Claudia e Flavio si sono contrastati come docenti universitari ma anche amati intensamente. Ora la storia è finita anche se Claudia non vorrebbe che fosse così conservando con determinazione la speranza che si possa ricominciare. Intanto lui viene attratto da una donna più giovane e lei prova interesse per una sua ex studentessa.
Presentato (e vincente) nella sezione “panorama” del Festival del Cinema di Berlino, Mi piace lavorare nasce come progetto povero ed essenziale. Una sola attrice di rilievo, molti interpreti non professionisti, il circolo di parenti e amici della regista che si adoperano per la riuscita di una pellicola, che di fatto, è una delle migliori opere sociali degli ultimi anni e che squarcia il velo su uno dei più grandi problemi che affligge il moderno mercato del lavoro:il mobbing. I tempi de La classe operaia va in paradiso sono finiti, oggi è tempo di fusioni, budget, tuning: lo scenario scelto dalla Comencini è assolutamente asettico: un’azienda anonima, di cui non si conosce l’attività, il fatturato, lo scopo. Quella nella quale chiunque potrebbe lavorare e che, a causa di una fusione, vede il management radicalmente cambiato. Spesso le vittime non conoscono nemmeno il nome dei propri carnefici, il concetto di padrone viene sostituito da una sorta di grande fratello che controlla, dispone, organizza, muove uomini e donne a suo piacimento sullo scacchiere operativo alla ricerca del miglior profitto. È la giusta legge del libero mercato e vivaddio che sia così, ma, a volte, forse troppe volte, il meccanismo s’inceppa e quando questo succede le conseguenze sono gravissime e coinvolgono non solo il diretto interessato ma familiari, amici, parenti, amici. Nelle vene dei Comencini scorre il cinema:ciò si palesa non solo apprezzando il piglio asciutto e sicuro che la madre (forse pensando ai lavori del nonno) utilizza nel corso della storia, ma anche nella straordinaria performance della figlia che recita accanto alla Braschi con una naturalezza e convinzione che lasciano stupefatti. La discesa agli inferi della bravissima signora Benigni è raccontata senza enfasi, né scene madri: giorno dopo giorno, alla inconsapevole contabile vengono tolte dignità e speranze, tramite un continuo, spossante, cambiamento di mansioni e piccole meschinità che minano l’autostima di quella che appare agli spettatori una vera e propria vittima sacrificale, carne da macello da immolare al Dio della competitività (mirabile in questo senso il discorso iniziale del nuovo amministratore delegato della società, così ricco di parole e povero di contenuti). Perfetta la performance della Braschi, sempre sul punto di cedere, ma pronta, alla fine, ad alzare la testa e reagire, dopo l’ultimo, inaccettabile sopruso. Lo squallore degli uffici, delle mense, del trantran quotidiano di chi non “viaggia in prima” è testimoniato con un’aderenza al reale molto inquietante. Bella la prova degli attori non professionisti ed geniale, nella sua grottesca messa in scena, la sequenza del colloquio della protagonista con l’amministratore delegato dell’azienda. Anche il film ha le sue pecche: il finale, nel suo voler essere consolatorio e pregno di speranza, è troppo ottimistico e ben poco aderente ad una realtà che spesso è ben diversa da quella indicata nel film, ma, nonostante questo, e alcune pecche stilistiche nella rappresentazione della storia (invero un po’ troppo manichea nel dividere buoni e cattivi), Mi piace lavorare vale più di qualsiasi manifestazione, corteo o indagine giornalistico/televisiva. C’è solo da sperare che un pubblico abituato a cercare nel mezzo cinematografico evasione e divertimento, non sia impaurito dalla cruda rappresentazione della realtà di tutti i giorni…
6° film, e il più riuscito, di una regista che dal 1995 ha diretto anche 6 documentari. È la storia di un’attesa. A 42 anni Maria vive a Napoli, insegna italiano in una scuola serale per adulti. È una donna autonoma, energica, spigolosa, che decide tutto da sola. Si trova incinta, senza volerlo, di un uomo che prende il largo, e al 6° mese ha un parto prematuro. La piccola è messa in incubatrice e Maria, da sola, aspetta che nasca o muoia. Dal romanzo (2008) di Valeria Parrella, prodotto da Fandango con Rai Cinema, adattato con Federica Pontremoli, è uscito un film intenso e originale sul tema della maternità, vario nell’azione e negli ambienti (il reparto di terapia intensiva; la scuola, mobile e precaria; lo sfondo contraddittorio di Napoli che riflette quello nazionale), ricco di figure di contorno e di lucidi agganci con la società. Prende, emoziona, inquieta, sconcerta e fa aspettare anche lo spettatore. È realistico ma anche visionario e corre via, leggero, storia di una solitudine che si apre agli altri. La Buy non è solo di una bravura interpretativa superiore a ogni elogio. Deve anche esserci stato, tra lei e la regista, un lavoro di fertile collaborazione che sfiora la simbiosi. Montaggio: Massimo Fiocchi. Scene: Paola Comencini. Fotografia: Luca Bigazzi.
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