Pierre è un giovane sereno e pieno di entusiasmo, Sara esce invece da una delusione amorosa e da un tentativo di suicidio. Tra i due nasce l’amore ma la ragazza, timorosa di perdere ancora una volta la felicità, per avere Pierre tutto per sé non trova di meglio che accecarlo.
Tre racconti di illustri autori – Maupassant ( Il telefono), Tolstoj ( I Wurdulak) e Cechov ( La goccia d’acqua) – ridotti per lo schermo, e trasformati in tre vicende dell’orrore.
La vita di una cittadina russa alla vigilia della grande guerra e della rivoluzione del 1917, descritta con molta semplicità e in modo assolutamente privo di magniloquenza e retorica. Due fratelli partono per il fronte, il primo coscritto e il secondo volontario. Conosceranno le atrocità della guerra, vivranno la disillusione e infine prenderanno coscienza sotto la spinta della rivoluzione d’ottobre. Film corale dove si sente il respiro della storia e il palpito dei grandi paesaggi affrescati con intenso lirismo. Nella coralità della storia che sfiora e cambia i destini individuali si sente il grande insegnamento di Tolstoj. Il regista mostra una grandissima capacità di descrivere la stratificazione sociale della popolazione russa. Alla sua uscita il film fu avversato dalla critica ufficiale, probabilmente per la mancanza di realismo e per l’adesione acritica nei confronti degli avvenimenti descritti.
Vita misera, imprese criminali e morte di alcuni ragazzi in un quartiere povero di Città del Messico. 3° film messicano di Buñuel e quello che, presentato e premiato a Cannes nel 1951, rilanciò la sua fama in Europa. Fu definito dal suo autore “film di lotta sociale”. A questo crudele e malinconico “poema d’amore sulla mancanza d’amore” (M. Argentieri) il francese Jacques Prévert dedicò questi versi: “Los olvidados/ragazzi affettuosi e male amati/assassini adolescenti/assassinati…”. “Un’opera precisa come un meccanismo, allucinante come un sogno, implacabile come la marcia silenziosa della lava” (Octavio Paz). Fotografia di G. Figueroa.
Nella camera di un hotel un uomo gioca simbolicamente con sé stesso, con gli oggetti e le forme evanescenti che lo circondano fino a formulare quel che è radicato nel suo subconscio, l’identità uomo-donna. Basato su un testo dello stesso Bene, può essere considerato come il manifesto della sua poetica. Il nucleo centrale è l’ossessiva presenza della madre come unica immagine femminile, desiderio di un’identificazione, bisogno di un ritorno all’essere che dà la vita, per ricostituire un’identità originaria, ricomporre la propria esistenza dimezzata (gusto del trasformismo, necessità del travestimento, bisogno del narcisismo). Scrittura barocca, recupero del floreale, ricorso al melodramma e all’enfasi recitativa, usati in modo dissacrante e ironico. Fotografia: Giulio Albonico. Musiche: Vittorio Gelmetti, Giuseppe Verdi.
Ricordi, visioni, ossessioni di un intellettuale pugliese (Bene, nato a Campi, Lecce, nel 1937) di estrazione cattolica e piccoloborghese, di cultura decadentistica con inclinazioni verdiane. Si mette in scena, e in immagini, con una forte carica di ironia e autoironia, un farneticante furore barocco, uno sregolato umorismo irridente ora divertente ora allarmante. Il punto di fusione di questi eterogenei momenti è l’atteggiamento di ricerca di un assoluto che sa irraggiungibile. Tratto da un suo antiromanzo (1966), è il 1° dei 7 film realizzati da Bene nel periodo 1968-73. Interventi vocali di Ruggero Ruggeri (“Il trionfo di Bacco e Arianna”), Arnoldo Foà (“Il lamento” di Lorca), Indro Montanelli (dichiarazioni sul Generale della Rovere ). Impermeabile a ogni tentativo di interpretazione logica e razionale: “È tutto quel che vi piacerà” (C. Bene).
Dal romanzo Guerra e pace (1863-69) di Lev N. Tolstoj, diviso in 2 parti di 128 e 135 minuti. 1ª parte: Mosca 1805. Tra una folla mondana dedita a intrighi, emergono alcuni personaggi inquieti: il goffo e sensibile Pëtr Bezukov, appena tornato dall’estero; il suo sarcastico amico, principe Andrej Bolkonskij, orgoglioso aiutante di campo del generale Kutuzov, già deluso dal suo matrimonio con Lisa; e la gaia, appassionata, giovanissima Nataša Rostov. 2ª parte (uscita col titolo L’incendio di Mosca ): Russia 1912. L’invasione napoleonica, la battaglia di Borodino, la morte di Andrej, assistito da Nataša, l’incendio di Mosca. È probabilmente il più costoso dei megafilm in costume del cinema sovietico. L’edizione originale, divisa in 4 parti, messa in onda in televisione, durava 8 ore. Puntigliosa ricostruzione ambientale, di maestosa magniloquenza le scene di massa, attori efficaci, perfetta sintonia tra il Tolstoj illustrato con accademismo verniciato e la propaganda poststaliniana. Guerra e pace fu portato sullo schermo in Russia durante il periodo del muto nel 1912 e con 3 film del 1915. Seguì nel 1955 l’edizione italiana diretta da K. Vidor.
Atto I: in una fattoria dell’Emilia crescono insieme Olmo, figlio di contadini, e Alfredo, erede del padrone, nati nello stesso giorno del 1900. Dopo i primi scioperi nei campi e la guerra 1915-18, il fascismo agrario dà una mano ai padroni. I due giovani si sposano. Atto II: negli anni ’30 le strade di Olmo e Alfredo si separano. Il primo, vedovo, fa il norcino e continua la lotta; il secondo si rinchiude nel privato. Il 25 aprile 1945 si processano i padroni, e i due si ricongiungono. Fondato sulla dialettica dei contrari: è un film sulla lotta di classe in chiave antipadronale finanziato con dollari americani; cerca di fondere il cinema classico americano con il realismo socialista sovietico (più un risvolto finale da film-balletto cinese); è un melodramma politico in bilico tra Marx e Freud che attinge a Verdi, al romanzo dell’Ottocento, al mélo hollywoodiano degli anni ’50. Senza evitare i rischi della ridondanza, Bertolucci gioca le sue carte sui due versanti del racconto.
“Sede vacante!”, annuncia il cardinale statunitense Tremblay: il che significa che il pontefice è spirato, e che un conclave dovrà riunirsi a breve per decidere chi dovrà succedergli. A capo della votazione c’è il Decano britannico Thomas Lawrence, incaricato di verificare che tutto si svolga in piena correttezza, e di arginare le ambizioni rampanti dei cardinali candidati. Fra questi ci sono due italiani, il progressista Aldo Bellini e l’ultraconservatore Goffredo Tedesco, il cardinale africano Joshua Adeneya, ovviamente Joe Tremblay, e persino un cardinale latinoamericano, Vincent Benitez, ordinato in pectore dal Papa in persona mentre era di stanza a Kabul, dopo aver servito nelle zone di battaglia di Congo e Iraq. Per i corridoi del Vaticano si aggira infine suor Agnes, che conosce molti segreti ed è parecchio arrabbiata nei confronti di quell’universo maschile che emargina da sempre lei e le sue consorelle.
La storia è ambientata in una comunità chassidica ortodossa di Tel Aviv. La 18enne Shira sta per sposare un giovane scelto dalla famiglia, come impongono le regole che lei ha accettato. Sua sorella muore nel partorire il primo figlio. A suo marito Yohai si propone di sposare una vedova belga. Nel timore che il genero se ne vada con il nipotino, la madre delle ragazze gli suggerisce di sposare Shira chiedendo la rinuncia dei sentimenti in favore dei doveri verso la famiglia. Scritto e diretto dall’esordiente Burshtein, il film dà spazio con apparente lentezza a questa dicotomia tra razionalità e sentimenti istintivi. Nella descrizione di questa comunità chiusa, fondata sul patriarcato, dove però le donne (le madri) hanno un ruolo decisionale, la regista pratica la sospensione del giudizio con una scrittura quasi documentaristica sui rituali e le liturgie che diventano uno specchio, spesso deformante, della psicologia di Shira: “la devozione dolorosa a una tradizione non riguarda solo il futuro della protagonista, ma quello di un popolo alla perenne ricerca di equilibrio” (F. Pedroni). Alla mostra di Venezia 2012 la Yaron vinse la Coppa Volpi per la migliore attrice
I subita sono tradotti dai subeng con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Dopo 17 anni sull’Isola del Diavolo (Guyana Francese), vittima di un complotto, il banchiere Paul Lavond evade con un altro detenuto che, prima di morire, gli rivela il segreto per miniaturizzare esseri viventi. Tornato a Parigi, travestito da vecchia signora (un grande Barrymore), apre un negozio di giocattoli e si serve delle sue miniature viventi in vendita per vendicarsi. Penultimo e geniale film di Browning che l’ha scritto con 3 altri sceneggiatori (tra cui Erich von Stroheim) dal romanzo Burn Witch Burn di A.A. Merritt. Dopo Freaks (1932), anch’esso prodotto dalla M-G-M, fu ammirato soprattutto per il sagace uso dei trucchi ottici, la suggestiva atmosfera (fotografia: Leonard Smith), il gusto del grottesco e della suspense. Ridistribuito in Francia nel 2009, risulta uno dei più originali film hollywoodiani di vendetta anche per la complessa e inquietante partitura narrativa, non priva di ambiguità erotica come mostrano i rapporti del protagonista (sempre travestito) con la figlia che lo riteneva corresponsabile del suicidio di sua madre.
California 1963. Due delinquenti catturano una coppia di poliziotti e ne uccidono uno. L’altro riesce a fuggire, ma per molti anni sarà ossessionato dal ricordo di quel tragico episodio. Dramma poliziesco insolitamente intenso nel suo realismo sociale senza facili effetti. Sceneggiato da Joseph Wambaugh, autore del romanzo.
Il film racconta, con qualche mutamento e inserendovi la storia di un giornalista, il famoso affare Ben Barka. Questo leader marocchino fu consegnato dai servizi segreti francesi e americani al suo nemico Oufkir, ministro degli interni del Marocco.
Un film di Jacques Becker. Con Jean Gabin, Delia Scala, Lino Ventura, Vittorio Sanipoli, Jeanne Moreau. Titolo originale Touchez pas au grisbi. Drammatico, b/n durata 94′ min. – Francia 1954. MYMONETRO Grisbi valutazione media: 3,67 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Due gangster, vecchi amici, vogliono chiudere la carriera con un grosso colpo. Una ragazza rivela a un rivale il progetto. Raro film nero dove il ritmo spedito dell’azione coabita con la finezza dell’analisi psicologica. Un’elegia sull’amicizia virile nel mondo della malavita. Da un romanzo (1953) di Albert Simonin. Becker filma con grande discrezione senza concessioni allo spettacolo né dialoghi brillanti. La musica di Jean Wiener contribuisce all’atmosfera.
Peter Von Kleist discende da un crudele e sadico barone vissuto nel XVII secolo. Incuriosito dalle sue origini e in possesso di una magica pergamena si reca in visita a Norimberga, ospite dello zio. Qui conosce una studentessa che lo aiuta ad entrare nel castello dell’avo per pronunciare la formula scritta sulla pergamena. Ma non fanno altro che risvegliare lo spirito del barone Von Kleist che ricomincia ad uccidere. Sarà solo la comparsa di una misteriosa bambina a dar loro la possibilità di salvarsi e rispedire il sanguinario nell’oltretomba. In questo film tutta la grandezza di un regista che ha saputo dare una svolta all’horror tricolore, Mario Bava è il maestro del genere. Riesce abilmente a coniugare storia e ambientazioni, infatti il castello del titolo non è solo una location ma soprattutto uno dei protagonisti della pellicola, per non dire il migliore. Il film è una continua fuga verso la speranza di non essere uccisi, lungo tetri corridoi e polverose segrete. E come in ogni horror che si rispetti la soluzione è sempre nelle mani di un innocente.
Giovanni Pallidissimi, attore di cinema, torna dopo molti anni in famiglia a Bologna dove il fratello gemello è morto suicida e ha tormentati rapporti con la madre e con Wanda, fidanzata del fratello, entrambi risolti in modo positivo. Scritto con l’apporto di Vincenzo Cerami, l’8° lungometraggio narrativo di Bellocchio ha per temi centrali la separazione dal passato (cioè la crescita e i suoi costi affettivi) e il bisogno di chiudere conti rimasti aperti. Dopo una prima mezz’ora senza una grinza, rivela frizioni e dissonanze quando l’autobiografismo dell’autore s’intreccia con quello dell’attore, ma vanta anche un grande momento di cinema nella scena finale tra Giovanni e la madre. Angoscioso e tenero, può essere visto come la 2ª parte di un’ideale trilogia, aperta da I pugni in tasca (1965) e chiusa con L’ora di religione (2001). Castel doppiato da Sergio Castellitto.
Sembra che fosse proprio Bonnard, attore e regista, a ispirare una delle più famose macchiette di Ettore Petrolini (“Ogni cuor si accende e arde, perché ci ho gli occhioni belli, le basette a la Bonnard…”). Toccava a lui di dirigere questo film, e a Sordi di interpretarlo, bravissimo nel far sentire l’amaro sotto il fatuo. Con qualche sforzo in più questa commedia che diverte e tira al patetico senza mezze misure poteva essere un’efficace satira di costume degli anni ’20. Petroliniano a metà. Nastro d’argento 1961 per i costumi (Maria De Matteis).
Parigi, 1944: due amici studenti sono alle prime armi con esperienze sentimentali e malavita. Con il traffico della borsa nera sono gratificati dai primi guadagni. Da lì a colpi grossi il passo è breve. Tratto da un romanzo di M. Aymé e sceneggiato da Aurenche e Bost, grazie anche a un’efficace scelta di attori (Delon, Brialy, Milo), è uno dei migliori film francesi sull’Occupazione, di una grazia acidula che qualche eccesso caricaturale non guasta.
Jean, servo di una famiglia aristocratica di campagna, ha avuto una notte di passione di mezza estate con la figlia dei padroni. I due hanno in programma di fuggire in Italia ma la signorina, proprio come aveva fatto con il precedente fidanzato, vorrebbe addomesticare Jean e renderlo come piace a lei. Le barriere di classe e la non volontà della donna di non lasciare la sua gabbia dorata saranno la causa di tragiche conseguenze.
La storia “narrativa” è appena accennata, addirittura poco importante: due uomini e una donna sono braccati dalla polizia a seguito del fallito tentativo di caricare della droga su di una nave. Fuggono in mezzo al deserto, uno non ce la fa. La donna cerca ospitalità presso un villaggio. Poi protezione dal suo compagno di fuga. Fino al mare, comune punto d’arrivo. Ma al di là della trama ci sono storie interiori, quelle che lo spettatore deve (meglio, può) costruire a partire dai volti e dai corpi dei tre pellegrini in questo deserto così quotidiano, conosciuto e amico. C’è poi la storia universale, quella dell’esistenza. Che viene raccontata da ogni granello di sabbia, onda del mare, frammento di cielo, raggio di sole, ombra, persino dai rettili e dallo sguardo di un granchio in primo piano. Tarkovskji e dintorni? Forse. Ma questo 36enne lituano, Sharunas Bartas, aggiunge al già visto la propria poesia interiore. Il proprio vissuto ed il “tramandato primordiale” che ciascun essere umano porta dentro il proprio DNA. Così che quando nel film le persone parlano, si tratta di suoni che comunicano per davvero.