
Regia di Brady Corbet. Un film Da vedere 2024 con Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Raffey Cassidy. Cast completo Genere Drammatico, – Gran Bretagna, 2024, durata 215 minuti. Uscita cinema giovedì 6 febbraio 2025 distribuito da Universal Pictures. Oggi tra i film al cinema in 119 sale cinematografiche – MYmonetro 3,69 su 32 recensioni tra critica, pubblico e dizionari.
Tre decenni di vita dell’architetto ebreo László Tóth, emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947, dopo essere stato detenuto nei campi di concentramento tedeschi. Gli inizi in America sono difficili, per le necessità economiche e l’impossibilità di poter portare con sé la moglie Erzsébet e la nipote Zsofia, ma grazie al cugino Attila, a László viene commissionata la ristrutturazione di una libreria dal milionario mecenate Harrison Lee Van Buren. Il lavoro di Tóth porta prestigio a Van Buren, che decide di affidargli un progetto mastodontico: la costruzione di un centro culturale e luogo di aggregazione, destinato a ospitare nello stesso edificio biblioteca pubblica, palestra e cappella. Durante il lavoro Tóth incontra molte difficoltà, per le diffidenze verso gli stranieri e per i continui tentativi di alterare il suo progetto originario, ma pur di difendere strenuamente il suo lavoro, arriva a investirvi parte dei propri profitti.
Girato in 70mm per 215 minuti di durata (con un intervallo di un quarto d’ora), The Brutalist è un’opera-monstre per proporzioni e ambizioni, che ha richiesto dieci anni di lavorazione prima di essere portata a termine dal suo autore, Brady Corbet (Vox Lux).
Un inizio frenetico ci introduce ai personaggi principali, riassumendo quanto avvenuto in Ungheria durante e dopo la Seconda guerra mondiale, per lasciare poi spazio a un rallentamento del ritmo e dello svolgimento cronologico della biografia di Tóth. Lo spettatore approfondisce la conoscenza del protagonista e comprende il suo rapporto di speranza e disillusione, amore e odio, con gi Stati Uniti d’America, luogo dell’accoglienza e terra degli uomini liberi secondo la vulgata e la retorica comune, ma tempio del profitto e dell’ipocrisia nella dolente realtà.
L’impatto con il continente rivela ben presto un retrogusto acre sotto l’illusione del luogo dove tutto è possibile: Corbet sembra prefigurarlo inquadrando solo con un’immagine ruotata di 90 gradi la Statua della Libertà, simbolo dell’accoglienza verso gli stranieri approdati a New York. In Van Buren, László sembra aver finalmente trovato il perfetto mecenate, un animo sensibile all’arte e disposto a lasciare la massima libertà creativa all’artista magiaro. Dopo aver creduto alla generosità e alle belle parole spese da Van Buren nei suoi confronti, però, Laszlo scoprirà il rovescio della medaglia: tra i due si instaura una dinamica ambigua e altalenante, che simboleggia la relazione tra Usa e Europa.
I primi ribadiscono con fierezza il proprio primato economico e di potere e la capacità di ricavare un plusvalore da ogni cosa, ma lottano contro un atavico complesso di inferiorità culturale verso la vecchia Europa (e in particolare quella giudaica e mitteleuropea che farà fiorire tutte le arti statuintensi, a partire dal cinema). La dinamica di potere e di abuso, personale e professionale, che si instaura tra i Van Buren e i Tóth si nutre di queste tensioni insopprimibili, canalizzandole attraverso un progetto architettonico irrealizzabile e per lungo tempo irrealizzato, che diventerà quintessenza dello stile dell’ungherese. Lo spettatore scopre solo grazie all’epilogo molte ragioni, politiche e personali, delle fissazioni dell’architetto, punti fermi su cui Tóth non è disposto a scendere a compromessi.
La rivoluzione del Bauhaus e il cemento del brutalismo si impongono, come in una rivoluzione copernicana, anche in Usa, sostituendo materiali più costosi e rimuovendo l’intermediazione del ricorso al simbolico. Lo stile brutalista rappresenta la realtà nuda, per come è, senza intermediazioni né ricorsi al simbolico. Questo non impedisce di anelare verso il misticismo dell’assoluto, ma al contempo ricorda sempre di cosa siamo fatti e quali limiti e tragici errori – come l’aberrazione dei campi di concentramento, che influenza direttamente lil capolavoro di Tóth – caratterizzano il percorso dell’uomo.
Tra le molte sottotrame, una parentesi girata a Carrara e in parte in lingua italiana, e l’entusiasmo della comunità ebraica della Pennsylvania per la nascita dello Stato di Israele, dove approderà Zsofia. Quella di Israele si prefigura come una nuova Terra Promessa, come già era stata l’America per i migranti mitteleuropei: ancora una volta illusoria e deludente rispetto alle aspettative, nel suo lascito per la posterità. Notevole il cast, guidato da un Adrien Brody che torna ai fasti che gli permisero di vincere un Oscar ai tempi di Il pianista.

