Usa Anni ’70. Jack è un serial killer dall’intelligenza elevata che seguiamo nel corso di quelli che lui definisce come 5 incidenti. La storia viene letta dal suo punto di vista che ritiene che ogni omicidio debba essere un’opera d’arte conclusa in se stessa. Jack espone le sue teorie e racconta i suoi atti allo sconosciuto Verge il quale non si astiene dal commentarli.
Alcuni personaggi del mondo della musica (tra cui Woody) rispondono a domande su un grande chitarrista del passato: Emmet Ray. Sono concordi nel considerarlo il numero due assoluto superato solo dal genio di Django Reinhardt. Di ciò era consapevole anche Emmet e se lo vedeva rinfacciare da chi gli stava accanto e lo accusava di essere incapace di far emergere il suo io più interiore. Ma a lui più dei sentimenti interessava la musica. Fin quando un giorno incontrò Hattie, una giovane sordomuta, con la quale iniziò una relazione stabile anche se costellata di problemi dettati dall’incostanza di un musicista valido ma destinato a rimanere un eterno secondo.
È tornato Quentin. La lunga e snervante attesa è finalmente finita ed il “suo” quarto film (o meglio la prima parte del suo quarto film) scorre sullo schermo. Già dai titoli di testa, i fan si tranquillizzano: l’elenco dei personaggi in stile lista della spesa, il primo piano del volto tumefatto dell’attrice con uno sparo e relativa dissolvenza in nero ci dimostrano che “colui che era conosciuto come genio” (da molti), è tornato brillante come un tempo. Kill Bill è stancante, una piacevole fatica per lo spettatore che dovrebbe rivedere alcuni momenti in slowmotion o più volte per apprezzarli appieno. La struttura stessa del film, a episodi con continui flashback tra passato e presente disorienta e stordisce. Tarantino inonda letteralmente ogni scena di forma e contenuti: occhiali da sole disposti in ordinate file sul cruscotto d una macchina, aerei di plastica che volano su scene di cartapesta, tute gialle indossate da Bruce Lee, alluci mobili, occhi cerulei e tanto, tantissimo sangue. Kill Bill è un Helzapoppin. Ed il gusto per la battuta spiazzante, per l’umorismo cinico e beffardo è rimasta la stessa. Se Jackie Brown voleva essere un omaggio al Blaxploitation, Kill Bill è exploitation puro e semplice. Quentin si circonda di un team che sa il fatto suo e spende parecchio: il risultato si vede. Non un’inquadratura fuori posto, non un movimento di camera infelice.Kill Bill, formalmente si avvicina alla perfezione. Gli anni hanno permesso di affinare una già ottima tecnica. La brillantezza di Tarantino è palesemente dimostrata anche dall’attenzione che il regista-spettatore mostra verso le tendenze cinematografiche che hanno dimostrato maggiore dinamismo negli ultimi anni, in primis l’animazione. Vero e proprio film nel film, i venti minuti firmati I.G. Production, che raccontano la tragica infanzia di una delle future vittime della bionda protagonista, nella fattispecie la strabica Lucy Liu, killer della Yakuza, rappresentano una rara gemma di intensità emotiva e spessore drammaturgico. Le sequenze animate della casa nipponica, oltre ad essere un felicissimo esempio di contaminazione metacinamatografica, dimostrano inequivocabilmente la maturità raggiunta da un mezzo espressivo, troppo spesso bistrattato dal cinema “tradizionale”. Una grande differenza rispetto alle passate produzioni si nota nella gestione degli attori da parte del regista. Le precedenti opere erano quadri corali in cui era difficile trovare un personaggio smaccatamente preponderante rispetto agli altri (ed infatti clamore suscitò ai tempi la decisione dell’Academy di candidare all’Oscar come attore protagonista Travolta e non protagonista Samuel L. Jackson per Pulp fiction, visto che la presenza sullo schermo era pressoché identica per spessore e minutaggio), in Kill Bill la Thurman, splendida e affascinanante, è in ogni inquadratura, in ogni scena, occupa da sola l’intero schermo e storia. Tarantino ha fatto bene ad aspettarla (il film trova tra le numerose cause del ritardo accumulato, la inaspettata gravidanza dell’attrice all’inizio delle riprese): Kill Bill segna la sua migliore performance di sempre. In ogni caso la presenza di nomi storici del cinema di serie B (ma dove?) come Sonny Chiba e Gordon Liu, nobilità e da spessore e sostanza ad un cast invero un po’atipico e non perfettamente amalgamato (basta con Lucy Liu!!!) Straordinaria la colonna sonora che spazia da brani dance anni 70 a motivi tradizionali giapponesi, per finire in morbide ballate blues: il giro del mondo in una ventina di pezzi che vanno a comporre un quadro fecondo come quello che accompagnò Pulp Fiction dieci anni fa. Impossibile descrivere appieno il carico di significati alti e bassi che Kill Bill lascia alla libera interpretazione dello spettatore. Se è facile notare un collegamento tra il coma da cui si risveglia la protagonista ed il sonno creativo di Tarantino (entrambi hanno la stessa durata… 4 anni), più sottili sono i riferimenti estetici e filosofi ad una violenza che, pur brutale, assume connotati parodistici e cartooneschi. Purtroppo però, come e forse più di altri film del regista, Kill Bill soffre in maniera drammatica di un difetto di non poco conto. È troppo lungo, anzi, troppo tirato per le lunghe e la durata di certi segmenti del film, specie la battaglia che porta al primo regolamento di conti (che in questa prima parte del film è l’ultimo in ordine temporale) stanca attori e spettatori. Intendiamoci, le coreografie e l’impatto scenico dei duelli ridicolizzano per intensità ed ferocia le laccate evoluzioni di Matrix et similia ma dopo venti minuti, la misura è colma. Evidentemente in fase di totale autocompiacimento, Tarantino allunga, distorce, plagia situazioni che potrebbero e dovrebbero risolversi con maggiore velocità. Il difetto,evidente, non nuoce però alla valutazione globale del film che de facto è agli stessi, alti livelli di Pulp Fiction. In effetti un altro difetto ci sarebbe: il dover aspettare altri quattro mesi per vedere la fine delle avventure della vendicatrice più determinata della storia del cinema. Ma questa è un’altra storia… (Quasi) capolavoro.
Ogni inizio ha una fine. Stavolta si comincia dalle parti di John Ford, con un esplicito omaggio a Sentieri Selvaggi e si prosegue, con salti spazio temporali e metacinematografici per la via del noir anni ’50 e dell’actionmovie orientale dei mitici seventies fino a giungere (eh già) dalle parti di Fist of the North Star. Paura&panico. Ma Tarantino conosce la scuola di Okuto? Pare di sì. E non ce ne sorprendiamo. Formalmente Kill Bill vol.2 si mantiene sugli altissimi standard del primo tempo/episodio e alterna sapientemente fasi prettamente comiche, come l’allenamento di Uma Thurman con il maestro di arti marziali cantonese, durante il quale il regista delizia la platea con le famose carrellate avanti e indietro della telecamera, tipiche delle produzioni Shaw Brothers anni 70′, a momenti squisitamente drammatici come i ricordi, adagiati su un fondale bianco/nero/seppia della sposa promessa e oppressa dalla tragedia che l’ha colpita. Tutti coloro che avevano lamentato la mancanza di dialoghi brillanti nella prima parte del film saranno felici di sapere che lo “stile Tarantino” è stavolta pienamente soddisfatto e la lunga e delirante filippica che Bill fa alla sua killer preferita al termine della pellicola, va a mettersi a pieno merito sul podio occupato dal monologo di Samuel L. Jackson (qui presente in un cameo) in Pulp Fiction e della disquisizione del gruppo di iene sul significato di “Like a Virgin” in Reservoir Dogs. Indubbiamente uno dei valori aggiunti di Kill Bill 2 è proprio Bill ovvero quel David Carradine, per il quale il tempo sembra essersi fermato. Al suo posto volevano mettere Warren Beatty e ogni amante del cinema di qualità non può che ringraziare San Quentin per la scelta del bolso attore/regista (Beatty non Quentin eh!) di lasciare il posto al mito delle arti marziali, qui in forma smagliante, capace di rubare la scena alla sempre eccellente ed attraente Thurman. La sceneggiatura, specie nelle originalissime forme con le quali elimina i personaggi dalla storia, si attesta come una delle migliori mai scritte da Tarantino che si autocita in almeno una mezza dozzina di occasioni. L’amore per il cinema in tutte le sue forme è però il vero segno che qualunque spettatore può cogliere ad ogni inquadratura, in ogni fotogramma, un amore che permette a Quentin di firmare almeno due scene memorabili e commoventi che resteranno per sempre nella storia della settima arte: la “resurrezione” dalla sposa dalla sua tomba, con lo struggente sottofondo de “L’Arena” di Morricone ed il confronto, feroce e spietato, di quest’ultima con la risoluta e abbacinante Darryl Hannah che riscatta, in mezz’ora, dieci anni di performance dimenticabili. Kill Bill 2 è esagerato, sopra le righe, verboso ma mai noioso e andrebbe rivisto più e più volte per apprezzarne ogni dettaglio e sfumatura. L’opera di Tarantino, presa nella sua globalità, è monumentale e straordinaria. Qualcuno, non a torto, l’ha definita la prima grande epopea del nuovo secolo e noi non possiamo che essere d’accordo. Grazie Quentin, non ci hai deluso.
Francia fine ‘700: un po’ per gioco un po’ per vendetta, la marchesa di Merteuil macchina col visconte di Valmont un complicato intrigo di seduzione, amore e abbandono, intrigo che sfugge di mano a entrambi. 1° film hollywoodiano del britannico S. Frears che, nel raccontare in immagini il sulfureo romanzo (1782) di strategia erotica di Choderlos de Laclos, si è servito della riduzione teatrale (1986) del suo compatriota Christopher Hampton, autore anche della sceneggiatura, conservandone la struttura e l’atteggiamento di sogghignante sarcasmo verso la vicenda e i personaggi. Rispetto al romanzo, quel che perde in ambiguità, sottigliezza, complessità, il film guadagna in ritmo e in energia sebbene manchi l’aria del tempo: c’è il testo, non il contesto. Verso l’epilogo, quando il dolore artiglia i due abominevoli complici, Frears trova accenti nuovi e forti, con icastiche invenzioni. Una bella squadra di attori tra cui spiccano la trepida Madame de Tourvel di M. Pfeiffer, unico personaggio borghese della vicenda, la gestualità quasi buffonesca di Valmont di un J. Malkovich molto poco settecentesco e la sottile perversione che G. Close imprime alla marchesa. 3 Oscar: a Hampton, a Stuart Craig (scene) e per i costumi
Vince, spacciatore e pompiere volontario, attende nervosamente l’arrivo di Jon, un vecchio amico: i due sono a un festival di cinema, dove Jon, regista, presenta il suo film, selezionato per il concorso. Quando Jon arriva tutto sembra procedere per il meglio, ma Vince in realtà ha in mente un piano: vuole far confessare a Jon di aver abusato, ai tempi del liceo, di Amy, l’allora ragazza di Vince.
Il dottor Freeze è alla ricerca di una cura per la moglie che è ibernata. Ha al suo fianco Poison Ivy, una volta scienziata in chimica e divenuta ora una specie di dea della Flora. Batman, con l’aiuto di Robin, deve difendere Gotham City dalla pericolosa irruzione di questi due personaggi. Troveranno un aiuto inatteso nella nipote del maggiordomo di Batman e riusciranno, ovviamente, a sconfiggere i ‘cattivi’. Dimenticate le atmosfere introversamente dark dei film di Burton, nella serie ‘Batman’ psicologie dei personaggi e sviluppo delle battute non contano più nulla. Ciò che importa è solo ed esclusivamente aggiungere luci a colori e suoni in un ritmo incessante che lasci lo spettatore esausto al termine della proiezione. Con il risultato di aggiungere una nuova dose di droga visiva agli assuefatti e di far individuare un vuoto pneumatico in confezione extralusso a chi invece ha conservato un minimo di capacità di discernimento. Film come questo hanno, per fortuna, un destino segnato: col passaggio televisivo perderanno qualsiasi tipo di presa, rivelando così la loro inconsistenza.
Le madornali e iperboliche imprese del barone di Münchhausen hanno 3 fonti tutte tedesche del Settecento (il vero barone Karl Friedrich Hieronymus von M., l’erudito Rudolph Erich Raspe e il poeta Gottfried August Bürger), furono illustrate da G. Doré nel 1862 e portate sullo schermo già nel 1911 (G. Méliès), 1913 (E. Cohl), 1914 (muto italiano), 1943 (J. von Backy), 1962 ( Baron Prasil ). Con 40 milioni di dollari e collaboratori di prim’ordine (D. Ferretti scenografo, G. Pescucci costumista, G. Rotunno operatore), Gilliam ha rimanipolato la vecchia materia all’insegna del meraviglioso su grande scala, iniettandovi l’umorismo stravagante di Lewis Carroll e la buffoneria esorbitante dei Monty Python. Effetti speciali strabilianti.
E ci sono altri 342 tra attori, musicisti, ballerini, burattinai. Nel 1968 Mel Brooks esordì nella regia con The Producers ( Per favore non toccate le vecchiette ): buon successo e Oscar a Brooks per la sceneggiatura. Nel 2001 a Broadway andò in scena la sua trasposizione in musical: un trionfo, 12 Tony Awards di cui 2 a Susan Stroman (regia, coreografie) più di 1000 repliche, molte versioni internazionali (anche in Italia, con la regia di Saverio Marconi). Il musical diventa infine un film con gli stessi 2 ottimi protagonisti maschili e l’aggiunta ghiotta di U. Thurman, segretaria-soubrette, e del comico W. Ferrell come il matto neonazista autore dell’involontario successo di Springtime for Hitler . Musiche e testi di M. Brooks, produttore e sceneggiatore con Thomas Meehan. Fotografia: John Bailey, Charles Minsky. Dato il costo – e i rischi – l’hanno finanziato in 2: Columbia e Universal. Non è obbligatorio essere innovativi, e il film non lo è, ma lo spettacolo originale è così divertente, creativo e spregiudicato che basta da solo. Anche quando va in esterni (il numero strepitoso “Along Came Bialy” delle vecchiette con il girello) mantiene la sua prospettiva frontale, cioè teatrale. 19 canzoni. Fiasco di pubblico anche in USA.
Un film di John McNaughton. Con Robert De Niro, Uma Thurman, Bill Murray, David Caruso, Mike Starr.Titolo originale Mad Dog and Glory. Commedia, durata 97 min. – USA 1993.MYMONETRO Lo sbirro, il boss e la bionda valutazione media: 2,88 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Martin Scorsese, dopo aver visto Henry – Pioggia di sangue, ha deciso di “produrre” questo regista indipendente, ormai quarantenne, dandogli un cast di primo piano. Diciamo subito che il film è riuscito nei limiti un po’ ristretti della commedia convenzionale, colpa della sceneggiatura hollywoodiana. Ma l’interpretazione è di ottimo livello e la regia, pur sbilanciata, ci regala alcuni passaggi indimenticabili. Un poliziotto salva la vita a un gangster e questi, per ringraziarlo, gli offre per una settimana una bella ragazza. I due si innamorano e scoppia un putiferio. Presentato fuori concorso a Cannes. View full article »
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