Uno scrittore polacco che vive a Parigi viene ritenuto erroneamente un aspirante suicida. Due suoi conoscenti, ex sessantottini ora integrati, decidono di organizzargli un suicidio in grande stile. Dovrà darsi fuoco in piazza San Pietro durante una megamanifestazione per protestare contro la politica delle grandi potenze. L’uomo non è per nulla intenzionato a uccidersi anche se intorno a lui si sta costruendo tutta una struttura che dovrà “lanciare” l’evento ricavandone molto denaro. Riuscirà a salvarsi solo all’ultimo momento, mentre altri stanno “veramente” dandosi fuoco. Costa-Gavras ha spiazzato tutti i suoi estimatori con un film che “osa” riflettere sui reduci del Sessantotto per di più facendo uso del grottesco. Successo di pubblico e critica bassissimi per un film che merita invece un’attenta lettura.
E’ la storia di Arthur London, uomo politico cecoslovacco che, dopo la guerra, si prepara a occupare un’importante carica nel governo del suo paese. Incappa però nelle persecuzioni staliniste e finisce in prigione dove rimane per lunghi anni. Intanto anche la moglie è persuasa da alcuni esponenti del partito a testimoniare contro di lui. London, sfibrato, finisce per “confessare” accusandosi di atti mai commessi. Dopo qualche tempo viene liberato e si riunisce alla moglie, pentita. Il film è tratto dall’autobiografia di London e signora e si conclude con un atto di fede: il protagonista dichiara di sentirsi sempre comunista nonostante i torti subiti dai compagni del suo stesso paese. Costa Gavras trasferendo la storia in immagini ci ha dato forse la sua opera più asciutta ed efficace. Ma il film, in genere, è stato amato od odiato per ragioni non estetiche: amato a destra per la sua condanna di un paese comunista, odiato a sinistra perché si rimproverò a Costa Gavras la preoccupazione, da un film all’altro, di dare un colpo al cerchio e uno alla botte.
Dal romanzo (1966) di Vassili Vassilikos: come fu preparato e realizzato l’assassinio del deputato socialista Gregorios Lambrakis a Salonicco nel maggio 1963. Un piccolo giudice incorruttibile conduce l’inchiesta. Uno dei più famosi film politici del mondo: grande successo di pubblico in mezza Europa, 2 premi a Cannes, Oscar 1969 per il miglior film straniero e per il montaggio. Difficile distinguere dove finisce l’efficacia e dove comincia la ruffianeria. Fin dove è lecito ricorrere agli espedienti del cinema spettacolare (suspense, intermezzi comici, montaggio spezzato, effetti) al servizio di un’idea politica? Trintignant eccellente. Notevole contributo alla sceneggiatura di Jorge Semprun. Musiche di M. Theodorakis.
Basato su una storia vera, vincitore a Cannes nel 1982, Missing è il primo film di Hollywood che racconta del coinvolgimento della Cia nel golpe cileno del 1973. Charles Horman (John Shea) è uno scrittore americano trasferitosi con la moglie Beth (Sissy Spacek) nel Cile democratico di Allende. Quando Pinochet sale al potere, il clima del Paese cambia e niente è più come prima. Una notte Charles viene arrestato dai soldati dell’esercito e da quel momento nessuno avrà più sue notizie. Da New York arriva il padre di Charles, Ed Horman (Jack Lemmon) per aiutare Beth nella ricerca del marito scomparso. Ed, grazie a questa ricerca disperata e frustrante, non solo scopre le atrocità e gli orrori del golpe, ma impara a conoscere attraverso gli occhi di Beth suo figlio che pensava essere molto diverso da lui e del quale non aveva mai approvato lo stile di vita. I fatti sono narrati con un ritmo che cattura l’attenzione dello spettatore e lo rende partecipe dell’angoscia dei protagonisti. Il realismo giornalistico del film è squarciato solo per un breve momento dall’improvvisa apparizione notturna di un cavallo bianco in fuga, trasposizione onirica della disperazione del Paese. Beth e Ed dovranno vedersela non solo con i militari cileni, ma anche con le menzogne degli ambasciatori americani raccontate in perfetto stile CIA . L’occhio del regista Costa Gavras osserva silenzioso, rispettoso sia della storia che della Storia. Il film infatti, oltre che narrare fatti storici, ha una sottotrama, quella del rapporto padre-figlio, della conoscenza attraverso la ricerca e la perdita. Le emozioni, la tensione e lo shock sono sottolineate dalle musiche di Vangelis leggere e delicate in forte contrapposizione con le immagini dei molti cadaveri all’interno dello Stadio nazionale o con la disperazione di Ed e Beth. I tasti del piano camminano ripetitivi come una dolcissima ninna nanna riuscendo a fermare le immagini del film nella nostra mente. Un film da non perdere, lucido, vero, forte.
Un uomo, che ha la moglie moribonda, esce di casa per non assistere all’agonia e vaga per la notte in cerca di pace e, inconsciamente, di un’altra donna. La trova in una bella sconosciuta che ha lasciato da poco il marito, ammalato senza speranza. Amandosi, litigando, consolandosi a vicenda, i due tirano l’alba. L’uomo torna a casa e trova la consorte morta. Ora è pronto a ricominciare, ma è la donna a chiedergli di starsene lontano per un po’ di tempo. Tra qualche mese, forse, se i loro sentimenti non saranno cambiati.
A Chicago l’avvocato penalista Ann Talbot si trova costretta a difendere in un processo di estradizione il proprio padre Mike Laszlo, naturalizzato americano da oltre quarant’anni, accusato di essere stato un criminale di guerra nella natìa Ungheria.
Un grande scassinatore spera che il figlio, una volta adulto, segua le sue orme. Ma il ragazzo, dopo aver aiutato per qualche tempo il padre dichiara che non seguirà le sue orme. Il padre ci rimane male e punisce il figlio chiudendolo in camera sua. Ma il ragazzo si libera facilmente e lo denuncia. Commedia diretta con insospettabile umorismo da Costa-Gavras e interpretata con insospettabile bravura da Halliday.
Max Brackett (Hoffman), giornalista televisivo bravo e spregiudicato, relegato in provincia e in perenne attesa dello scoop che lo riporterà in auge, si trova in un museo proprio mentre Sam (Travolta), un guardiano licenziato, si barrica dentro con una scolaresca. Ha un fucile e della dinamite, rivuole il suo posto di lavoro. Sam non è un criminale, né un violento, è solo alterato e sprovveduto, e abusa di pillole di caffeina. Incidentalmente gli parte un colpo e ferisce un’altra guardia fuori dal museo. Max prende l’occasione al volo, organizza una diretta, intervista l’uomo, ne fa un personaggio.
Il titolo originale è Le couperet, che è semplicemente la mannaia. La mannaia che cade spietatamente su chi lavora in un’azienda quando qualcuno decide la ristrutturazione, che significa mandar via più gente possibile. Bruno Davert, chimico cartaceo, molto qualificato, apprezzato, apparentemente al sicuro, si trova dunque senza lavoro. Quarantenne, tenore di vita alto, villetta, cambio biennale di macchina, famiglia felice.Bruno ritiene che si tratti di un intervallo quasi propizio, si guarderà intorno, riposerà, sarà riassunto da un’altra parte. Ma dopo tre anni è ancora disoccupato. E disperato.
Sagacemente romanzata da Franco Solinas, è la storia vera di Anthony Mitrione (Philip M. Santore nel film), agente della CIA con copertura umanitaria, sequestrato dai Tupamaros nell’Uruguay del 1970. Spettacolare, efficace, ma con un certo rigore ideologico. Dopo la Grecia dei colonnelli e le purghe staliniane in Cecoslovacchia, Costa-Gavras mette sotto accusa le ingerenze degli Stati Uniti nella politica sudamericana. C’è un Montand intenso, nonostante sia impiegato in un ruolo negativo. Girato in Cile (di Allende). Palma d’oro a Cannes ex aequo con Yol di Güney.
Uno studente in viaggio su un treno trova un cadavere e, nonostante l’assassino elimini i testimoni del suo misfatto, riesce a smascherare lui e i suoi complici.
Una agente dell’FBI viene inviata sotto falsa identità in una comunità agricola del Colorado per indagare sull’assassinio di un giornalista radiofonico ebreo. Uno dei sospettati è un reduce dal Vietnam, vedovo, padre di due bambini, rispettabile. E se ne innamora. Non è il primo film sul Ku Klux Klan e sulla destra fascista americana, ma l’ottica è abbastanza nuova: il razzismo come malattia dell’anima, le radici della violenza e dell’intolleranza nella gente comune. Basato su una sceneggiatura di Joe Eszterhas, è di notevole respiro nella 1ª parte, esonda poi nei dilemmi individuali che nemmeno la sobria regia riesce a controllare. Illuminato dalla presenza dell’intensa D. Winger.
L’ex colonnello Duplan viene assassinato a Parigi. La polizia e l’esercito, nella persona del tenente Galois, collaborano all’indagine. Il giovane tenente riceve ogni giorno dall’assassino le pagine di un diario che un altro giovane tenente, Guy Rossi, ha redatto durante la Guerra di Indipendenza algerina. Rossi, caduto misteriosamente in Algeria, era un avvocato e un ufficiale volontario sotto il comando del colonnello Duplan. Attraverso le pagine, Galois ricostruisce il profilo di Rossi, illuminato e sensibile, e la sua evoluzione nell’esercito dove rimase soggiogato dal carisma del suo superiore. Da avvocato umanista si trasformò nel consigliere giuridico del suo colonnello, applicando la pena di morte o la tortura pur di mantenere l’ordine. I dubbi che lo colsero non gli vennero condonati dall’esercito. Qualcuno è tornato per chiedere giustizia di quella morte e degli orrori commessi in Algeria. Realizzato da Laurent Herbiet e sceneggiato da Costa-Gavras, Mon Colonel è un omaggio esplicito a La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. Se il suo capolavoro, potente e moderno, resta un riferimento e un esempio inarrivabile di denuncia contro l’occupazione coloniale e la negazione dell’altro, il film di Herbiet prosegue l’impegno cinematografico e politico di quella “battaglia”. La narrazione si sviluppa su due piani temporali interpolati tra loro: il presente, l’omicidio del colonnello Duplan e l’indagine condotta dal Ministero della Difesa, e il passato, un giovane ufficiale al servizio di un colonnello e di un popolo, quello francese, che ritiene l’occupazione un proprio diritto. Dopo una gestazione lunga sette anni, il regista e la produzione hanno ottenuto il permesso di girare nei luoghi raccontati e hanno finalmente potuto contare sulla sensibilità ritrovata di finanziatori francesi. Il valore del film di Herbiet, bianco e nero nel passato, a colori nel presente, va oltre l’obiettivo raccontato, le azioni e i metodi contenuti nella storia rimangono gli stessi indipendentemente dal luogo e dall’epoca. In questo senso Mon Colonel, frequentando criticamente il passato, denuncia gli abusi commessi nel presente. Al di là dei rapporti che il film porterebbe a stabilire con la guerra in Iraq e le presunte guerre di liberazione, l’opera di Herbiet informa e ammonisce sui pericoli che derivano dalla mancata distinzione tra potere militare e potere civile. Tre stelle al valore civile, una all’assassino che “canta”.
Nella Francia occupata viene ucciso un giovane tedesco. I collaborazionisti del generale Pétain per prevenire eventuali rappresaglie da parte tedesca istituiscono un Tribunale Speciale con il compito di processare sbrigativamente un certo numero di detenuti scomodi.
Dai cinque atti di Il vicario (1963) di Rolf Hochhut, che Carlo Bo definì un dramma cristiano, adattato da Jean-Claude Grunberg col regista. È un film sull’indifferenza che non accusa soltanto il silenzio, la sordità, la smodata prudenza di papa Pio XII e delle alte gerarchie ecclesiastiche (cattoliche e non) sulla Shoah, ma anche l’omertà, il disinteresse, l’ipocrisia diplomatica dei potenti della comunità internazionale. Affida a due uomini isolati – il protestante evangelico Kurt Gerstein, chimico e ufficiale delle SS, realmente esistito, e Riccardo Fontana, gesuita italiano con aderenze in Vaticano, figura di fantasia – l’impossibile compito di avvertire il mondo e fermare l’industria della morte. Sbrigato da 9 critici su 10 per i suoi limiti e i presunti difetti, possiede molti pregi: etica di fondo inseparabile dall’estetica, ritmo alacre, austera concisione. La sua moralità sta nel levare, raffreddare, rinunciare all’oscenità di una rappresentazione diretta dei modi con cui lo sterminio di milioni di ebrei fu realizzato. Non previsto in sceneggiatura, il Leitmotiv dei treni vuoti o chiusi e piombati è una straordinaria invenzione registica che trasforma in tragedia un thriller. A differenza di altri film sulla Shoah, è la storia di una sconfitta, quella di Gerstein e Fontana, che contrappone dialetticamente la responsabilità delle istituzioni alla capacità di individui che tentarono di inceppare, se non fermare, la macchina della morte. Interni vaticani girati nel palazzo di Ceausescu a Bucarest.
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