiche ed esseri raccapriccianti. La saga “body horror” più famosa di tutti i tempi in versione restaurata in un box completo ricco di extra.
Sette ex studenti contestatori degli ultimi anni ’60 all’università del Michigan si ritrovano ai funerali di un amico e passano il weekend insieme. Ricordano i vecchi tempi, parlano del presente e del futuro. È diventato un film di culto per gli ex sessantottini di mezza Europa. Sapiente e un po’ ruffiano ritratto collettivo di una generazione disillusa, divertente e amaro, sostenuto da un dialogo scoppiettante e da un’ottima squadra di attori, sebbene “troppo scritto”. Presenza virtuale di Kevin Costner come l’amico morto. Figurava in alcuni flashback, eliminati al montaggio dal regista. Scritto da L. Kasdan con Barbara Benedek. Tre nomine agli Oscar (film, sceneggiatura, Close). Sullo stesso tema John Sayles, in Return of the Secaucus 7 (1979), è più autentico e originale.
Dopo l’8 settembre 1943 un sottotenente ligio ai superiori (Sordi), in mancanza di ordini non riesce a tenere unito il suo reparto che, spinto dal desiderio di tornare a casa, se la svigna. Restano con lui il sergente Fornaciari (Balsam) che vuole raggiungere la sua casa poco distante e il soldato semplice Ceccarelli (Reggiani) che non se la sente di fuggire da solo dovendo raggiungere Napoli. La traversata da nord a sud dell’Italia, flagellata dalla guerra e in preda all’anarchia, lo fa maturare. Fusione ben temperata di comico, grottesco, drammatico e patetico: una storia corale con Sordi meno mattatore del solito. “Sotto le mentite spoglie di una commedia, il film è sostanzialmente un racconto a tesi … quello della scelta che ciascuno è chiamato a fare almeno una volta nella sua vita” (G. Gosetti). È forse il miglior film di L. Comencini, una delle rare mediazioni felici tra neorealismo e commedia italiana, grazie all’apporto di Age & Scarpelli (più Marcello Fondato) in sceneggiatura. Il ministro Giulio Andreotti rifiutò di mettere a disposizione 2 carri armati (furono costruiti in compensato). Prodotto da Dino De Laurentiis. Grande successo: più di 1 miliardo di incasso del 1960.
Ex pugile fallito sogna di trasformare un giovanotto in un campione, ma una donna “di lusso” gli guasta i piani. L’aria di Parigi non c’è. Opera minore di Carné, logora e stanca, che sostituisce un sentimentalismo rosa al pessimismo nero. I duetti tra Gabin e Arletty sono, comunque, deliziosi.
Vita, imprese, successi, affetti di George Michael Cohan (1878-1942), attore, autore, compositore, ballerino, una vera istituzione del teatro americano, il primo uomo di spettacolo a vedersi, da vivo, dedicare un film biografico. Per molti critici americani, un vero capolavoro nel suo genere; per noi europei un tantino troppo sentimentale e patriottico. Vale, comunque, soprattutto per l’interpretazione (premiata con un Oscar insieme alla direzione musicale e al suono) di J. Cagney: grande, grandissimo attore. Osservatelo come canta e balla la canzone del titolo originale: “Yankee Doodle Dandy”. Contagioso.
Texas 1963. Un evaso (Costner) dal carcere comincia una lunga fuga verso l’Alaska con un bambino in ostaggio. Gli dà la caccia un Texas Ranger anticonformista (Eastwood) affiancato da una psicologa (Dern). Film d’inseguimento senza suspense in cui i meccanismi dell’azione violenta lasciano il posto alla tenerezza. Contano i personaggi e la sconsolata analisi morale della società USA. Su una bella sceneggiatura di John Lee Hancock Eastwood conferma, dopo Gli spietati , di essere arrivato al culmine della sua maturità. Troppo classico nel suo rigore etico per poter aspirare alla futile gloria dei premi Oscar e ai primi posti nella classifica degli incassi.
È il film – il 4° di Cantet – che vinse la Palma d’oro a Cannes 2008, giuria unanime. Nel 2006 il libro Entre le murs di Bégaudeau – qui protagonista e cosceneggiatore – aveva vinto il premio France Culture/Télérama. In settembre Cantet gli chiese di trasporlo in un film da girare nel 2007. Decisero di farlo nel collegio Françoise Dolto, sito nel 20° Arrondissement alla periferia di Parigi, vicino alla scuola dove per 4 anni aveva insegnato. Racconta i difficili rapporti tra un prof. di francese e una classe 4ª (l’ultima) mista e plurietnica (francesi, nordafricani, europei dell’Est, cinesi), chiamati a parlare “la stessa lingua” con le sue insidie (in francese il computer si chiama “ordinateur”). Come nel libro il titolo – Tra i muri , quello della Mikado italiana è debole e ambiguo – indica che nel sistema scolastico francese la scuola è uno spazio di segregazione, non di integrazione: le differenze linguistiche e culturali diventano diseguaglianze, si aggravano invece di essere superate. In Francia discusso, attaccato da sinistra e da destra. Straordinario esempio di docufiction sociologica, girato da Cantet con un largo margine di improvvisazione, è un film onesto e autentico, sincero e coinvolgente. Pone molte domande senza pretendere di dare risposte anche nel doloroso finale in cui la finzione prevale sul documentario.
Rosemary Woodhouse (Farrow) sospetta una congiura demoniaca contro la creatura che porta in grembo, organizzata con la complicità del marito attore (Cassavetes) dagli arzilli Castevet (Gordon e Blackmer), coinquilini-stregoni mimetizzati negli abiti della borghesia di New York. Realtà o psicosi? Il polacco R. Polanski – al suo 1° film made in USA dopo 3 britannici – affascinato dal senso di mistero che serpeggia nel romanzo di Ira Levin, ne cava un memorabile esempio di cinema della minaccia e ripropone il tema dell’ambiguità fino a farne la struttura portante della narrazione. È “un incubo cinematografico dove la possibilità di orientarsi tra fantastico e reale è persa sempre, mentre resta a dominare la scena la sensazione di angoscia ridotta al grado zero e perciò ancor più inquietante” (S. Rulli). Oscar per R. Gordon. Prodotto da William Castle per la Paramount, nel 1976 ebbe un seguito TV di nessun interesse.
Storia romanzata e poco attendibile di un pregevole suonatore jazz di cornetta, Bix Beiderbecke (il musicista bianco del dixieland), morto nel 1931 all’età di ventotto anni. Il film narra la sua ascesa, la crisi sentimentale che gli fa trascurare la professione, la lenta risalita. Molto belle le musiche.
Una donna dolce e apparentemente remissiva è sposata con un banchiere burbero e autoritario al quale, però, riesce a far fare quello che vuole. Il marito, infatti, è in fondo un brav’uomo che ama teneramente sia la moglie che i suoi quattro figli. Un giorno il poveraccio si lascia scappare di non essere battezzato. La consorte, in men che non si dica, riuscirà a trascinarlo in chiesa.
È un raro colossal d’autore, forse il più costoso della storia di Hollywood: 230 (o 500?) milioni di dollari. Come film, è una fiaba epicofantastica più che SF. Siamo nel 2154 d.C. su Pandora: i Na’vi, pacifici indigeni umanoidi con la coda, alti circa 3 metri, collegati da una rete neurale con la natura, sono un ostacolo per l’estrazione di un raro minerale indispensabile per risolvere la crisi energetica della Terra, che da 30 anni ha fatto di Pandora una colonia mineraria. Al servizio di una potente multinazionale vi sbarca, con un piccolo esercito di mercenari, l’emiplegico guerriero Sully, collegato con un avatar (= discesa, in sanscrito), clone biologico teleguidato il cui DNA umano è ibridato con quello di un Na’vi. Grazie all’amore della bella Neytiri, impara a conoscerli e rispettarli finché si schiera con loro in una feroce battaglia. Coprodotto con Jon Landau, scritto dal regista, girato alle Hawaii e in Nuova Zelanda con l’apporto della Weta Digital di Peter Jackson e la supervisione degli effetti speciali di Joe Letteri. Pur essendo presenti gli altri 3 elementi cosmogonici, la sua principale componente è l’aria che è, come il fuoco, un principio attivo e maschile. Importante è pure l’acqua: il ricorso al 3D – per la prima volta con discrezione creativa – serve per dare profondità sottomarina alla terra e ai boschi di Pandora. C’è di tutto nel latente sottolivello del film, anche una dimensione sociopolitica (i “buoni selvaggi” schiacciati dalla civiltà delle macchine). Cameron mescola, senza far vedere le giunture, la realtà dei corpi degli attori con i loro cloni, i fantastici animali, le foreste, i fondali marini, le minuscole bestioline luminose di Pandora, tutte inventate con la computer-graphic . Enorme successo mondiale: quasi 3 miliardi di dollari di incasso! 3 Oscar: scenografia (R. Carter, R. Stromberg, K. Sinclair), fotografia (Mauro Fiore), effetti speciali.
Dopo la vittoria sugli invasori umani, i Na’vi hanno vissuto in pace. Con loro sono rimasti alcuni scienziati terrestri insieme ai propri avatar e un ragazzino troppo giovane per essere rispedito sulla Terra. Di nome Spider e figlio del defunto colonnello Quaritch, è cresciuto insieme alla famiglia di Jake Sully, che ha tre figli naturali: il maggiore Neteyam, il ribelle Lo’ak e la piccola Tuk. Inoltre Jake e Neytiri hanno adottato Kiri, figlia dell’avatar di Augustine Grace e di padre ignoto, dotata di una sovrannaturale connessione con Eywa, la grande madre di Pandora. La Terra versa in condizioni sempre peggiori e Pandora può essere una nuova casa per gli umani, che tornano sul pianeta più bellicosi che mai, questa volta anche con soldati avatar – tra i quali un “nuovo” Colonnello Quaritch, ossia un corpo Na’vi abitato da un backup della sua coscienza. Inevitabilmente cercherà vendetta contro Jake, che nel frattempo è diventato il capo dei ribelli Na’vi, e lo obbligherà a lasciare la foresta per cercare rifugio con la famiglia presso i Metkayina, pacifici abitanti di un grande arcipelago.
Da un racconto di Vincenzo Cerami che l’ha sceneggiato con Citti. Una ventina di persone si spogliano nella stessa cabina – la n. 19 – di una spiaggia libera di Ostia in una calda domenica d’agosto. Con un colpo di genio pratico e poetico Citti risolve in una mossa sola 3 problemi: il basso costo, le esigenze commerciali, un’originale struttura drammatica. Allegria crudele, pessimismo ilare, ironia blasfema.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.