Romain è un giovane fotografo di moda a cui viene diagnosticato un cancro all’ultimo stadio. Alla (chemio-)terapia preferisce il decorso ineluttabile della malattia. Lascia la professione, il proprio compagno e gli affetti familiari per ritirarsi in solitudine nel suo appartamento parigino. Il ripiegamento affettivo è interrotto soltanto dalla visita all’anziana nonna e dall’incontro casuale con una coppia sterile a cui fa dono di un figlio. Davanti al mare si congeda dal mondo. Con un meccanismo a ritroso già applicato da Ozon in Cinqueperdue, per riferire la fine di una storia d’amore, ne Il tempo che resta è la vita di un uomo a procedere all’indietro fino all’infanzia, fino al punto zero in cui vita e morte coincidono e si annullano. Questa volta è la fine di una vita a venire esibita con un sapiente equilibrio dal regista francese. Il suo cinema, coerente alla sua poetica mortifera, non cede a soluzioni ricattatorie da consunzione melò, né tantomeno degenera in una indifferente insensibilità. La morte prossima di Romain è un fatto privato che si traduce in gesti carichi di emotività, perché sono gli ultimi e perché guariscono l’anaffettività del personaggio: la carezza al padre, l’abbandono sul petto della nonna, le foto scattate di nascosto alla sorella. Il volto di Romain, interpretato da un impenetrabile e patito Melvil Poupaud, “il ragazzo delle tre ragazze” di Eric Rohmer, ribadisce la frontalità del cinema di Ozon. Un attacco diretto che in Le temps qui reste si fa addirittura letterale: i primi piani dominano sui totali fino all’ultima sequenza dove è sempre il mare a “rubare” la vita, quella di Romain come quella del marito di Charlotte Rampling in Sotto la sabbia. Su un campo lungo finale e sostenuto si spegne il sole, in primissimo piano la vita.
Il dottor Sully Travis è un ginecologo di successo a Dallas, adorato dalle sue clienti che cura con pazienza, dolcezza e competenza. Marito fedele, è un uomo che ama le donne, ma le capisce poco o niente. Si ritrova con una moglie in piena regressione infantile e una delle due figlie, lesbica ignara, che durante la cerimonia nuziale scappa con l’amica del cuore. S’innamora di una istruttrice di golf che si comporta come un uomo. È un’altra delle commedie corali di Altman, ma con una variante: un uomo solo in mezzo a un gineceo. Il rossiniano piano-sequenza iniziale (7 minuti circa) nella sala d’aspetto del suo studio offre la chiave stilistica di un film dove quasi tutto è semplificato, sovreccitato, esagerato, alla texana. L’ironia si alterna con il sarcasmo e il piede sul pedale del grottesco è fin troppo pigiato nella descrizione di questa società opulenta fino al punto di trasformarla in una macchina femminile celibe. La discutibile e qua e là furbesca sceneggiatura di Anne Rapp ( La fortuna di Cookie ) è riscattata in parte dalla gioiosa eleganza della regia, dalla leggerezza serena dello sguardo, dalla simpatia con cui il vecchio Altman accompagna i personaggi anche se negativi, compreso il dottor T. È forse il 1° film mainstream di Hollywood in cui si filma un parto a distanza ravvicinata.
La tela di fondo è un avvenimento storico: il lungo boicottaggio degli autobus pubblici che nel 1956 a Montgomery (Alabama) diede inizio alla lotta non violenta per i diritti civili della gente di colore. È la storia della lenta presa di coscienza di una donna, la padrona bianca, per merito della sua cameriera nera. Tratto da un racconto autobiografico dell’attrice Mary Steenburgen che nell’edizione originale dava la voce all'”io narrante”, diretto da un regista che viene dal documentario, è un film politicamente corretto sino all’oleografia didattica. Ha almeno 3 meriti: puntuale rievocazione d’epoca; attendibile correlazione tra femminismo e campagna per i diritti civili; insolito impiego delle 2 attrici principali, tenute entrambe su un sommesso registro recitativo sotto le righe.
Cecil Gaines ha imparato il mestiere di domestico nella Georgia degli anni Venti e nella tenuta dell’uomo che ha ucciso barbaramente suo padre in un campo di cotone. Riservato e (ben) educato nelle case dei bianchi, approda a Washington, dove sposa Gloria, diventa padre di Louis e Charlie e viene assunto come maggiordomo alla Casa Bianca. Orgoglioso della sua famiglia e appagato dal proprio destino, Cecil sta. Resta immobile (e invisibile) nella vita come lungo le pareti della stanza Ovale, dove serve il tè e soddisfa le richieste dei suoi presidenti. Fuori intanto il mondo si muove, il mondo si arrabbia, il mondo sta cambiando. In quel territorio infiammato milita il suo primogenito, deciso a lottare per i diritti della sua gente, resistendo al fianco di Martin Luther King o ‘armandosi’ al braccio di Malcolm X. Ripudiato il figlio, colpevole di non essere rimasto al suo posto, Cecil seguita a servire i presidenti che si susseguono mandato dopo mandato, sprofondando il paese nella guerra, riformandolo con le leggi sui diritti civili, integrandolo o mandandolo sulla Luna. Sette presidenti e diverse tazze riempite dopo, Cecil prenderà coscienza di sé e dei propri diritti, dimettendosi e scendendo in campo a fianco del figlio e di un sogno che ha il volto di Barack Obama. Contestando la candidatura di Norman Jewison alla regia di Malcolm X, Spike Lee asseriva che soltanto un regista nero avrebbe potuto far giustizia alla sua opera e alla sua vita. D’accordo o meno con la dichiarazione del regista, quello che interessa adesso è la prossimità di pensiero e di posizione che assimila Spike Lee a Lee Daniels, convinto allo stesso modo che siano pochi i registi bianchi che abbiano saputo cogliere nel segno producendo film con tematiche afro-americane. A ragione di questo The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca adotta il punto di vista degli afro-americani ed esclude personaggi bianchi che infilano la presa di coscienza. In una lunga parabola che dai campi di cotone della Georgia arriva all’elezione di Barack Obama, The Butler ripercorre le tappe fondamentali della storia americana nelle pieghe di una vicenda privata, facendo dialogare passato e presente, padre e figlio. Ispirato alla vita di Eugene Allen, maggiordomo per trentaquattro anni alla Casa Bianca, intervistato e portato a conoscenza da un giornalista del “Washington Post”, The Butler fa il paio con Precious e prosegue il percorso di rilettura critica della Storia americana. In una dialettica costante, il film di Daniels intreccia e alterna la dimensione pubblica con quella privata, proponendo ciascuna come genesi e insieme contraccolpo di una storia più grande, che include sia gli eventi collettivi (il sit-in di Greensboro, i Freedom bus, l’attentato a Kennedy, la morte di Martin Luther King, la guerra in Vietnam) sia le tragedie intime (la morte del padre in Georgia, il decesso del figlio minore in Vietnam, le detenzioni del primogenito attivista per i diritti umani). Approdato in sala dopo il Django Unchained di Tarantino e il Lincoln di Spielberg e prima di 12 anni schiavo di Steve McQueen, The Butler si accomoda tra opere che sembrano richiamarsi vicendevolmente, proseguendo l’una i discorsi dell’altra e componendo il colossale affresco di una nazione perennemente indecisa fra opzione morale e violenza brutale, tra parole e pistole. Insieme allo schiavo ‘slegato’ di Tarantino e al presidente (per)suadente di Spielberg, il maggiordomo di Daniels rimette mano (con guanto bianco) sulla questione razziale in un quadro politico-economico complesso e allargato, che contempla Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon e Reagan e confina nelle immagini di repertorio Ford e Carter, che dialoga coi padri buoni della nazione (Kennedy, Johnson) e disdegna fino al congedo quelli cattivi (Nixon, Reagan). Con il narratore umile e schivo di Forest Whitaker, il regista identifica lo strumento perfetto per condurre la narrazione filmica, ottemperando alle istanze pedagogiche con ridondanza retorica e generose concessioni didascaliche, che seguono la ricostruzione puntuale. Diversamente da Tarantino, la cui visione eversiva e indocile sulla questione ‘nera’ viene giudicata ‘bianca’ e inadeguata, Daniels si incammina su una strada diversa, quella del romanzo popolare e della robusta iconografia, rivendicando una competenza antropologica e culturale che suona come una dichiarazione di apartheid. Una separazione dura a morire che mentre denuncia l’intolleranza razziale, discrimina un artista, riducendo al colore della pelle la sua capacità di affrontare certi temi.
Kate (Sandra Bullock) e Alex (Keanu Reeves) vivono nella stessa casa ma non si sono mai visti. L’unica via che hanno per comunicare è la cassetta della lettere, che veicola la loro relazione epistolare. Tutto ciò sarebbe impossibile se non vivessero in spazi temporali differenti. Kate nel 2006, Alex nel 2004. Ispirato a un film coreano del 1998 (Il mare) l’opera di Alejandro Agresti è una commedia sentimentale al limite del metafisico, che analizza la ricerca dell’amore angelicato, conservandone l’aspetto terreno benché temporalmente non allineato. Per procedere alla visione non bisogna assolutamente verificare i rapporti causa-effetto fra passato e futuro (il presente non esiste), per non rischiare di perdere di vista il significato più profondo della storia. Allo spettatore viene chiesto, quindi, di non credere, per poter credere (in questo caso) a quell’amore che nella vita si presenta una volta sola in un tempo ben definito, e che si deve essere capaci di non lasciare andare. Il regista, che prosegue il discorso sugli “amori a distanza” iniziato in Tutto il bene del mondo (in quel caso la lontananza era spaziale), descrive la storia asservendosi ai due protagonisti e alla logica sentimentale hollywoodiana. Pur mantenendo una modalità espressiva epistolare, Agresti riempie però gli spazi con una logica patinata da videoclip che a volte finisce per infastidire. Le belle facce di Reeves e della Bullock, sufficientemente segnate per manifestare il disagio esistenziale dei protagonisti, guidano la storia, invece di conferirle valore, la livellano, la appiattiscono, facendo credere che l’amore esiste perché esiste S.Valentino. La casa sul lago del tempo è un’occasione persa, un’idea male intesa, che però vale la pena di vedere; soprattutto se si crede che un rimorso sia meglio di un rimpianto e che per giudicare si debba vivere. E, se si parla di cinema, osservare.
Al fine di evitare la partenza per il fronte africano, Antonio, un soldato settentrionale, sposa la napoletana Giovanna, cui si sente subito legato da grande passione. Quando si fingerà pazzo per non doversi più separare da lei, scoperto, dovrà partire per la campagna di Russia. Dopo la ritirata del 1943, i soldati italiani ritornano a casa, ma non Antonio, che figura nelle liste dei dispersi. Decisa a non mollare e convinta com’è che sia ancora vivo, la risoluta Giovanna partirà per cercarlo fino in Russia e in Ucraina.
The Leisure Seeker è il soprannome del vecchio camper con cui Ella e John Spencer andavano in vacanza coi figli negli anni Settanta. Una mattina d’estate, per sfuggire ad un destino di cure mediche che li separerebbe per sempre, la coppia sorprende i figli ormai adulti e invadenti e sale a bordo di quel veicolo anacronistico per scaraventarsi avventurosamente giù per la Old Route 1, destinazione Key West. John è svanito e smemorato ma forte, Ella è acciaccata e fragile ma lucidissima. Il loro sarà un viaggio pieno di sorprese.
Grace e Jonathan Fraser sono una ricca coppia di Manhattan: vivono in un duplex sulla Quinta strada, hanno lavori qualificati (lei è psicoterapeuta, lui oncologo infantile), un figlio adolescenteche frequenta una prestigiosa scuola privata. Durante un incontro del comitato genitori della scuola, Grace rimane colpita da Elena, giovane donna d’estrazione popolare che si comporta in maniera poco consona all’alta società. Al termine di una serata di beneficienza, durante la quale Elena ha rivelato a Grace il proprio disagio esistenziale, la donna viene trovata morta, selvaggiamente uccisa a martellate.
Sette professori ospitano una sciantosa ricercata dalla polizia. Uno s’innamora, ricambiato. Parafrasi sarcastica di Biancaneve e i sette nani, un cocktail ad alta gradazione alcolica di glottologia e gangsterismo con dialoghi ricchi di battute spiritose. Billy Wilder tra gli sceneggiatori. Rifatto dalla stesso Hawks con Venere e il professore (1941).
Uno stimato oculista newyorchese, Judah Rosenthal, ha un problema: la sua amante, Dolores, un’attraente hostess, pretende che egli sveli alla moglie Miriam la relazione che ha con lei. Judah non sa decidersi e si consulta con il rabbino Ben, un suo paziente gravemente malato, che gli consiglia di confessare tutto.
Del brevissimo omonimo racconto di Giovanni Verga, Lizzani riprende soltanto superficialmente la trama. Giuseppe Gramigna e Gemma, vittime dei soprusi del barone Nardò, si danno alla macchia inseguiti sia dai sicari del barone sia dai soldati piemontesi.
È il più generoso, empatico e meno realistico dei film di Allen, ma anche il più rischioso, almeno per lo spettatore italiano. Con ironia e autoironia, è giocato a spese dei luoghi comuni su Roma e sugli italiani tanto cari agli americani. Non a caso qualche ottuso recensore li ha presi sul serio, irridendoli. Bisognerebbe vederlo in originale con sottotitoli. Affollato di storie: 4 le principali. Irrealistico? Lo è l’episodio dell’impiegato Benigni che diventa famoso per un giorno o due senza una ragione al mondo. Il che permette all’Allen autore di fare, con surreale leggerezza, la più impietosa e divertente critica della TV italiana mai tentata nel cinema. La bizzarra trovata del cantante sotto la doccia, comunque, rimarrà nella memoria. Un’altra ragione per vederlo è la spagnola Cruz come prostituta di liberatoria sincerità.
Woody appare su un ponte sulla Senna: tutto è pulito, non c’è una persona, non c’è una macchina. L’uomo cammina con una baguette di pane sotto il braccio. Vive a Parigi, la città che predilige insieme a New York e Venezia. Ha una figlia con Goldie Hawn, che si è risposata e ha altri figli. I fatti della famiglia si intrecciano: amori, piccoli guai, nuovi amori, rimpianti, e la vita che passa ed è strana ma fantastica, qualsiasi cosa succeda, basta avere lo spirito, e l’umorismo giusto. E poi le canzoni e i balletti. Fra Park Avenue, la Senna e le Calli: si manifesta la nostalgia con l’amarezza e la gioia di vivere, il sapore è quello dei numeri di Astaire e Kelly, che coi loro film rappresentarono, guarda caso, la gioia di vivere come non era e non sarebbe mai più stata rappresentata. Numeri antichi riproposti come speranza e augurio, un artificio naturale, non un revival triste e fine a se stesso. Grazie al grande amore di Allen per quel cinema e per la vita. Allen è un regista singolare, come quasi tutti i maestri ha sempre rifatto lo stesso film, ma spesso ha rilanciato tutto, ha girato pagina con vigore maggiore. Chiude un ciclo e ne apre un altro, più maturo e profondo, e divertente. Segue la sua vita, che non si ferma e non ristagna. Nel film si innamora e viene abbandonato, la delusione è giusto che ci sia, ma da qualche parte c’è un nuovo amore: l’incontro ci sarà. Nel frattempo il Central Park è una magnifica fiamma d’autunno, senza un rifiuto, Parigi sembra un set tanto è perfetta, e il Canal Grande non è nemmeno torbido. È il cinema che rifà la vita, basta crederci. Con Goldie, la ex moglie, balla sulla Senna come ballarono Kelly e Caron, quando il cinema era bello davvero.
Dopo la festa di fidanzamento di Anna, arriva nella sua casa un ragazzino che sostiene di essere Sean, il marito morto dieci anni prima. Nonostante il rifiuto di tutta la famiglia, la donna inizia a credere nel bambino, convinta dai ricordi del nuovo Sean e dalla speranza di ricreare l’antico rapporto, mai dimenticato. Nonostante la confezione raffinata di Glazer e l’interesse che il film suscita nella prima mezzora, Birth delude per la sceneggiatura superficiale e prevedibile, e, spiace dirlo, per la stucchevole espressività di Nicole Kidman che, dalla Macchia Umana in poi, sembra aver perso l’intuito nella scelta dei copioni.
Il dottor Fadigati è uno stimato professionista di Ferrara che riesce a nascondere la sua omosessualità fino a quando l’improvvisa passione per Eraldo lo spinge a vivere apertamente il suo rapporto. Tratto da un romanzo (1958) di Giorgio Bassani, il film di Montaldo non si salva nemmeno a livello di illustrazione decorativa perché è approssimativo nella rievocazione storica e di costume, qua e là volgare, spesso schematico. Cauti elogi agli attori.
Nevrotico e inibito critico cinematografico di San Francisco, divorziato, vede apparire al proprio fianco il fantasma (J. Lacy) del Bogart di Casablanca come una specie di angelo custode e, vincendo la propria timidezza, cerca di imitarlo. Scritto da W. Allen che l’ha tratto da una sua commedia di successo (1969) in 3 atti, replicata sul palcoscenico per 453 volte, è un film brillante, armonioso, un po’ verboso, con personaggi psicologicamente ben definiti, che contribuì alla nascente popolarità di Allen più delle 2 regie precedenti ( Prendi i soldi e scappa e Il dittatore dello stato libero di Bananas ). Il titolo riprende una celebre battuta di Casablanca (1942) in cui Ingrid Bergman, rivolta al pianista nero, dice: “Play it, Sam” (Suonala, Sam). Il personaggio di Allen si chiama Allan Felix nell’originale, ma fu ribattezzato Sam in Italia perché i distributori pensarono che non si capisse l’allusione.
Un altro film su Truman Capote uscito a ruota di quello di Bennett Miller (2005) ma girato l’anno prima. Philip Seymour Hoffman vinse un Oscar col suo Capote; Jones è altrettanto bravo, ma in modo diverso, più sfumato. McGrath – anche sceneggiatore di una biografia di George Plimpton – ne ha fatto un film più corale e la Warner gli ha messo a disposizione un bel gruppetto di interpreti famosi, disposti anche ad accettare parti piccole. Basta vedere quant’è sgargiante l’assolo cantato dalla Paltrow in apertura. Comincia a New York come una commedia frivola e diventa un dramma dolente negli anni di lavoro passati da Capote a scrivere A sangue freddo (1965), non fiction novel sul quadruplice omicidio commesso nel 1959. Corale e più esplicito nell’esporre l’omosessualità dello scrittore e il suo rapporto con Perry Smith (Craig), autore materiale degli omicidi. Corale e policromo: brillante nella descrizione dell’alta società di New York; pastellato per la piccola borghesia di una cittadina del Kansas; cupo, quasi bianconero nella prigione (fotografia: Bruno Delbonnel).
Hannah, figlia maggiore di genitori che lavorano nel mondo dello spettacolo e sposa devota, madre amorevole e attrice di successo. Oltre ad essere la spina dorsale emotiva dell’intera famiglia, Hannah rappresenta l’unico vero sostegno per Lee e Holly, sue sorelle senza aspirazioni, quasi risentite di aver maturato per lei un’autentica dipendenza
Fioravante e Murray, nonostante la differenza di età, sono amici per la pelle. Sono in precarie condizioni e Murray propone all’amico di fargli da manager per “il mestiere più vecchio del mondo”, con gli pseudonimi, rispettivamente, di Bongo e Virgil. Le clienti sono molto soddisfatte di lui, in particolare la dottoressa Parker con la sua amica Selima e la vedova Avigal che apre una breccia nel cuore di Fioravante. Scritta, diretta e interpretata da Turturro (alla sua quinta regia), da sempre affascinato dal concetto di prostituzione, non si limita a essere una commedia intelligente e spiritosa. È anche un film sulla solitudine e sulle relazioni (di amicizia e d’amore), un’analisi profonda sull’animo umano, una feroce critica alla comunità ebraica ortodossa, con una galleria di personaggi eterogenei – accomunati dal desiderio di entrare in contatto con gli altri – uno più riuscito dell’altro. E le relazioni mettono in movimento cambiamenti.
Una bellissima ragazza si sente attratta da un misterioso personaggio che la rifiuta. Si tratta dell’Olandese volante, destinato a vagare nei mari per avere ucciso la moglie innocente fino a quando una donna morirà per lui. La ragazza raggiunge l’uomo il giorno del matrimonio e salpa con lui. Entrambi troveranno la morte, e lui la pace.
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