Condannata all’ergastolo, con trent’anni in un carcere di massima sicurezza, una ragazza accetta di entrare in un centro di addestramento per diventare un sicario agli ordini dei servizi segreti francesi. Besson fa un film nero in tutti i sensi dimostrando di saper combinare l’efficienza di un regista hollywoodiano nelle scene d’azione con la sottigliezza di un regista europeo. La Parillaud recita con tutto il corpo su ampio registro. La Moreau appare in 2 brevi scene e lascia il segno. Rifatto a Hollywood con Nome in codice: Nina (1993) e divenuto in seguito una fortunata serie TV.
Léon è un killer, un sicario a pagamento della peggior specie, introvabile e indistruttibile, fin quando un topolino penetra nel suo universo: un topo piccolo con gli occhi immensi della dodicenne Matilde. A parte Reno, per il quale il film è stato scritto su misura, la piccola Portman è la rivelazione del film. È la bizzarra, perversa e onesta storia d’amore tra una dodicenne e un sicario. Amore senza sesso. Lui, l’adulto bambino, la istruisce a uccidere; lei, la bambina adulta, gli insegna a vivere. Besson è un manierista, ma sa prendere i suoi rischi: il suo è un cinema d’azione che non esclude, però, né una strenua attenzione alla psicologia né la cura puntigliosa dei personaggi. Notevoli Oldman e Aiello.
La storia vera di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace 1991 e ‘orchidea d’acciaio’ del movimento per la democrazia in Myanmar. Dopo l’assassinio del padre, il generale Aung San, leader della lotta indipendentista birmana, Suu cresce in Inghilterra e sposa il professore universitario Michael Aris. Quando nel 1988 il suo popolo insorge contro la giunta militare, Suu torna nel paese natale e inizia il suo lungo scontro diretto contro il potere assoluto dei generali. La figura di Aung San Suu Kyi, paladina dei diritti democratici che per la libertà del suo paese e del suo popolo ha per oltre vent’anni sacrificato la propria libertà personale e gli affetti familiari è di certo una delle più toccanti e ammirevoli fonti d’ispirazione politica e umana degli ultimi decenni. È comprensibile quindi che The Lady fosse tanto per la scrittrice Rebecca Frayn che per il regista Luc Besson e, soprattutto, per la sua interprete Michelle Yeoh un vero e proprio progetto del cuore. Onde rendere più vicina allo spettatore una figura complessa che ha attraversato fasi tumultuose della Storia di un paese di cui i più davvero poco sanno, Frayn e Besson hanno scelto la via della divulgazione, presentando il contesto storico e politico in maniera essenziale (la principale riflessione sulla Storia del Myanmar è racchiusa nel racconto di sapore quasi favolistico che Aung San fa alla figlia, e che funge da prologo del film), e di far leva sul dramma umano della protagonista. Dopo il ritorno a Yangon nel 1988, Aung San Suu Kyi ha difatti potuto rivedere il marito solo cinque volte, a causa di visti negati al consorte e della sua impossibilità di tornare in Gran Bretagna (una volta lasciato il suolo birmano non le sarebbe più permesso il ritorno), cosa che le ha impedito di vedere i figli crescere e di assistere Aris durante la malattia che l’ha condotto alla morte nel 1999. Un’impostazione che inscrive la drammaturgia di The Lady nelle convenzioni del melodramma e che, a conti fatti, rischia di sminuire l’aspetto politico della battaglia di Aung San Suu Kyi. Sul fronte della resa formale, Besson rischia poco ed emoziona solo a sprazzi – ossia quando le situazioni tendono all’action (l’assassinio di Aung San, il primo blocco di Suu agli arresti domiciliari dopo la vittoria alle elezioni). Michelle Yeoh, dal canto suo, si spende nella sua migliore interpretazione (assai riuscita nella mimesi del contegno e della postura di Aung San Suu Kyi), anche se si ha l’impressione che il gigione David Thewlis (nel ruolo di Aris) sovente le rubi la scena.
Un film è un atto d’amore. Un film sulla città nella quale si è nati e si è vissuti, è un duplice atto d’amore, ai limiti dell’assoluto. Unire cinema e vita ha dei precedenti illustri, da Manhattan di Woody Allen a Il cielo sopra Berlino di Wenders, alla New York che pervade e invade tutti la cinematografia di Spike Lee. Angel-A di Luc Besson è il personale tributo che il regista dedica alla propria città, Parigi. Sulle orme del cinema francese, in un bianco e nero che passa dal colore desaturato, allo “sporco” di Vigo (si cita anche la fotografia di Doisneau), Besson racconta la “Ville lumière” facendo passeggiare i personaggi per tutti i luoghi di culto che raffigurano la capitale francese nell’immaginario di chi la vive o l’ha vista almeno una volta. Andrè è un magrebino che deve soldi a mezza Parigi. Preso dallo sconforto pensa di suicidarsi buttandosi da un ponte, ma qualcun altro ha avuto la sua medesima idea. È Angela, bellissima ragazza, che viene salvata dalle acque nell’unico atto di coraggio compiuto da Andrè nella propria vita. Per sdebitarsi la fanciulla gli offre di essere la sua compagna di avventure, il suo “angelo custode”, per salvarlo dal baratro.
Ladro di documenti compromettenti, cercato dalla polizia e braccato da dei sicari, innamorato di Helena (Adjani), bella e sposata, Fred (Lambert) si rinchiude nella metropolitana (subway) di Parigi e le fa scoprire la pittoresca fauna che vi abita. Opus n. 2 del 25enne Besson è, come Diva di Beineix, un film manierista, cocktail superalcolico di postmoderna cultura audiovisiva. Pieno di difetti, ma energico, insolente, ricco di figure e di invenzioni colorite, con un piede nel cinema e l’altro nel fumetto alla Frigidaire . 3 premi Caesar: Lambert attore, scenografia dell’80enne Alexander Trauner, musica di Eric Serra che compare come bassista dello squinternato gruppo rock. In modi nuovi continua la tradizione francese del fantastico sociale.
Nella Parigi devastata da una catastrofe nucleare e in mano a bande di disperati violenti, un uomo si aggira, solo, sconfigge un cattivo, non riesce a salvare l’unica donna rimasta, riparte. Molta azione, ma una vicenda ridotta all’osso in questo esordio del 23enne Besson. Più che una metafora, è un esercizio di stile ma, in questo suo limite, c’è una forza narrativa ammirevole e la capacità di renderla per immagini, arricchendola di piccole invenzioni, di notazioni incisive, di sapienti ellissi, di materiale plastico. Pochi personaggi, non una parola di dialogo, suggestiva colonna musicale di Eric Serra.
Due ragazzi, Jacques e Enzo, che hanno la stessa passione: l’immersione subacquea. Anche il padre di Jacques partecipa alle loro immersioni finché un giorno non riemerge più. A vent’anni di distanza il figlio ha ancora nel sangue quella morte… Non va detto molto di più di un film culto in Francia, datato 1988 con uscita in Italia targata 2002 dopo che è finalmente finita l’annosa querelle che oppose il campione italiano di immersione in apnea Enzo Majorca alla produzione. Majorca si era riconosciuto nel personaggio di Enzo e non aveva apprezzato alcuni passaggi ritenuti offensivi. Solo dopo il suicidio nel 2001 di un altro grande campione, Jacques Mayol, la causa si è ricomposta con l’accettazione da parte di Besson del taglio di alcune scene. Un film da vedere anche perché consente di fare un salto indietro nella filmografia di due grandi attori come Jean Reno e Jean-Marc Barré.
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