La vita di San Francesco d’Assisi raccontata in un Medioevo di fango, sangue e sporcizia, dall’inquieta cattolica Liliana Cavani. Mickey Rourke è un santo più atletico che ispirato.
Due giovani di diversa condizione sociale si amano, ma non possono sposarsi a causa di un dissidio tra i rispettivi padri. Lei allora decide di andarsene; la famiglia di lui, ricca e intransigente, finirà col commuoversi. È il film che accredita Capra come uno dei grandi registi-autori del mondo. Poesia, umorismo, realizzazione dell’impossibile. I temi che poi verranno espressi, magari con maggiore spessore, nelle opere successive. Fu anche la grande occasione di James Stewart, trentenne, che da quel momento divenne uno dei divi di punta di Hollywood.
Storia di Mara, ragazza toscana che diventa donna sacrificando alcuni anni della sua vita a un ex partigiano condannato per omicidio. Del romanzo (1960, premio Strega) di Carlo Cassola il film è una riduzione fedele. Intorno a Mara, “la prima apparizione umana positiva di grande statura della nuova narrativa italiana” (I. Calvino), già in Cassola i rappresentanti dell’estremismo (il padre di Mara, i compagni di Bube) sono tenuti in ombra. Nel film sono quasi al buio, così com’è sfocato lo sfondo storico. Pur non parlando né camminando (Mario Soldati dixit ) da toscana, C. Cardinale, finalmente non doppiata, è credibile, docile, tenera. Bellissimo bianconero di Gianni di Venanzo (1920-66).
Dall’oriente un terzetto di mediometraggi va a comporre un film solo per duri di stomaco. Cina: per combattere le rughe, la facoltosa signora Qing pranza spesso da zia Mei, specie di fattucchiera i cui ravioli sono un elisir di lunga vita. Il segreto è nel ripieno: carne di feti abortiti. Corea: un regista e sua moglie vengono rapiti da una comparsa psicopatica che li tortura. Il motivo è che l’uomo non riesce ad accettare che il regista oltre che bravo, bello e ricco, sia anche buono. Giappone: una giovane scrittrice è tormentata dal ricordo di un delitto commesso da bambina. Gli estremorientali sembrano essersi resi conto di essere le genti più allucinate del pianeta, al momento, e decidono di unire le forze e mettere insieme questa sorta di campionario dell’efferatezza. Scegliete dal catalogo l’episodio che più vi aggrada e tuffatevi nel maelstrom della follia pura.
Un film di Roger Corman. Con Vincent Price, Elizabeth Shepherd, John Westbrook Titolo originale Tomb of Ligeia. Horror, durata 81′ min. – Gran Bretagna 1964. MYMONETRO La tomba di Ligeia valutazione media: 3,13 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Ligeia, moglie di Sir Verden, muore asserendo di poter vincere la morte con la forza della volontà. Quando lui si risposa con Lady Rowena, ricompare. È l’ultimo e forse il migliore dei film di Corman sotto il segno di E.A. Poe, sia per l’impegno plastico-figurativo sia per la cura nella costruzione narrativa, grazie alla sceneggiatura del giovane Robert Towne.
Messico, 1970. Roma è un quartiere medioborghese di Mexico City che affronta una stagione di grande instabilità economico-politica. Cleo è la domestica tuttofare di una famiglia benestante che accudisce marito, moglie, nonna, quattro figli e un cane. Cleo è india, mentre la famiglia che l’ha ingaggiata è di discendenza spagnola e frequenta gringos altolocati. I compiti della giovane domestica non finiscono mai, e passano senza soluzione di continuità dal dare il bacio della buonanotte ai bambini al ripulire la cacca del cane dal cortiletto di ingresso della casa: quello in cui il macchinone comprato dal capofamiglia entra a stento, pestando i suddetti escrementi. Perché nel Messico dei primi anni Settanta tutto coesiste: la nuova ricchezza come la merda degli animali da cortile, il benessere ostentato dei padroni e la schiavitù “di nascita” dei nullatenenti. Tutto convive in un sistema contradditorio ma simbiotico in cui le tensioni sociali non tarderanno a farsi sentire, catapultando il recupero delle terre espropriate in cima all’agenda dei politici in cerca di consensi.
Durante la guerra dei Trent’anni, un professore trova rifugio in un piccolo villaggio di montagna scampato miracolosamente alla distruzione. S’illude, stabilendovi un clima di pace e di solidarietà, di risparmiare il paesino dalle violenze della guerra.
Operaio sordomuto e licenziato vende al mercato nero un rene da trapiantare a sua sorella, gravemente malata, ma rimane fregato. Una sua amica anarchica e rivoluzionaria gli propone un piano: rapire la figlia del suo ex datore di lavoro e ottenere col riscatto la somma necessaria al trapianto. Il piano va a ramengo, innescando aggressioni, torture e omicidi in serie. Premiato al Noir in Festival 2003 di Courmayeur, rivelò in Europa il talento e il nichilismo estremo del coreano Park. È di una violenza fisica e psicologica così radicale che in Italia è passato direttamente nell’home video. È una violenza speculare e radicata in un mondo senza pietà. Il che spiega, senza giustificarli, i soprattoni di denuncia politica e una certa confusione narrativa nel ricorso al flashback. Apre la trilogia della vendetta che continua con Oldboy (2004) e Lady Vendetta (2005).
La nascita di Charlot: i primi 34 film di Chaplin, in un nuovo restauro internazionale che ne recupera tutta la dirompente forza comica. 4 DVD, oltre dieci ore di cinema. Per la prima volta in versione restaurata, la collezione completa delle 34 comiche interpretate e girate da Charlie Chaplin per la Keystone Company tra il 2 febbraio e il 7 dicembre 1914. In meno di dodici mesi Chaplin passa dall’essere un attore di vaudeville pressoché sconosciuto a una star del cinema. Impara a ideare, dirigere e a montare i suoi film: un solo anno di vorticosa attività, e un mondo che prende forma, un personaggio che poco alla volta s’appropria del proprio abito, un cineasta che conquista il suo posto davanti e dietro la macchina da presa. Le comiche Keystone registrano, in tempo reale, e con una dinamicità, una vitalità e un’energia irripetibili, la nascita e l’evoluzione di uno de personaggi più universali del Novecento. Sono stati necessari sette anni di ricerche condotte negli archivi di tutto il mondo per recuperare i migliori materiali esistenti e consentire il restauro dell’intero corpus delle comiche Keystone. Un progetto internazionale avviato nel 2003 dalla Cineteca di Bologna, dal British Film Institute e da Lobster Films in collaborazione, con l’Association Chaplin consente oggi di rivederle nelle migliori condizioni e con nuovi accompagnamenti musicali. Contenuti Extra Bonus d’eccezione: A Thief Catcher, film fino a pochi mesi fa ritenuto perduto in cui Chaplin veste i panni di un poliziotto. E ancora: interviste a David Robinson, biografo di Chaplin, e a Peter von Bagh, storico del cinema, grande conoscitore dell’opera chapliniana e direttore artistico del festival Il Cinema Ritrovato; un raro film d’animazione del 1916; un sorprendente tour sulle tracce delle location dei Keystone nella Los Angeles degli anni Dieci; un breve documentario sulla realizzazione dei restauri e una galleria fotografica ricca di immagini inedite.
Verso il 1300 a.C. il medico egiziano Sinuhe si trova coinvolto in intrighi politici, mentre il faraone Akenaton tenta di realizzare una riforma religiosa.
C’era stato un tempo in cui il western era uno dei generi più popolari di Hollywood. Che si trattasse di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco o Burt Lancaster e Kirk Douglas in Sfida all’OK Corral o Clint Eastwood nella trilogia di Sergio Leone, il vecchio West era un modo sicuro per stare in testa al box office fino agli anni ’70 quando scomparve repentinamente quasi del tutto. Ma Kevin Costner nel 1990 riaprì al meglio la stagione del western e nel giro di tre anni ben due film del genere (per l’appunto Balla coi lupi e “Gli spietati”) riuscirono ad aggiudicarsi l’ambita statuetta di miglior film agli Oscar. E per la prima volta Hollywood “premiò gli Indiani” (e lo fece nella persona di Costner, un diretto discendente della tribù Cherokee) anche se non era certo il primo western della parte dei nativi americani. La pellicola si guadagna un indiscusso posto d’onore nella storia del cinema, non sfigurando di fronte ad un inevitabile confronto con i maestri di sempre. Ed è certo il solo film di questi ultimi vent’anni ad affrontare il mito del West, oggetto di tanto revisionismo annunciato, con una passione e un realismo che vanno in direzione della leggenda anziché della demistificazione. Diretto e coprodotto oltre che interpretato dallo stesso Kevin Costner è un debutto impressionante. Ne sono state più volte sottolineate le debolezze che sfiorano il manicheismo e il culto dello spettacolo, non considerando invece come riesca a coniugare i canoni propri del genere a vantaggio di una narrazione epica che conferisce un raro stato di grazia e di sentito a questo racconto elegiaco interessato più che alla fedeltà storica a una verità morale e antropologica. Ma gli intenti di Costner non rifuggono spesso dall’utopia. Balla coi lupi ha la forza e i difetti della sua semplicità e della sua programmatica generosità, conservando una qualità indiscutibilmente emozionante: quella di contribuire a trasmettere l’invito a conoscere l’altro prima di decidere di combatterlo o sterminarlo.
Nella regione di Chalon-sur-Saône (Francia centrale, a nord di Lione) nel 1944, prima dello sbarco alleato in Normandia, i ferrovieri francesi lottano contro l’invasore tedesco: passaggio della linea di demarcazione per uomini e posta, sabotaggi nelle stazioni di smistamento, deragliamento di un convoglio germanico. 1° dei (pochi) film francesi sulla Resistenza e 1° lungometraggio dell’ex documentarista Clément che avrebbe poi girato altri 5 film sulla seconda guerra mondiale. È una cronaca corale semidocumentaria e celebrativa della lotta antitedesca degli cheminots che sfocia a volte nell’epica, a volte nel dramma. Privo di una vera struttura narrativa e alieno da ogni sfumatura psicologica nel disegno dei personaggi, il film s’iscrive in quella svolta verso il realismo che contrassegnò molte cinematografie, persino quella hollywoodiana, all’indomani della guerra 1939-45. Notevole il contributo della fotografia di Henri Alekan, ma non è trascurabile l’apporto ai dialoghi sobri e funzionali di Colette Audry. Fu girato in circostanze fortunose con veri ferrovieri francesi e con mezzi precari, un po’ come Roma città aperta : il deragliamento del treno, per esempio, è vero, senza trucchi, e fu filmato con 3 macchine da presa. Distribuito in Italia nel 1954.
L’anziano professor Morton sta elaborando una terapia contro l’invecchiamento dei tessuti e confida ardentemente sulla collaborazione di Oliver, uno studente che si mostra particolarmente attento e sollecito. Il buon Morton non sa che il giovanotto è, in realtà, il pronipote del famigerato barone Frankenstein, e che la sua devozione nasconde il proposito di riutilizzare gli insegnamenti ricevuti nel nefasto tentativo di dar vita ad un corpo artificiale ricostruito segretamente in laboratorio. Avendo necessità di cadaveri per realizzare la sua creatura, Oliver svia i sospetti della polizia somministrando a Trudy, l’ignara nipote di Morton, un siero che, periodicamente, ne altera spaventosamente le sembianze e la personalità. Raggiunto lo scopo di dar vita al mostro – un grottesco simulacro di donna – Oliver mette in atto un piano per sbarazzarsi dei padroni di casa, ma Johnny Bruder, fidanzato di Trudy, interviene appena in tempo per evitare il peggio. Mediocre sotto tutti i punti di vista, il film conferma le limitate capacità di Richard E. Chuna, regista di pellicole come Giant from the Unknown e Missile to the Moon. Gli interpreti fanno del loro meglio per non sprofondare nel ridicolo, ma l’intreccio, simile a quello della Figlia del dottor Jeckyll, non regala alcuna emozione e i due mostri – incredibilmente brutti e goffi – non possono invocare alcuna clemenza.Titoli alternativi: La hija de Frankenstein, La fille de Frankenstein, She Monster of the Night.
Il ricchissimo filone di film fantascientifici prodotti ad Hollywood (ma non solo, si pensi ad esempio al nipponico Godzilla) negli anni ’50 viene generalmente in una ristretta cerchia di capolavori del genere, come Ultimatum alla Terra e Il mostro della laguna nera da una parte, e dall’altra una infinità di piccole produzioni dalla qualità abbastanza scadente, realizzate sfruttando i set precedentemente attrezzati per film più importanti. In realtà, se andiamo a scavare bene a fondo nelle opere uscite al cinema in quel periodo, ci accorgeremo che c’è anche una tendenza “di mezzo”, cioè alcune pellicole che, pur non potendo essere assolutamente considerate artisticamente di livello, si distinguono dalla massa anonima di spettacoloni ingenui per tutta una serie di motivi.
Un esempio classico è proprio Destinazione… Terra!, in cui il regista Jack Arnold, uno dei capisaldi del cinema dell’orrore e della fantascienza insieme a John Carpenter, James Whale e Wes Craven, per la prima volta si cimenta in una produzione di questo genere. L’indiscutibile abilità di Arnold conferisce al film caratteristiche di cui i suoi contemporanei improvvisati sono completamente sprovvisti: prima di tutto l’impeccabile regia, in grado di mostrare ogni elemento dell’inquadratura con una vividezza che sorprende e affascina. I contorni sono marcati ed evidenti, il panorama (il deserto dei western) è qui sfruttato con maestria, a dimostrazione di come un regista capace sia in grado di servirsi con successo anche di materiali di scarto e non propriamente legati al genere di riferimento. Grande trovata anche la soggettiva dagli occhi, anzi dall’occhio, dell’alieno, e superba è la sequenza in cui la creatura esce dalla miniera, rivelandosi in tutto il suo orribile aspetto, emergendo piano piano dalle ombre e materializzandosi come puro incubo visivo. Inoltre va segnalato che Arnold per primo nella storia si servì dell’espediente narrativo, poi reso celeberrimo da Don Siegel ne L’invasione degli ultracorpi, di far assumere agli extratterestri la forma degli uomini con cui erano entrati in contatto. In ogni caso, la sola regia non basterebbe ad elevare questo film una spanna al di sopra di molti suoi simili… la vera genialità di Arnold sta nell’importante riflessione etica che viene proposta, e che in parte ricalca, almeno nella concezione che il regista ha degli alieni, il film di Robert Wise, nel quale, proprio come in questo, gli esseri venuti dallo spazio erano dei “visitatori” e non degli “invasori”; inoltre sono dotati non solo di una tecnologia superiore alla nostra, ma anche di una più profonda capacità di relazionarsi con gli altri, di accettare la diversità e di convivere con essa. Ecco dunque che Arnold cala all’interno di un cinema troppo spesso di mero intrattenimento una discussione intensa che si tramuta anche in denuncia dell’ottusità umana, della sbagliata paura dell’uomo nei confronti dell’ignoto, e del suo impulso istintivo a distruggere tutto ciò che non si può capire e dominare, anzichè cercare di comprenderlo. Gli alieni del film cercherebbero il contatto, ma sono consapevoli che l’umanità non è ancora pronta per un passo del genere. Il finale è un magnifico invito a superare tutti i pregiudizi razziali della nostra epoca, a liberarci dall’infondato e autodistruttivo timore del “diverso”, nella speranza che un giorno sia possibile il ritorno sul pianeta di una specie così superiore che potrà portare soltanto benefici agli uomini. Dunque il film esula dal semplice argomento narrativo per mostrarsi come una preghiera universale di tolleranza, amore e rispetto nei confronti degli altri, e questo è indice di grandezza e valore artistico.
Si apre con un ingorgo a Los Angeles che si trasforma in un delizioso balletto coreograficamente perfetto nel suo disordine apparente. Lei aspira a far l’attrice e serve cappuccini al bar. Lui ama appassionatamente il jazz e sogna di aprire un locale tutto suo. Si amano e poi si lasciano. Ognuno per la sua strada. E realizzano i loro sogni. Musical eccentrico, originale e classico, romantico con una vena malinconica, mai triste. La Stone, che si aggiudica a Venezia la Coppa Volpi e l’Oscar come miglior attrice, e Gosling non sono ballerini, ma compensano con l’interpretazione, e si “inventano” ballerini: lui, con la mano in tasca, è strepitoso. La storia – come in un musical d’altri tempi che si rispetti – è esilina, ma le musiche (Justin Hurwitz), l’ambientazione (scenografie di David Wasco), i costumi (Mary Zophres), le coreografie, la versione musicale del “sognoamericano” senza lieta fine sentimentale (forse), e le numerose citazioni valgono la pena. Chi non ama i musical stia a casa. Oscar anche alla regia, alle scenografie, alla colonna sonora e alla canzone (su 14 candidature), 7 Golden Globe (su 7 candidature).
Ucciso un rivale in amore, l’operaio François si barrica nella propria stanza, assediato dalla polizia e rivive la sua storia. Una delle vette del realismo poetico francese prebellico. Determinante l’apporto dei dialoghi di J. Prévert alla sceneggiatura di Jacques Viot in questo film assai concreto, eppur ricco di echi simbolici che non contraddicono l’impianto realistico dell’azione.” ci ha sorpreso come una voce amica nel deserto” (E. Flaiano, 1940). Tutto concorre alla felicità creativa del risultato complessivo: il bianconero di Curt Courant, le scenografie di A. Trauner, la recitazione. Ma è straordinario l’uso del materiale plastico: le sigarette, l’orsacchiotto, la rivoltella, la sveglia, fotografie, cappelli, cartoline, mobili, fiori, ecc. Influenzò il cinema “nero” americano degli anni ’40. Rifatto a Hollywood nel 1947: La disperata notte.
Sostituita versione dvdrip con bdrip 720p.
I subita li ho tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Il film è la storia di una giovane, realmente esistita, accusata di aver tentato di uccidere la madre e d’aver eliminato il patrigno. Al processo i pareri sull’accaduto (la giovane aveva un viso d’angelo ma un animo perverso e corrotto) furono discordi, tuttavia la ragazza venne condannata a morte. In seguito, tre presidenti francesi si interessarono del suo caso: Leburn commutò la pena in ergastolo, Petain in dodici anni di carcere e De Gaulle le rese la libertà. Violette si sposò ed ebbe cinque figli. Poco prima di morire, ottenne piena riabilitazione.
A Saigon il cap. Willard dei servizi speciali riceve l’ordine di risalire un fiume della Cambogia, raggiungere il colonnello Kurtz, che sta combattendo una sua feroce guerra personale, ed eliminarlo. Ispirato a Cuore di tenebra (1902) di Joseph Conrad, sceneggiato da J. Milius, splendidamente fotografato da V. Storaro, è il più visionario e sovreccitato film sul Vietnam, trasformato in mito. Delirante, eccessivo, diseguale, ricco di sequenze straordinarie, assai discusso e talvolta estetizzante nel suo ostentato brio stilistico, nella sua spropositata ambizione di grandiosa complessità. È una riflessione amara, forse disperata, sull’imperialismo USA, erede del colonialismo europeo, sulla follia omicida della civiltà occidentale, sul legno storto dell’umanità. Palma d’oro a Cannes, ex aequo con Il tamburo di latta . 2 Oscar: Vittorio Storaro (fot.) e Walter Murch (suono).
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