Un giovane fugge da un manicomio e sequestra in un casolare due donne parigine, madre e figlia. Figlio di Georges Simenon (l’autore di Maigret), Marc ha dipinto con acume, in questo “giallo sociologico”, la realtà provinciale e gretta di una cittadina francese.
Una caduta da cavallo durante una mascherata storica fa sprofondare nella pazzia per vent’anni un giovane signore. Passano gli anni, il malato rinsavisce ma continua la mascherata. Come se non credesse nel testo di Pirandello, Bellocchio lo smonta, lo sdrammatizza, se ne appropria, lo aggiorna, rendendolo meno pirandelliano. L’operazione non manca d’intelligenza, ma è poco convincente nonostante la bravura di Mastroianni.
Protagoniste sono due amiche, una bonacciona e sentimentale, l’altra calcolatrice e furbetta. La seconda spesso e volentieri ruba gli uomini alla prima. Un giorno la sentimentale si sposa con un giovane e gentile arredatore…
Storia d’amore tra un uomo, Sonny Steel, una donna, Hallie, e un cavallo bianco, Rising Star. Quando Sonny si accorge che il cavallo viene drogato per le esibizioni pubblicitarie, lo porta in una valle remota per dargli la libertà. Western moderno con struggente nostalgia del passato. È un tenero racconto in cui fa spicco la concretezza dell’azione e l’attenta psicologia dei personaggi. I due protagonisti servono il film come meglio non si potrebbe.
West degli Stati Uniti. Samuel ha lasciato la sua famiglia da vent`anni per vivere con gli indiani. Ora desidera riconciliarsi con la figlia che è diventata una contadina e ha una sua famiglia. La donna lo respinge ma quando uno dei suoi figli diviene succube di uno stregone indiano scopre di avere bisogno del padre.
Arrivata nel 1840 a La Nouvelle-Orléans da San Pietroburgo, una donna dal dubbio passato si fa passare per contessa allo scopo di fare un ricco matrimonio. Ci riesce, ma riappare un bel marinaio. Il 1° e il più fiacco dei 4 film diretti a Hollywood dal regista francese. Non più di due o tre trovate intelligenti, molte citazioni, una Dietrich impacciata. Rifatto con Scarlett Angel (1952), ancor più moscio.
Da un dramma di Lucille Fletcher: per vendicarsi del piano criminale con cui il secondo marito e la sua amante tentano di farla credere pazza, li ammazza entrambi. La Taylor vinse con quest’interpretazione il premio della peggior attrice dell’anno. Anche quella di spaventare è un’arte. Il regista Hutton non la possiede.AUTORE LETTERARIO: Lucille Fletcher
Burbero benefico, gestore di una sala per scommesse ippiche, si lascia ammorbidire il cuore da una bimbetta lasciatagli in pegno da uno sfortunato giocatore suicida. Commedia di situazione, affidata ai caratteri più che all’azione, fa perno su un Matthau impareggiabile con la sua camminata curva e l’angoloso istrionismo. È la 4ª versione di un soggetto di Damon Runyon, interpretato la 1ª volta da Shirley Temple.
Una giovane giornalista, Yael, si reca in un quartiere, tra Jaffa e Bat Yam, in cui israeliani e palestinesi convivono. Ha sentito parlare di una donna ebrea che, sopravvissuta ad Auschwitz, aveva sposato un arabo ed era andata a vivere lì. Yael, nella sua visita ascolta ciò che Il marito Youssef ha da raccontarle e raccoglie anche le testimonianze di parenti e conoscenti. Amos Gitai venne a conoscenza grazie alla stampa della storia di una donna nata ad Auschwitz e poi sposatasi, nonostante molteplici ostilità, con un arabo da cui ebbe cinque figli e 25 nipoti. Si tratta di una vicenda che si inserisce perfettamente nella filmografia del regista israeliano da sempre attento ad indagare i perché di una rivalità (che spesso si trasforma in odio) tra due popoli che hanno saputo convivere nel passato e potrebbero tornare a farlo. Bisognava però decidere con quale taglio raccontarla e Gitai ha deciso di portare all’estremo quello che per lui si è spesso configurato come un codice linguistico particolarmente interessante.
Gli spettatori più attenti al suo cinema ricorderanno sicuramente l’episodio del film collettivo 11 settembre 2001 in cui descriveva la concitazione presente sul teatro di un attentato e l’assoluta incapacità della giornalista inviata sul posto a comprendere cosa accadeva grazie a un piano sequenza di 11 minuti. Altri faranno invece riferimento alla lunghissima e tesissima sequenza in apertura di Free Zone tutta incentrata sulle reazioni emotive del volto di Natalie Portman. Questa volta il piano sequenza ha la durata dell’intero film che si svolge quindi in tempo reale. Sul piano simbolico la scelta estetico-narrativa è di grande valore perché avvolge ed unisce due mondi, due culture e due memorie che si vorrebbero opposte realizzando un film ‘senza stacchi’, senza separazioni, neppure di montaggio. Non ci sono, in questo microcosmo, quei muri che altrove istituzionalizzano la separazione. Si tratta però di una formula punitiva per il pubblico non israelo-palestinese sotto un duplice aspetto. Sul piano storico perché nei dialoghi e nelle memorie dei personaggi emergono innumerevoli elementi che fanno parte della storia socio-culturale di quei popoli ma che non tutti nel mondo hanno presenti. C’è poi la fatica del seguire (e talvolta subire) gli inevitabili tempi morti che fanno parte della quotidianità di ognuno ma che sullo schermo e in una sala bui sembrano espandersi all’ennesima potenza. Gitai è sempre stato un regista ‘in ricerca’, sia sul piano storico che su quello formale. Una ricerca che, in questo caso, rischia di rivolgersi a un pubblico molto ristretto.
Fanatico di cinema arriva a Roma con l’ambizione di diventare un attore a tutti i costi. Dopo varie esperienze se ne tornerà al paese natio con le pive nel sacco. Il difetto sta nel manico: la sceneggiatura (B. Zapponi, Dino e Marco Risi) sembra tirata fuori da qualche cassetto dove giaceva dagli anni ’50. Ne soffrono anche i personaggi, tra i quali il più riuscito è quello di Maccione. Gassman, Tognazzi, Bouchet e Monicelli nel ruolo di sé stessi.
Dal romanzo di James Warner Bellah: ricco playboy si innamora di bella e brava attrice e, per conquistarla, arriva a “comprarsi” una compagnia teatrale, ma lei gli preferisce il regista scalcagnato. Piacevole commediola semimusicale sull’ambiente del teatro. Gable vivace, la Crawford gli tiene dietro. Debutto al cinema di Astaire come ospite.
Un bancario e la moglie, trovandosi in difficoltà finanziarie, decidono di dividere la loro casa coi rispettivi amanti, ma arrivano anche il marito e la moglie di questi che a loro volta si portano dietro i nuovi partner.
Accanto alla violenza, la sessualità costituisce un tema ricorrente nelle opere di Vancini. Desunto da un romanzo di Quarantotti Gambini (su di un’isola deserta, una adolescente desiderata da due coetanei si concederà ad un uomo maturo), il film risulta però epidermico, a causa del mancato approfondimento imputabile ad una censura non ancora liberalizzante.
Trentenne psicolabile di buona famiglia vive con le sue fobie delle quali fa quasi una regola di vita. Decide di innamorarsi e sceglie un insegnante di violoncello che in apparenza è più normale di lei. Commedia fine di nevrosi incrociate dove i temi sono sfiorati con la leggerezza delle mezze tinte, di tono francese più che italiano. In un personaggio che le è congeniale è ottima V. Bruni Tedeschi, ma è altrettanto apprezzabile la concertazione degli altri attori tra cui spicca M. Confalone. Il titolo bruttarello è preso da un verso di M. Duras.
Due sposini che vivono a New York vogliono migliorare il loro tenore di vita. Ma come di norma avviene in questi casi, non fanno altro che indebitarsi fino al collo e passare attraverso le situazioni più stravaganti, fino a quando la fortuna si decide a dar loro una mano.
Una fiaba ambientata nel Duecento. Il cattivo signore di un borgo francese ha trasformato due innamorati in due animali: lui diventa un lupo di notte, quando lei è una bella fanciulla; lei è un falco di giorno, quando lui è un prode cavaliere. Insieme affrontano una fantastica avventura, finché durante un’eclisse solare, il maleficio si dissolve. Girato interamente in Italia, il film si avvale dell’ottima fotografia di Vittorio Storaro.
Principe spagnolo s’innamora di bella popolana del Sud, specialista in fatture. Per sposarla, impone alle principesse pretendenti una gara: vincerà colei che laverà più piatti nel minor tempo senza romperne. Ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (1575-1632), è una storia d’amore in forma di fiaba con intenzioni di contro-fiaba che si disperdono nella dominante cifra coreografica, nel raffinato gioco degli specchi tra stracci e broccati. Da ricordare almeno l’episodio di san Giuseppe da Copertino.
Maria Enders è un’attrice quarantenne con una carriera di tutto rispetto che ha debuttato al cinema a 18 anni nel ruolo di Sigrid, una ragazza ambiziosa che fa innamorare di sè una donna matura, Helena, e l’abbandona una volta ottenuto cio’ che vuole. Vent’anni dopo quel debutto, un regista emergente propone a Maria di reinterpretare quella stessa storia a teatro, questa volta però nel ruolo di Helene. Il ruolo di Sigrid, invece, verrà affidato alla diciannovenne Jo-Ann, idolo dei preadolescenti abituata a recitare in blockbuster popolati da supereroi. Nonostante la perplessità iniziale, Maria accetta il ruolo di Helena, persuasa anche dall’insistenza gentile della sua assistente personale, Valentine, una ragazza intelligente che la segue come un’ombra, proteggendola con una cura amorevole che va oltre il dovere professionale. Attraverso numerose prove di dialogo con Valentine, che si presta a recitare il copione insieme alla grande attrice, Maria dovrà confrontarsi con la propria insicurezza e la propria paura di invecchiare, che le fa dire: “Io sono Sigrid. E voglio rimanere Sigrid”.
Olivier Assayas costruisce un racconto matrioska costellato di superfici riflettenti, giacchè l’intera vicenda è un continuo gioco degli specchi. Il rapporto fra Maria e Jo-Ann riflette quello fra Helena e Sigrid, ma anche l’interazione fra Maria e Valentine ricalca simili dinamiche. E’ un esercizio in metacinema, in cui il portato di Kristen Stewart, che interpreta Valentine, ha un notevole peso narrativo: gli innumerevoli riferimenti all’incontrollabilità della fama presso il pubblico dei teenager e all’eco mediatico globale degli scandali che travolgono le star nell’era di Internet sembrano un commentario amaro alle vicende personali dell’eroina della saga di Twilight. Anche il ragionamento sulla pervasività della Rete e dei social media è di natura riflettente: da un lato fonte di deprecabili ingerenze nella vita privata delle persone e detestabili vetrine della crudeltà narcisistica degli utenti, dall’altro banca dati imprescindibile di informazioni istantanee e necessario veicolo di diffusione mediatica. E così come Internet annulla la linearità della sequenza spaziotemporale, Maria cerca di collocarsi in un non-tempo che prescinda dall’anagrafe. Tenendo conto della doppia natura della comunicazione contemporanea e delle sue ricadute sul vissuto dei singoli, Assayas riesce a costruire una storia estremamente verbosa il cui vero significato si insinua invece nel non-detto, come la nuvola detta “serpente del Maloja” che si snoda attraverso le valli alpine in cui è ambientata la storia. Allo stesso modo, ciò che è veramente è importante è ciò che non viene mostrato, che si cela alla cinepresa e sfugge al continuo gioco di rifrazioni, perchè necessita dell’unico ingrediente incontrollabile: l’attenzione di chi guarda. Dunque i momenti più importanti della storia saranno una scomparsa silenziosa e la dolorosa presa di coscienza di quanto quella scomparsa sia la conseguenza di non aver saputo “soffermare lo sguardo un solo istante in più”. Chloe Grace Moretz, che interpreta il ruolo di Jo-Ann, è perfetta nel ricreare la rapiditè camaleontica della giovane generazione nel farsi riflesso delle altrui aspettative. Ma il film appartiene al duetto fra Juliette Binoche e Kristen Stewart, che si trasforma in uno specchio buio con un’abnegazione identica a quella che Valentine mostra nei confronti di Maria. Attraverso una narrazione formalmente impeccabile, nitida come un cristallo e tagliente come un diamante (del quale ha tutta la durezza) Sils Maria racconta il percorso di crescita di una donna che rifiuta la maturità per rimanere aggrappata ai “privilegi della giovinezza”. Ma è anche una riflessione sul cinema come illusionista dello sguardo perche’, per parafrasare Assayas, anche un film è solamente un oggetto, e cambia prospettiva a seconda del punto da cui lo si osserva.
Figlio trentacinquenne timido del sarto pontificio (Giannini) e ignaro di donne, Nello Balocchi (Marcorè) è mandato dal padre a insegnare latino e greco nella carnale Bologna dove s’innamora di Angela (Incontrada), ricca, bella, incostante e non vedente che, pur col cuore altrove, gli corrisponde. Epilogo malinconico. Tentativo soltanto in parte riuscito di coniugare la vena elegiaca con quella romanzesca, il 28° film di P. Avati ridonda: nella timidezza di Nello; nel macchiettismo romanesco di Giannini; in inverosimiglianze di sceneggiatura; nell’idealizzazione; nell’amore per la Bologna del tempo che fu. Il nostalgico Avati ha dimenticato che “la nostalgia spesso si alimenta, più che dei ricordi, di amnesie” (G. Pontiggia). Del nucleo della storia rimangono la notte d’amore e l’incontro finale, ma non mancano invenzioni bizzarre e notazioni curiose. Fotografia del fido Pasquale Rachini, musiche di Riz Ortolani. Premio Donatello per la regia. Nastro d’argento a Marcorè.
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