Shirley Temple ancora una volta fa l’orfanella. Questa volta il padre adottivo è un sergente delle Giubbe Rosse che l’ha trovata, miracolosamente salva, dopo il massacro della sua famiglia da parte degli indiani Piedi Neri. Gli indiani attaccano ancora e il sergente sta per rimetterci la pelle. Ma la bimba riesce a salvarlo.
Due vecchi sposi si ritirano nella tranquillità della loro casa sul lago. Lui sta per compiere ottant’anni e, per festeggiarlo, arriva anche la figlia divorziata, accompagnata dal “fidanzato” e dal figlio di lui, un ragazzino apparentemente intrattabile che viene poi lasciato in compagnia dei “nonni”. I rapporti tra l’adolescente e gli anziani ospiti sono inizialmente difficili, ma l’ostilità si trasforma in una bellissima amicizia. Film delicatissimo, forse, a tratti, troppo zuccheroso che ha fruttato a Henry Fonda l’Oscar poco prima della morte.
Ballerina ritrova ex collega e amica, diventata una tranquilla casalinga: ognuna delle due rimpiange quello che non ha. Ammirevole duetto (e duello) tra due primedonne, sullo sfondo dell’American Ballet. Il film ebbe 11 candidature all’Oscar senza vincerne nemmeno uno. Un record.
Un western comico pervaso di intelligente umorismo: un uomo si stabilisce in un paesino del West assieme al suo gregge di pecore. Gli allevatori di bovini, temendo un danno ai propri pascoli, tentano di mandarlo via prima con le buone, poi con le cattive.
Un giovane provinciale, ambizioso e privo di scrupoli, ma tutto sommato ingenuo, cerca di dare la scalata al successo. Crede di esserci riuscito quando conquista l’amore di una ereditiera. Purtroppo, però, ha già una relazione con un’operaia che attende un figlio da lui, così quando questa cade da un barca il giovanotto la lascia affogare guadagnandosi la sedia elettrica.
Negli anni ’70 dell’Ottocento lo sceriffo di Hadleyville sposa una quacquera e dà le dimissioni, deciso a partire, ma cambia idea quando apprende che con il treno di mezzogiorno arriverà un bandito, da lui arrestato per omicidio, che vuole regolare i conti con l’aiuto di tre complici. Abbandonato da tutti, affronta da solo gli aggressori. Raccontato in tempo reale con una ingegneria narrativa che ha il suo culmine nella sparatoria finale, è una lezione di etica civile in forma di western e soffre di un certo schematismo. Prodotto da Stanley Kramer, scritto da Carl Foreman (intellettuale di sinistra finito sulla lista nera negli anni del maccartismo), ispirato al racconto The Tin Star di John W. Cunningham, valse a Cooper il 2° Oscar della sua carriera. Altre 3 statuette: montaggio (Elmo Williams, Harry Gerstad), musica (Dimitri Tiomkin), canzone del titolo (Tiomkin, N. Washington), cantata da Tex Ritter. Circola in TV colorizzato, a scempio dello splendido bianconero del grande Floyd Crosby.
Cinque personaggi si affrontano intorno a una sorgente: Morton (Ferzetti), magnate delle ferrovie, ha bisogno dell’acqua per le sue locomotive e fa eliminare i proprietari legittimi, i McBain, dal suo feroce sicario Frank (Fonda); Jill (Cardinale), ex prostituta, vedova di un McBain; il bandito Cheyenne (Robards), accusato della strage dei McBain; l’innominato dall’armonica (Bronson) che vuole vendicare il fratello (Wolff), assassinato da Frank e i suoi sgherri. Su un soggetto scritto dal regista con Dario Argento e Bernardo Bertolucci e sceneggiato con Sergio Donati, è una sorta di antologia del western in negativo in cui si ricorre ai suoi più scalcinati stereotipi. 3 attori americani di scuole diverse e il più famoso dei 3 (Fonda) scelto contro la parte. Il set non è più l’Andalusia, ma la Monument Valley di John Ford. In un film ricco di trasgressioni, Leone dilata madornalmente i tempi drammaturgici, contravvenendo alla dinamica del genere. Sotto il segno del titanismo si tende al teatro d’opera e alla sua liturgia. Dall’epica del treno, della prima ferrovia transcontinentale, si passa alla trenodia, al canto funebre sulla morte del West e dello spirito della Frontiera. Come in Sam Peckinpah.
Sette anni della breve e ardente vita di Michael Collins (1891-1922), discusso eroe dell’indipendenza irlandese, ucciso in un’imboscata da altri irlandesi, bizzarro incrocio tra Primula Rossa e Peter Pan. Dall’inizio alla fine (dove Jordan cede alle pastoie del genere biografico e alle esigenze dell’alto costo), è un film di guerra, guerriglia, guerra civile, la più disperata e feroce delle guerre. Quella contro gli inglesi “dura da 700 anni”, dice Collins. E continua. Per l’afflato epico, il ritmo serrato, la statura dei personaggi è un big movie che vanta almeno due sequenze da great movie : la “notte dei dodici apostoli” in cui, per ordine di Collins, furono giustiziati all’alba una dozzina di informatori inglesi, e un episodio altrettanto storico, la strage nello stadio, compiuta dai tanks inglesi su una folla pacifica. Un certo Marx scrisse che gli uomini fanno la storia, ma non è mai quella che vogliono. L’irlandese Jordan lo conferma. Storicamente fazioso (in favore di Collins e contro De Valera) e troppo irlandese nelle omissioni. Leone d’oro a Venezia 1997 e Coppa Volpi a Neeson.
Lou, un grigio balordo che si fa mantenere da una tardona, ha un’avventura con la giovane Sally di cui assume la protezione uccidendo due gangster che la perseguitano. Sapientemente ambientato nella cornice della famosa città termale decaduta, è un dramma gangster dove contano i personaggi più che l’azione. Dominato da un ottimo Lancaster, diretto con intelligenza da Malle in scene d’amore e violenza. Leone d’oro a Venezia ex aequo con Gloria di J. Cassavetes.
A Ravenna, ridotta a deserto industriale, una giovane borghese nevrotica, moglie di un ingegnere, cerca vanamente un equilibrio. 9° film di Antonioni, e il suo primo a colori, in funzione soggettiva (fotografia di Carlo Di Palma, Nastro d’argento) come espressione di una realtà dissociata e con ambizione di trasformarlo esso stesso in racconto come “mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose”. Come nei 3 precedenti film con Monica Vitti, la donna è l’antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata. Leone d’oro a Venezia.
1916: Oreste Jacovacci, romano, e Giovanni Busacca, milanese, sono due scansafatiche furbastri e vigliacchetti. Dopo aver cercato invano di imboscarsi si trovano arruolati e al fronte. Da quel momento vivono tutte le disgrazie di una guerra: il cibo pessimo, le marce forzate, il freddo, la paura, qualche piccola distrazione militare, persino un’avventura con una prostituta (la vive il “milanese” Gassman). In una cosa i due sono sempre in prima fila: nell’evitare le grane, piccole o grandi che siano. Riescono a farla franca tutte le volte, ma una notte si trovano per caso in una cascina che viene presa dai nemici. Cercano di scappare travestendosi da austriaci, vengono catturati e proprio in virtù del travestimento potrebbero essere fucilati. Il colonnello nemico promette che li salverà se riveleranno l’ubicazione di un certo ponte di barche sul Piave. I due conoscono l’informazione delicatissima e decidono, per salvarsi, di parlare. Ma il colonnello dice la frase sbagliata e provoca nei due un incredibile rigurgito di orgoglio. È Gassman il primo a reagire, con la famosa battuta, al colonnello: “… visto che parli così, mì a tì te disi propri un bel nient, faccia di merda…”. E muoiono da eroi, fucilati. Film importante ed esclusivo, irresistibile per quasi tutti gli aspetti: l’interpretazione di tutti gli attori, la ricerca iconografica, la verità degli episodi e l’attendibilità storica. La sceneggiatura di Age, Scarpelli e dello stesso Monicelli presenta spesso toni comici – Gassman assomiglia molto a quello dei Soliti ignoti – e privilegia la bravura di tutti i caratteristi, anche non attori, come il pugile Tiberio Mitri e il cantante Nicola Arigliano. L’artificio, certamente commerciale, di contrapporre a una situazione divertente una drammatica, si è tradotto, alla resa dei conti, in un arricchimento, anche rispetto ai toni dei grandi film italiani della stagione del neorealismo, capolavori sì, ma spesso cupi e monocordi. Gli anni de La Grande guerra erano davvero quelli d’oro. Il nostro cinema non sarebbe mai più stato a quell’altezza.
Considerata una prova registica minore dei fratelli Coen, la pellicola non è avulsa da intenti pedagogici che sfociano a tratti in una visione statica, non tanto dell’interiorità dei protagonisti, quanto dell’assenza di una serrata fluidità avvincente tra le varie sequenze. Qui, come ovunque, troviamo la capacità singolare di travalicare i generi filmici e come rumore di sottofondo quel costante odore di western misto a uno sconfinato orgoglio di frontiera, dove il solo limite per la sempre cantata America (in questa pellicola celebrata nello stesso titolo) è data da un confine che è l’antinomia stessa del concetto di confine: l’Oceano. Allo stesso modo i loro personaggi (spesso cuciti su attori professionisti di nota fama) sembrano “strabordare” di continuo. Ma se il paradosso diviene più che una chiave di lettura il leit motiv dell’intento registico dei geniali fratelli, violando sempre le colonne d’Ercole della credibilità e verosimiglianza (dato restituitoci da una sinossi che sposa un criminale con una sbirra americana), questa pellicola è il riverbero di personaggi che si incastrano in una legenda di significati folkloristici, talmente surreali da divenire archetipi ma pur sempre fuori dall’apnea dei luoghi comuni del cinematografo da botteghino. Plot eccessivo nella sua dicotomica linearità (da un lato Nathan Arizona, magnate dei divani e capace di inseminazioni da parto plurigemellare, dall’altro un comunissimo criminale da due cents perdente dapprima nella fecondità e poi nel lavoro e nella credibilità) e non privo di un certo eco reazionario in cui l’avversione dei fratelli Coen al governo dell’epoca si staglia sulla rappresentazione esasperata di due ceti agli antipodi, sullo sfondo degli anni ’80. L’opera rimane ancora oggi una promessa più che una partita chiusa e le pellicole successive ne sono l’esatta conferma.
1951, teologia e comunismo a Hollywood. E tante risate. Un produttore cattolico (Brolin in formissima, fusione di 2 pezzi da 90 della Hollywood degli anni d’oro: Eddie Mannix, vicepresidente della M-G-M, e il suo capo ufficio stampa Howard Strickling) manda abilmente avanti e preserva l’illusione di quella fabbrica di sogni che è Hollywood. Nell’arco di una giornata, si destreggia tra la repressione morale, lo sconvolgimento socio-politico, la black list di McCarthy, e riconduce sulla retta via le star sotto contratto del suo Studio. Lo scopo è evitare scandali da prima pagina (deliziosa Swinton nel doppio ruolo di reporter). Clooney è un centurione romano convertito sotto la croce di Cristo nella produzione Ave, Cesare! La Johansson fa il verso a Esther Williams in La ninfa degli antipodi , mentre Tatum danza sulle orme di Gene Kelly. I Coen hanno fabbricato una commedia spensierata. Un’ironia colta con memorabili citazioni rende omaggio alla produzione cinematografica degli anni d’oro di Hollywood. Un’ironia dissacrante prende in giro un’epoca che non c’è più con quella catena di montaggio di film in costume… da bagno, da cowboy, da ballerino, da antico romano… dove l’atmosfera surreale di metacinema è resa magicamente da una assortita galleria di personaggi irresistibili e (con)vincenti. Come per i loro film passati, i 2 fratelli utilizzano una voce fuori campo (Michael Gambon) per dare una brezza fiabesca.
Un giovane ingenuo e inesperto viene messo a capo di una multinazionale dopo il suicidio del titolare: lo scopo è che provochi il fallimento dell’azienda, cosicché gli autori dell’intrigo possano rilevarla per nulla e farla tornare a prosperare.
Il film si divide in due episodi. Il primo si intitola Una voce umana ed ha al centro una serie di telefonate che una donna riceve dall’uomo che ama e che la sta lasciando per un’altra. Nel secondo (Il miracolo) Nannina, una pastora considerata matta dai compaesani, incontra un vagabondo che crede sia San Giuseppe (a cui lei è molto fedele) che ha deciso finalmente di comparirle davanti. L’uomo, dopo averla fatta bere abbondantemente, approfitta di lei. Così Nannina si ritrova incinta e dileggiata da tutti. “Questo film è un omaggio all’arte di Anna Magnani” così recita un cartello a firma Roberto Rossellini prima dell’inizio del secondo episodio de L’amore. Si può però affermare che entrambi, anzi in modo particolare il primo, siano due grandi omaggi all’attrice. Cocteau, alla cui pièce fa riferimento diretto con alcune varianti il primo episodio, ricordava: “Ho lavorato al film “La voix humaine” con Rossellini e la Magnani. Due belve. Una che sonnecchia. L’altra che tira fuori gli artigli. Conservo della nostra collaborazione il ricordo di una sorta di miracolo amichevole.” Rossellini realizza sulla base del testo un film che si può definire sperimentale. Sperimenta sui suoni: le voci che giungono dall’appartamento accanto, le repliche dell’interlocutore al telefono che ogni tanto si percepiscono quasi distintamente, i rumori ambientali. Ma soprattutto è su lei, su Anna Magnani che esercita una sorta di gioco che va dal dominio alla sottomissione alternativamente. Da un lato le scelte di inquadratura, che talvolta si rivelano difficili da sostenere per l’uso del fiato da parte della protagonista e dall’altro l’infinita tavolozza di sfumature vocali ma soprattutto mimico-facciali e corporee che l’attrice gli regala e/o gli impone. Nel secondo episodio la situazione si modifica profondamente. Da un’unità di tempo e spazio in interni si passa a una vicenda che si sviluppa quasi totalmente in esterni che marcano fortemente la solitudine esistenziale di Nannina. Anna Magnani le offre tutti i tratti fisiognomici popolari che aveva abilmente sottratto alla schermaglia drammatica delle telefonate. Il suo è un corpo che diventa progressivamente sempre più sgraziato mentre le sue parole si perdono nel vociare crudele e irridente della folla. Parole a cui inizialmente ha fatto da gelido contrasto il silenzio dello sconosciuto (interpretato da un misterioso Fellini) pronto a sfruttare la sua ingenua credulità. Rossellini sta esplicitamente dalla sua parte, non ne mette mai in ridicolo la fede primitiva mentre invece giudica in poche inquadrature sia l’ignoranza del ‘popolino’ sia quella arrogante e presuntuosa dei giovani studenti.
Un ex marine, reduce dal Vietnam, fa il tassista di notte e ne vede di tutti i colori in una New York lercia e violenta. Scritto da Paul Schrader, è un compendio del realismo violento degli anni ’70 di cui riprende, trasfigurandolo, il tema del giustiziere privato. Può essere letto come una parafrasi urbana di Sentieri selvaggi (1956) di John Ford. De Niro è eccellente nel rendere l’ambigua schizofrenia di Travis. Ultima colonna musicale di Bernard Herrmann, musicista preferito di Alfred Hitchcock, e funzionale fotografia di Michael Chapman. Palma d’oro a Cannes per il miglior film.
Lulù Massa è un campione del cottimo con cui mantiene due famiglie, finché un incidente gli fa perdere un dito. Da ultracottimista passa a ultracontestatore, perde il posto e l’amante, si ritrova solo. Grazie a una vittoria del sindacato, è riassunto e torna alla catena di montaggio. Con qualche cedimento di gusto, più di una forzatura e rischiose impennate nel cielo dell’allegoria, è un aguzzo e satirico ritratto della condizione operaia e della sua alienazione. Scritto da Petri con Ugo Pirro, è il 1° film italiano che entra in fabbrica, analizzandone il sistema emettendone a fuoco con smania furibonda i vari aspetti, compresi i rapporti tra uomo e macchina, tra sindacato e nuova sinistra, tra contestazione studentesca e lotte operaie, repressione padronale e progresso tecnologico. Un Volonté memorabile, una bizzarra Melato, un incisivo Randone. Suscitò molte polemiche, anche e soprattutto a sinistra. Palma d’oro a Cannes ex aequo con Il caso Mattei.
Sulla piazza del mercato, ai tavolini del caffè, siedono gli uomini che guardano le donne. Sono un coro variegato di borghesi veneti, professionisti del perbenismo di facciata, cattodemocristiani protetti in qualche modo dall’alto, che cadono sempre in piedi. C’è Toni Gasparini, che confessa al dottor Castellan il suo problema di impotenza, suscitando nel medico la fregola irresistibile del pettegolezzo. Così, mentre gli amici ridono alle sue spalle, il Gasparini ride di più, nel letto della moglie del dottore, al quale aveva dato a credere una bugia bella e buona. Poi c’è Bisigato, impiegato di banca, afflitto da una moglie insopportabile, che crede di poter cominciare una nuova vita con Milena, una giovane cassiera, ma non fa i conti con i presunti amici e con il tabù della separazione coniugale. E poi c’è Benedetti, il venditore di scarpe, che adocchia una bella ragazza di campagna e le fa fare generosamente il giro di tutti i suoi compari. Peccato che la ragazza sia minorenne e che il padre di lei li porti tutti in tribunale. Toccherà all’irreprensibile moglie di Gasparini occuparsi di risolvere l’inconveniente a suon di bigliettoni e non solo. Da un soggetto di Luciano Vincenzoni, che ha raccolto il materiale narrativo nella sua Treviso (la città del film, mai nominata ma riconoscibilissima), Germi trae la sua commedia di costume più nera e più alta. È una satira bruciante, tanto che in molti, tra i critici italiani, si scottarono e non ne riconobbero da subito il valore, preferendo gli altri due film della trilogia, Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata, ambientati nella più remota Sicilia. Ci penserà il Festival di Cannes a tributare per primo al film il plauso internazionale che meritava, con la Palma d’oro del ’66 (ex aequo con Un uomo, una donna di Lelouch). Sceneggiato da Age e Scarpelli, il film deve in verità la sua straordinaria struttura narrativa ad un’idea di Ennio Flaiano (non accreditato), che s’ingegnò per cercare una cornice che lo emancipasse dal genere boccaccesco della pellicola ad episodi, di gran voga in quel periodo. L’ideazione del coro di personaggi, che si assomma nella piazza cittadina, assurgendo a emblema di una logica ideologica di gruppo o ancor meglio di branco, per poi lasciar spazio ai singoli assoli, supera lo strumento decorativo, al punto che la cornice diventa il film stesso, il suo stile e il suo senso. Il coro, unitamente all’aria e al recitativo, porta con sé anche un’idea di melodramma, che riaffiora specialmente nel secondo dei tre atti, nella figura tragica del personaggio interpretato da Gastone Moschin, così come nell’aria d’opera accennata da Castellan e Scarabello (“La bella figlia dell’amor”, dal Rigoletto, che Germi non riuscì ad inserire qui, andrà a far parte del primo capitolo di Amici miei). A distanza di cinquant’anni esatti, favorito da un ottimo restauro, Signore & signori si conferma un’opera di amara attualità e d’inalterata modernità.
Una ragazza prende la metropolitana. Subito dopo la stessa ragazza non riesce per una frazione di secondo a prendere la stessa metropolitana. Partono così due destini della stessa persona. Se avesse preso quel treno cosa le sarebbe successo? Così sono due le storie. Una finisce bene, con un nuovo amore, l’altra finisce male. Un singolare esperimento narrativo, di buon succeso di pubblico e di buon stile narrativo. L’emergentissima Paltrow è molto brava, a proprio agio nei due destini e personalità.
Hal ha dovuto promettere al padre in punto di morte che non avrebbe mai avuto una ragazza che non fosse bella. E così si è procurato una serie di avventure con donne belle ma che non gli interessavano granché. Un giorno però resta bloccato in ascensore con un ipnotista che gli impone di guardare all’interiorità delle donne. Così si innamora di Rosemary e dei suoi 120 chili. I Farrelly colpiscono ancora avvalendosi della disponibilità della Paltrow pronta a sottoporsi a 4 ore di trucco per assumere le ‘dimensioni’ richieste. Nella loro voglia di trasgredire i due fratelli si dimostrano ancora una volta (e nonostante le apparenze) più ‘moralisti’ di altri.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.