Da un romanzo breve (1941) di Carson McCullers. Groviglio di nevrosi in un campo militare della Georgia: un maggiore adocchia un bel soldato semplice; sua moglie se la fa con un suo collega la cui consorte s’è mutilata con le forbici. Sottovalutato dalla critica e ignorato dal pubblico, l’una e l’altro disorientati da una vena grottesca che fu scambiata per involontaria parodia, è un film inquietante e suggestivo in cui Huston racconta con distacco lucido i personaggi senza dare valutazioni morali né spiegazioni psicologiche. Un quartetto d’attori di prim’ordine e un interessante uso del Technicolor, denaturato in laboratorio per ottenere una dominante di oro-arancio.
Un paesino è dominato da una banda di furfanti che eleggono come sceriffo un vecchio ubriacone. Questi, in un risveglio di dignità, chiama in aiuto il figlio d’un famoso pistolero pensando che sia degna progenie del padre, ma invece il giovane ostenta d’odiare le pistole. Disperazione degli onesti. Il ragazzo, però, è estremamente astuto e riuscirà a trovare le prove per incastrare i banditi. Inoltre, quando i fuorilegge uccideranno l’ubriacone, farà vedere di essere in gamba anche coi pugni e con le armi.
A Reno (Nevada) per divorziare, Roslyn, vulnerabile showgirl di Chicago, fa amicizia con un anziano cowboy part-time, un meccanico e pilota di aereo, un cowboy da rodeo che, scandalizzando la sua sensibilità, vanno a caccia di cavalli selvaggi da vendere a peso per farne carne in scatola per cani. Lei s’innamora, ricambiata, del primo dei tre. Unica sceneggiatura scritta dal commediografo Arthur Miller con eccessi di verbosità letterale che Huston traspone in immagini con grande finezza e una sequenza (la cattura dei cavalli) da antologia. È una trenodia sulla fine dei cavalli nell’America che cambia, un ritratto indiretto di M. Monroe, la storia di una piccola comunità di sbandati che s’illudono di essere dei ribelli senza padrone, un’analisi del malessere nella società nordamericana. Ultimo film di Gable che morì il giorno dopo la fine delle riprese e di M. Monroe che, calandosi in un personaggio scrittole su misura, dà una prova del suo potenziale talento drammatico. Male accolto quando uscì, il film è cresciuto col passare degli anni.
I marziani sbarcano nel Veneto. C’è chi li strumentalizza, chi li sfrutta e chi li uccide. I pochi ingenui che li prendono sul serio finiscono in manicomio. È il solo film in cui il multiforme Sordi (fa 4 parti) s’è arrischiato nella fantascienza, sia pure nelle cadenze di un’operetta satirica e morale con messaggio incorporato.
Una delle fantastiche avventure della bionda eroina dei fumetti: il suo viaggio nel pianeta Sogo alla ricerca di uno scienziato scomparso. Dai fumetti di Jean-Claude Forest che ha curato (discretamente) la sceneggiatura e (bene) la scenografia. Nonostante la futilità di fondo di questa favoletta a base di sesso un po’ sadico e di avventure spaziali, è un film gustoso, colorito, non privo di fantasia e humour. C’è anche il grande mimo Marcel Marceau. E i vestiti di Paco Rabanne. Titoli di testa da non perdere.
Un film di John Huston. Con Deborah Kerr, Richard Burton, Ava Gardner, Sue Lyon, Grayson Hall. Titolo originale The Night of the Iguana. Drammatico, b/n durata 118′ min. – USA 1964. MYMONETRO La notte dell’iguana valutazione media: 3,25 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Costretto a lasciare la sua chiesa, un pastore diventa guida turistica in Messico e finisce in un albergo gestito da una rampante avventuriera. Tratto da un dramma (1961) di Tennessee Williams che con una serie di impercettibili tocchi ironici e una lieta fine Huston felicemente tradisce, è un film d’attori in cui i personaggi contano più dell’azione, esaltato dal bianconero “messicano” di G. Figueroa. 2° film _ dopo L’isola di corallo (1948) _ di origine teatrale nella carriera di un regista che raramente ha lavorato su soggetti originali
Può la star più in voga del momento innamorarsi di un qualsiasi librario londinese? La risposta, che viene descritta in un film vivace, degno dei suoi incassi, è affermativa. Julia Roberts fa se stessa con molta ironia e autoironia. I personaggi di contorno, come deve essere in questo tipo di prodotto, sono efficaci, curatissimi e contribuiscono ad un successo annunciato. Grant rovescia un bicchiere di spremuta d’arancia addosso alla superstar nel quartiere più cool del momento a Londra e i meccanismi della trama si mettono subito in moto, prevedibili, ma godibilissimi. Ci saranno intoppi. Ma saranno superati, come tutti desideriamo. Memorabile la partecipazione di Hugh finto giornalista alla conferenza di Julia, autentica diva. Se ci sarà un sequel, non ce ne lamenteremo troppo.
Roma, 48 a. C. Sconfitto Pompeo nella battaglia di Farsalo, Giulio Cesare sbarca ad Alessandria d’Egitto, dove il suo avversario si è rifugiato. Pompeo spera di ottenere l’aiuto del giovane faraone Tolomeo XIII, ma il sovrano lo fa uccidere e consegna la sua testa a Cesare. La monarchia assoluta è, intanto, agitata da tensioni interne. Tolomeo non vuole condividere il trono con la sorella Cleopatra e prova a farla assassinare, ma la giovane e bellissima donna tenta di portare Cesare dalla sua parte. L’impresa è decisamente semplice: il condottiero supremo di Roma cade tra le sue braccia, tanto più che Cleopatra gli dà la gioia di quel figlio tanto atteso e mai arrivato dalle nozze precedenti.
Come Il bruto e la bella (1952) di Minnelli, comincia con un funerale e procede attraverso 8 flashback, raccontati da 4 personaggi, che rievocano 3 tappe nella vita di una danzatrice a piedi nudi in un piccolo cabaret spagnolo, trasformata da un regista USA in star di Hollywood. Nel suo genere _ il melodramma passionale a forti tinte _ è memorabile. Su una materia trita Mankiewicz, anche sceneggiatore, ha costruito un’affascinante galleria di personaggi dell’international set. È anche un “film a chiave”: il produttore è ricalcato sul miliardario Howard Hughes, insieme con le caricature mascherate di re Farouk e del duca di Windsor.La stessa protagonista allude a Rita Hayworth. Fotografia: Jack Cardiff. Musiche: Mario Nascimbene. Bogart e la Gardner si parlano sulla piazzetta di Portofino. Brevi paesaggi a Bordighera, Sanremo, Rapallo. Oscar per O’ Brien, attore non protagonista. Slogan di lancio: “Il più bell’animale del mondo”.
Un’ottima realizzazione, con eccellenti interpreti, dal lavoro teatrale di Tennessee Williams: una ragazza è rimasta sconvolta a tal punto dalla misteriosa morte del cugino da non ricordare più in quali tragiche circostanze sia avvenuta. Sua zia vorrebbe che lei dimenticasse per sempre e cerca di convincere un neurochirurgo a operarla di lobotomia.
Jessica Drummond è la più ricca proprietaria di Tombstone e rafforza il suo dominio con la presenza di 40 uomini alle sue dipendenze. Arrivano in paese Griff Bonnell e i suoi due fratelli, agenti federali. Ultimo dei 4 western di Fuller, visionario, originale sino alla stravaganza, “non ha il passo sicuro dei capolavori bensì la succosa consistenza dei modelli di scuola” (C. Caprara). Da mettere vicino a Johnny Guitar, e non solo per le analogie tra Stanwyck e Crawford, ma per l’oltranzismo stilistico che contesta la logica dell’intreccio. Adorato da Godard in procinto di passare alla regia con A bout de souffle.
Una didascalia ci ricorda in quali occasioni negli Stati Uniti è stato limitato l’esercizio dei diritti civili. Una classe di un Istituto Superiore. L’insegnante chiede, dopo l’11 settembre, per quanto tempo sarebbero disposti a rinunciare ai loro diritti civili con il fine di sconfiggere il terrorismo. Cina Popolare. Un funzionario di polizia interroga una giovane donna americana impedendole di chiamare l’Ambasciata. Non è in arresto ma si vuole solo sapere da lei perché si trovi nel Paese e se per caso non stia agendo contro gli interessi della Cina. Stati Uniti. Una funzionaria dell’FBI interroga un giovane di origine araba. Non si tratta di un arresto ma si vuole sapere da lui perché si trovi nel Paese e se per caso non stia agendo contro gli interessi degli Stati Uniti. Le battute pronunciate in entrambi i casi sono le stesse. Sidney Lumet alla tenera età di 79 anni colpisce ancora con grande lucidità in questo tv movie prodotto dall’HBO. Lo spettatore viene costretto a reagire.
Trasposizione quasi letterale del claustrofobico, autobiografico, cannibalistico testo teatrale di Eugene O’Neill, messo in scena nel 1956. La lunga giornata è quella trascorsa nel 1912 da una famiglia in una villa di campagna del Connecticut: brutto tempo, i quattro Tyrone, chiusi in casa, mettono a nudo conflitti, speranze frustrate e fallimenti in un dramma dai risvolti disperatamente tragici. 3 giganti della recitazione (Hepburn, Richardson, Robards), ma persino il giovane Stockwell se la cava nel personaggio scritto meno bene. Teatro in scatola? Ma di classe. Fotografia del grande Boris Kaufman. Da vedere nell’originale con sottotitoli.
Chicago, 1929. Joe e Jerry suonano in un’orchestrina che si esibisce nella sala nascosta di un’agenzia di pompe funebri. Il proibizionismo impera e i gangster escogitano tutti gli stratagemmi per poter spacciare l’alcol. I due, sfuggiti a una retata e in cerca di una scrittura, si ritrovano ad essere testimoni del massacro della notte di San Valentino. Costretti a fuggire perché scoperti dalla gang del temibile Ghette, ai due non resta altro che travestirsi da donne per far parte di una band al femminile che sta partendo per esibirsi in Florida. Da quel momento saranno Dafne e Josephine. Non sanno che si troveranno davanti l’affascinante Sugar Kane e che entrambi ne verranno attratti. Riusciranno a conservare la loro falsa identità? Billy Wilder realizza quello che sarà uno dei suoi film più noti al grande pubblico ispirandosi a un’idea di Robert Thoeren che ambientava la storia al tempo della depressione economica in Germania con due musicisti tedeschi che, per trovare lavoro, si fingono una volta donne, un’altra neri e un’altra ancora strumentisti tradizionali bavaresi. A Wilder però, come altre volte nel suo cinema, interessa il tema della dissimulazione ma ha bisogno che il pubblico ne comprenda le cause e ne segua l’evolversi. Parte allora da una premessa credibile. Joe e Jerry assistono a un regolamento di conti nell’ambito della malavita che è davvero accaduto ma che potrebbe rappresentare commercialmente un rischio. Una commedia che prende le mosse da un massacro? David O. Selznick, produttore amico del regista, non è per nulla convinto. Ma Wilder vuole giocare con il pubblico. Vuole cioè che i due protagonisti si trovino accanto la donna più desiderata dalle platee di tutto il mondo, Marilyn Monroe, e non possano smettere il loro travestimento femminile, pena la vita. Il gioco riesce nonostante le difficoltà produttive causate in gran parte dalla complessa situazione psicologica della protagonista. Quando si vede Marilyn entrare nella stanza delle due ‘amiche’ e frugare nei cassetti alla ricerca di whisky non si può non pensare che vennero battuti 65 ciak per quella semplice azione. Il controllo del regista sulla materia è però, come sempre, assoluto. Se la convivenza di Lemmon e Curtis con la Monroe fu complicata, sullo schermo il gioco delle finzioni multiple (Joe e Jerry che diventano Josephine e Dafne;Joe/Josephine che si trasforma in Shell Junior; Sugar Kane che si spaccia per ciò che non è) funziona alla perfezione. Ma è sul piano della sessualità e sensualità che Wilder osa di più. Perché nel 1959 trattare il tema del travestimento sotto forma di commedia non disturba il grande pubblico ma affrontare quello dell’omosessualità latente (Jerry che scopre di essersi divertito a ballare come Dafne con il suo ricco corteggiatore) non è da tutti. Così come far simulare un’impotenza incurabile a Joe, falso magnate del petrolio, per ribaltare il ruolo uomo/donna e trasformare il seduttore in sedotto, realizzando così sullo schermo i sogni erotici più nascosti degli spettatori apparentemente più moralisti. Che poi Tony Curtis abbia dichiarato in seguito che baciare Marilyn era stato come baciare Adolf Hitler fa parte della storia dei set di Hollywood. Il pubblico di tutto il mondo non se ne era affatto accorto.
Con la figlioletta Maria Joanna di sette anni una giovane docente di storia s’imbarca a Lisbona su una nave da crociera diretta a Bombay, dove l’aspetta il marito. La nave fa scalo a Marsiglia, Napoli, Atene, Istanbul, Aden, dove si fa visita ai luoghi storici e ai miti fondatori della cultura mediterranea. A bordo s’incontrano tre donne famose. Cinema saggistico in forma di racconto di viaggio in mare durante il quale a tavola si discorre con elegante noncuranza di grandi questioni: il destino della civiltà europea, la comunicazione tra i popoli, lo scontro di culture diverse, il futuro dell’umanità. È anche, nel suo inatteso e tragico finale, una pessimistica metafora della fine della civiltà occidentale, corretta da un accenno utopico (si farà sul serio l’Europa unita?) e dalla sua vocazione alla tolleranza e al multilinguismo, colpita dal terrorismo che ha le connotazioni oscure di un Male insondabile. Cinema affidato alla parola, didattico a livello elementare nella sua 1ª parte, governato dalla lucida saggezza del 95enne de Oliveira, e dal suo sorriso che si trasforma e si fissa con un fermo-immagine nella smorfia di esterefatto dolore sul volto del comandante. Fotografia: Emmanuel Machuel. Senza musica. Prodotto da Paulo Branco. Parlato in 5 lingue con sottotitoli.
Èl’ultimo film tedesco di Greta Garbo prima della partenza per Hollywood. Melodramma tratto da un feuilleton. In via Melchior, a Vienna, vicino a una macelleria c’è un negozio di abiti che in realtà è la copertura di un bordello.
Ispirato a un racconto di Julio Cortázar. Un ingorgo sull’autostrada blocca per 36 ore centinaia di automobili. S’intrecciano incontri, amicizie, conflitti, litigi, tradimenti. Relegati sullo sfondo, e tra le pieghe, i risvolti di fantasociologia e le ipotesi di catastrofe ecologica, il racconto si frantuma in una aneddotica di taglio realistico nel quadro della commedia di costume, ma c’è una nascosta sapienza di progressione narrativa e di impaginazione per cui l’addizione finale è superiore alla somma dei suoi addendi. “Gli toccarono, come a tutti gli uomini, tempi brutti in cui vivere” (J.L. Borges). Il film dice la stessa cosa di Comencini e di noi, suoi spettatori. Ridistribuito col titolo Black out sull’autostrada.
Sono due fratelli pianisti, insieme sono un duo musicale. Cercano una cantante per creare maggiore attrazione. Fanno dei provini e la trovano, oltre che brava anche bella. Tanto che farà impazzire lo scapolo belloccio, con la disapprovazione dello sposato in sovrappeso. Per un po’ andranno avanti tra litigi e dopo che la donna si allontanerà, si separeranno definitivamente. Con una regia diligente, il film si fa notare soprattutto per la bravura dei fratelli Bridges e di Michelle Pfeiffer che ha anche una buona voce.
Guidando attraverso il deserto, il giovane Jim raccoglie un autostoppista che presto si rivela un maniaco omicida. Un incubo su strada come Duel, ma qui il mostro ha una faccia e un carattere. Scritto da Eric Red, è un film violento che vive di spazi, polvere, asfalto, distanze, e dell’angoscia che si cela dietro l’imperativo categorico del viaggio.
Ladybug è un agente di una misteriosa organizzazione, che gli affida incarichi oltre i confini della legalità. Non si considera un assassino: è solo colpa della sfortuna se la gente finisce per morire durante le sue imprese. Questa volta avrebbe un incarico facile facile: rubare una valigetta sullo Shinkansen, il “treno-proiettile” ad altissima velocità che collega Tokyo e Kyoto. Peccato che la valigetta sia sotto la custodia di una coppia di ciarlieri ma pure letali sicari: Lemon & Tangerine, ossia limone e mandarancio. I due hanno con loro anche il figlio della Morte Bianca, un boss criminale di origine russa che ha preso il controllo di una fazione della yakuza. Ma non è tutto: sul treno viaggia The Prince, una ragazzina solo apparentemente indifesa e con un piano machiavellico, che ricatta il giapponese Kimura perché lavori con lei. Inoltre sono della partita altri due assassini: Hornet, micidiale con i veleni, e Wolf, sicario messicano in cerca di vendetta.
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