Tre uomini e due donne fanno conoscenza su un treno per Nizza. Una volta a destinazione, vengono coinvolti in un delitto che non hanno commesso. Il caso e la dabbenaggine fanno sì che venga messo insieme un vero castello di prove che li inchioderebbe, se non fosse per l’intelligenza dell’ispettore che riesce piano piano a venire a capo di tutto. Ma non è finita: al ritorno a Roma i cinque si mettono ancora nei guai.
Uno straccivendolo romano e la moglie si battono ogni anno a scopone con una vecchia e dispotica miliardaria americana in coppia con il suo segretario. In un primo tempo la posta in palio è fittizia, ma poi si fa sul serio: si giocano tutti i risparmi della borgata. Scritta da Rodolfo Sonego, è una vetta della commedia italiana, basata sulla dialettica denaro-potere. E la morale è amara: a giocare con i ricchi (con chi tiene il banco) si perde sempre. Non c’è divisione tra buoni (poveri) e cattivi (ricchi): la linea di separazione è segnata dalla classe sociale e dall’obbligata scelta di campo. Film appassionante, interpretabile a vari livelli e recitato da attori infallibili.
Divisa tra la passione erotica per Walter e l’attrazione sentimentale per Andrea, Anna, ballerina in un night-club di Milano, si fa suora in un ospedale quando il 1° è ucciso dal 2°. Film su commissione, prodotto da Ponti/De Laurentiis per la Lux italo-francese, scritto in 6 (G. Berto, F. Brusati, L. Malerba, I. Perilli, D. Risi, R. Sonego), apre _ preceduto da Catene (1949) e I figli di nessuno (1951) di Matarazzo _ il genere del melodramma contemporaneo nel cinema italiano col retroterra del tema cattolico colpa-redenzione, sebbene l’impegno di Anna non sia la ricerca di Dio, ma l’impegno verso il prossimo come infermiera. L’adesione di Lattuada al progetto è stilistica e figurativa (fotografia: Otello Martelli) nel netto contrasto tra bianchi e neri e nella rinuncia quasi totale agli esterni. 1° film italiano a incassare un miliardo sul mercato interno e a essere distribuito doppiato in USA. Brevi apparizioni di Lamberto Maggiorani e Sophia Loren. Tutti i 6 attori del nostro cast sono doppiati. Musiche: Nino Rota. La canzone “El negro zumbòn” di Trovaioli-Giordano fu venduta in single negli USA in un milione di copie.
Mentre a Itaca Penelope (Mangano) tiene a bada i Proci, attendendo col figlio Telemaco (Interlenghi) il ritorno del marito, Ulisse (Douglas) si sveglia sulla spiaggia dell’isola dei Feaci, incontra Nausicaa (Podestà) e, ritrovata la memoria, rievoca le sue peripezie (Polifemo; le Sirene; la maga Circe). Con una nave messa a sua disposizione dal re Alcinoo (Dumesnil) riparte, approda a Itaca e liquida i Proci con una strage. Dall’Odissea (sec. VIII-VII circa a.C.) di Omero, il film italiano più costoso del dopoguerra, prodotto da Ponti-De Laurentiis per la Lux, con 7 firme (tra cui quelle di F. Brusati, Ennio De Concini, Ben Hecht, Irwin Shaw) in una sceneggiatura abilmente strutturata in flashback con qualche idea notevole (la stessa interprete _ S. Mangano _ per Penelope-Circe; il canto delle sirene con le voci camuffate di Penelope e Telemaco) e ottimi effetti speciali di Eugen Shüfftan.La fotografia è di Harold Rosson. Modellato sulla misura del suo interprete hollywoodiano, l’eroe è atletico e scattante, sprezzante di ogni superstizione, avido di conoscenza, diviso tra la curiosità del mondo e il bisogno di sicurezza, di famiglia. Altri film dal poema omerico: L’Odissea (1911) di Francesco Bertolini e Adolfo Padoan (1925 metri); Odissea (1968), sceneggiato TV in 8 puntate di Franco Rossi, protagonista Bekim Fehmiu. Ne fu fatta un’edizione cinematografica di 106 minuti: Le avventure di Ulisse.
I marziani sbarcano nel Veneto. C’è chi li strumentalizza, chi li sfrutta e chi li uccide. I pochi ingenui che li prendono sul serio finiscono in manicomio. È il solo film in cui il multiforme Sordi (fa 4 parti) s’è arrischiato nella fantascienza, sia pure nelle cadenze di un’operetta satirica e morale con messaggio incorporato.
Dalla notte del Gran Consiglio del fascismo che abbatté Mussolini alla fondazione della Repubblica di Salò, al processo e fucilazione di Galeazzo Ciano e soci.
1916: Oreste Jacovacci, romano, e Giovanni Busacca, milanese, sono due scansafatiche furbastri e vigliacchetti. Dopo aver cercato invano di imboscarsi si trovano arruolati e al fronte. Da quel momento vivono tutte le disgrazie di una guerra: il cibo pessimo, le marce forzate, il freddo, la paura, qualche piccola distrazione militare, persino un’avventura con una prostituta (la vive il “milanese” Gassman). In una cosa i due sono sempre in prima fila: nell’evitare le grane, piccole o grandi che siano. Riescono a farla franca tutte le volte, ma una notte si trovano per caso in una cascina che viene presa dai nemici. Cercano di scappare travestendosi da austriaci, vengono catturati e proprio in virtù del travestimento potrebbero essere fucilati. Il colonnello nemico promette che li salverà se riveleranno l’ubicazione di un certo ponte di barche sul Piave. I due conoscono l’informazione delicatissima e decidono, per salvarsi, di parlare. Ma il colonnello dice la frase sbagliata e provoca nei due un incredibile rigurgito di orgoglio. È Gassman il primo a reagire, con la famosa battuta, al colonnello: “… visto che parli così, mì a tì te disi propri un bel nient, faccia di merda…”. E muoiono da eroi, fucilati. Film importante ed esclusivo, irresistibile per quasi tutti gli aspetti: l’interpretazione di tutti gli attori, la ricerca iconografica, la verità degli episodi e l’attendibilità storica. La sceneggiatura di Age, Scarpelli e dello stesso Monicelli presenta spesso toni comici – Gassman assomiglia molto a quello dei Soliti ignoti – e privilegia la bravura di tutti i caratteristi, anche non attori, come il pugile Tiberio Mitri e il cantante Nicola Arigliano. L’artificio, certamente commerciale, di contrapporre a una situazione divertente una drammatica, si è tradotto, alla resa dei conti, in un arricchimento, anche rispetto ai toni dei grandi film italiani della stagione del neorealismo, capolavori sì, ma spesso cupi e monocordi. Gli anni de La Grande guerra erano davvero quelli d’oro. Il nostro cinema non sarebbe mai più stato a quell’altezza.
Nell’anno 10191 l’Imperatore delle Galassie destina il desertico pianeta Dune _ abitato dal popolo dei Fremen e ambito dai rapaci Hakkonen perché vi si trova la “spezia”, alimento che conferisce poteri preternaturali _ alla famiglia degli Atreides. Paul, ultimo erede con la madre Ramallo, insegna ai Fremen l’arte del combattimento per opporsi agli Hakkonen. Per 40 milioni di dollari, ispirandosi a un romanzo di Frank Herbert, Lynch ha fatto un film fantastico d’autore, farraginoso, squilibrato, qua e là enigmatico nello sviluppo della vicenda, talvolta geniale. Pittoresca galleria di personaggi. Memorabili i vermoni di Carlo Rambaldi e la fotografia di Freddie Francis. Prodotto da Dino e Raffaella De Laurentiis, esiste anche in un’edizione TV di 190′, montata a dispetto di Lynch che fece togliere la sua firma, sostituita da quella dell’ubiquo Allen Smithee. Stracciato da quasi tutti i critici anglofobi e da molti europei. Grande insuccesso di pubblico.
Dettagli sulla versione Alternative:
Spicediver (il nickname con cui si firma), si è assunto il compito di recuperare tutti gli spezzoni delle scene eliminate e di reinserirli nel film, rimontando l’intera pellicola secondo logica, correggendo diversi errori e restaurando anche il colore e la colonna sonora.
Il risultato di questo impegno è un magnifico film finalmente completo e certo più comprensibile, che surclassa le versioni precedenti, tanto quella cinematografica da poco rieditata in spettacolare Blu-ray – ma sempre mutilata
Braccata dalla polizia, la complice di un ladro si unisce a un gruppo di mondine in partenza per le risaie del Vercellese dove viene raggiunta dall’amante che, aiutato da Silvana, una delle mondine, progetta di impossessarsi con alcuni amici del raccolto di riso. Epilogo sanguinoso. Nella bizzarra mistura dei suoi ingredienti (storia da fotoromanzo, torrido erotismo, affresco sociologico, scrittura registica di alto prestigio tecnico e formale) questo melodramma con ambizioni di romanzo nazional-popolare ebbe un grande successo anche all’estero e, grazie al sessappiglio di S. Mangano, è un capitolo importante nella storia del divismo italiano. 1ª colonna musicale di Goffredo Petrassi.
Edipo è stato allevato dal re di Corinto come un figlio, ma non sa di essere un trovatello. Quando viene a conoscenza di una terribile predizione secondo la quale egli ucciderà il proprio padre e sposerà la propria madre, fugge dalla città e arriva a Tebe. Può essere considerato una trasposizione cinematografica dell’autobiografia ideale dell’autore: l’antica tragedia greca è infatti un mezzo del quale egli si serve per parlare di sé e dei propri problemi.
Dal Decameron (1349-53) di G. Boccaccio Pasolini ha tratto 7 novelle, tutte ambientate a Napoli e dintorni; le ultime sono intercalate dalla storia di un allievo di Giotto (lo stesso Pasolini) che deve affrescare le pareti della chiesa di Santa Chiara. Della cosiddetta “trilogia della vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte), è il film più trascinante, ilare e lieto. Come gli altri due, ha al centro l’esaltazione di una felicità e di una vitalità _ che è soprattutto sesso _ idealizzate e astoriche in cui un’incombente presenza di morte ricorda, secondo moduli di tradizione decadentistica, che la conciliazione è impossibile. Perciò c’è chi (L. Miccicché) _ collegando i tre film a Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) _ ha parlato di “tetralogia della morte”. Orso d’argento al Festival di Berlino, fonte in Italia di roventi polemiche (a destra per le offese al “comune sentimento del pudore”, a sinistra per il suo disimpegno ideologico), incassò sul mercato italiano più di 4 miliardi, cifra da primato, scatenando un’orda di imitazioni che costituirono un filone a parte
Di Ludwig di Wittelsbach (già portato sullo schermo da Dieterle, Käutner e Syberberg), re di Baviera dal 1864 al 1886 quando fu deposto dal Consiglio di Stato siccome infermo di mente, che aiutò munificamente Wagner, costruì castelli di favola e morì in circostanze misteriose, Visconti ha cercato di fare un personaggio di tragedia attraverso le stazioni di un mistico, contraddittorio, sonnambolico calvario. Il film più scaligero e operistico di un grande illustratore dell’Ottocento, ammirevole nella pietas per i personaggi e nella dolorosa sincerità dell’autobiografismo indiretto che trasfigurano il monumentalismo decorativo (fotografia di A. Nannuzzi), il trionfalismo scenografico, l’orgiastica cura delle suppellettili. Distribuito in un’edizione di 3 ore, 7 anni dopo fu reintegrato nel montaggio originale di quasi 4 ore. Musiche di R. Schumann, R. Wagner, J. Offenbach, dirette da Franco Mannino.
Alla fine dell’Ottocento Beppe Musolino, carbonaio calabrese, ama la bella Mara, ma è inviso a suo padre che la vorrebbe sposata con Don Pietro, capo della ‘ndrangheta. Della sua uccisione è accusato Musolino e, in base a tre false testimonianze, condannato. Evade, si dà alla macchia, si vendica di due testimoni. Quando in un’imboscata Mara muore, mette a morte l’assassino e si costituisce. Versione romanzata e romantica di una storia vera per mano di 8 sceneggiatori (oltre al regista, F. Brusati, E. De Concini, I. Perilli, V. Talarico più A. Leonviola, M. Monicelli e Steno), prodotta da Ponti-De Laurentiis, è un melodramma paesano d’azione, modellato sul western americano (scene di tribunale comprese), ribattezzato southern da Ennio Flaiano. Fotografia: Aldo Tonti. A. Nazzari in gran forma brigantesca. G. Musolino (1876-1956) fu condannato a 21 anni di carcere nel 1897 e all’ergastolo nel 1901. Trasferito dopo il 1945 in un manicomio criminale, fu rilasciato in tempo per vedere il film, protestando per lo scarso rispetto alla verità della sua vicenda.
Publio Cornelio Scipione detto l’Africano e suo fratello Lucio detto l’Asiatico sono accusati da Catone, moralista accanito e un po’ opportunista, di essersi appropriati di 500 talenti, tributo di Antioco, re della Siria. Il colpevole è l’Asiatico, e l’integerrimo Africano lo denuncia a Catone. Poi, sapendo che l’ormai corrotta Repubblica non tollera gli onesti come lui, accusa se stesso davanti al Senato. Allora i senatori lo perdonano, ma lui sceglie l’esilio. 3° film di Magni, anche sceneggiatore, dopo il successo di Nell’anno del Signore… I riferimenti satirici a un’altra repubblica, quella italiana di due millenni dopo, sono evidenti, intinti di un’amarezza che affiora quando in questa commedia popolaresca le parole dei dialoghi prevalgono sulle immagini: la parlata romanesca la fa scivolare in una riduttiva goliardia. Fotografia: Arturo Zavattini. Musica: Severino Gazzelloni. Montaggio: Ruggero Mastroianni, Amedeo Salfa.
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