Un milionario vuole evitare che il proprio figlio sposi una bella bionda terribilmente interessata e spedisce la ragazza in Francia mettendole alle costole un detective.
Ricercatore trova il siero della giovinezza. Una delle scimmie-cavia fa una mistura e la versa nel recipiente dell’acqua potabile. Ne beve lo scienziato che regredisce, imitato dalla moglie e da altri. Deliziosa commedia scritta da Ben Hecht, Charles Lederer e I.A.L. Diamond in cui si insinua abilmente il fascino che l’infantilismo e la regressione allo stato di natura esercitano sull’intelligenza. Grant e la Rogers mirabili. La sotterranea carica erotica aggalla nella scena in cui Coburn insegue la Monroe con un sifone di seltz.
A New York un miliardario di origine francese s’innamora di una ballerina del Greenwich Village ma, per essere certo di essere amato per sé stesso e non per i soldi, si fa passare per un attore in bolletta. Più commedia con canzoni che musical, soffre di un fiacco copione di Norman Krasna che propone una storia risaputa senza rinverdirla. Cukor è a suo agio nella rappresentazione del mondo dello spettacolo, ma sono pochi i momenti felici. Persino la Monroe è più opaca del solito e si riscatta soltanto cantando “My Heart Belongs to Daddy” di Cole Porter. Debolucci anche i numeri musicali con le coreografie di Jack Cole.
In visita col marito alle cascate del Niagara una moglie infedele progetta di ucciderlo con la complicità dell’amante, ma il marito le cambia le carte in tavola. Duplice omicidio. Scritto da C. Brackett, W. Reisch e R. Breen, è un melodramma criminale a suspense con diverse sequenze emozionanti grazie all’efficace uso del colore (fotografia di Joe McDonald) e alle angolazioni della cinepresa che sfruttano al meglio gli esterni delle cascate. Il film trasformò la Monroe in una star della Fox, e uno dei pochi in cui interpreta un personaggio totalmente negativo: divennero famosi l’abito scarlatto che indossa in una scena passionale; il sorriso che rivolge alla cinepresa quando, sbagliando, presume che il marito sia morto; la sua camminata pelvica, sull’orlo dell’autocaricatura. È un brutto film, ma affascinante per il suo cattivo gusto.
Un gruppo di gangster, su commissione di un avvocato in cattive acque, compie una rapina in una gioielleria. Qualcosa non funziona. La banda, malgrado uno dei suoi componenti resti gravemente ferito, porta a termine il colpo. Ma uno degli organizzatori, messo sotto torchio dalla polizia, finisce col confessare. L’avvocato preferirà il suicidio all’infamante arresto. Ad uno ad uno gli uomini della banda vengono catturati o uccisi. Probabilmente il miglior film di gangster mai realizzato, cinematograficamente perfetto. Una visione livida e lucida di una comunità di emarginati, che ha un suo codice e che accetta la propria esistenza senza illusioni. Ogni personaggio ha una logica, anche il più marginale, nel disegno corale di una società che il regista mostra senza il fastidioso realismo poetico di stampo francese. Persino il personaggio del “professore”, il cervello della banda, è disegnato con precisione e senza coloriture dal grande caratterista Sam Jaffe. La perfetta esecuzione tecnica è dovuta probabilmente, oltre che al talento di Huston, al fatto che a produrre il film fosse la M.G.M, garante di una professionalità spesso travisata e giudicata un limite, senza la quale si può essere geni quanto si vuole, ma si finisce irrimediabilmente nella sciateria. Quasi sempre. Un film d’autore resta sempre tale, purché non si abbia la pretesa che ogni essere vivente abbia l’obbligo morale di assistervi e compiacersene. Giungla d’asfalto è un raro esempio di impegno artistico e professionale in perfetto equilibrio di valori. Uno stuolo di caratteristi, quali solo il cinema americano è in grado di sfornare, compongono la galleria di vincitori e vinti. Un gioco delle parti non privo di romanticismo, quello autentico, che scaturisce dalla mancanza di ferocia; un elemento ben presente nella società odierna. Sterling Hayden, che in seguito confermerà di essere come attore un perdente di successo, nel ruolo di Dix Handley ha una ruvidezza che nulla aveva a che fare con lo star system di allora. Né gli è da meno l’elegante e fatalista Louis Calhern, nel ruolo dell’avvocato. E Marilyn Monroe è inconsapevolmente la perfetta incarnazione di tutti i personaggi che avrebbe interpretato in seguito.
A Reno (Nevada) per divorziare, Roslyn, vulnerabile showgirl di Chicago, fa amicizia con un anziano cowboy part-time, un meccanico e pilota di aereo, un cowboy da rodeo che, scandalizzando la sua sensibilità, vanno a caccia di cavalli selvaggi da vendere a peso per farne carne in scatola per cani. Lei s’innamora, ricambiata, del primo dei tre. Unica sceneggiatura scritta dal commediografo Arthur Miller con eccessi di verbosità letterale che Huston traspone in immagini con grande finezza e una sequenza (la cattura dei cavalli) da antologia. È una trenodia sulla fine dei cavalli nell’America che cambia, un ritratto indiretto di M. Monroe, la storia di una piccola comunità di sbandati che s’illudono di essere dei ribelli senza padrone, un’analisi del malessere nella società nordamericana. Ultimo film di Gable che morì il giorno dopo la fine delle riprese e di M. Monroe che, calandosi in un personaggio scrittole su misura, dà una prova del suo potenziale talento drammatico. Male accolto quando uscì, il film è cresciuto col passare degli anni.
Chicago, 1929. Joe e Jerry suonano in un’orchestrina che si esibisce nella sala nascosta di un’agenzia di pompe funebri. Il proibizionismo impera e i gangster escogitano tutti gli stratagemmi per poter spacciare l’alcol. I due, sfuggiti a una retata e in cerca di una scrittura, si ritrovano ad essere testimoni del massacro della notte di San Valentino. Costretti a fuggire perché scoperti dalla gang del temibile Ghette, ai due non resta altro che travestirsi da donne per far parte di una band al femminile che sta partendo per esibirsi in Florida. Da quel momento saranno Dafne e Josephine. Non sanno che si troveranno davanti l’affascinante Sugar Kane e che entrambi ne verranno attratti. Riusciranno a conservare la loro falsa identità? Billy Wilder realizza quello che sarà uno dei suoi film più noti al grande pubblico ispirandosi a un’idea di Robert Thoeren che ambientava la storia al tempo della depressione economica in Germania con due musicisti tedeschi che, per trovare lavoro, si fingono una volta donne, un’altra neri e un’altra ancora strumentisti tradizionali bavaresi. A Wilder però, come altre volte nel suo cinema, interessa il tema della dissimulazione ma ha bisogno che il pubblico ne comprenda le cause e ne segua l’evolversi. Parte allora da una premessa credibile. Joe e Jerry assistono a un regolamento di conti nell’ambito della malavita che è davvero accaduto ma che potrebbe rappresentare commercialmente un rischio. Una commedia che prende le mosse da un massacro? David O. Selznick, produttore amico del regista, non è per nulla convinto. Ma Wilder vuole giocare con il pubblico. Vuole cioè che i due protagonisti si trovino accanto la donna più desiderata dalle platee di tutto il mondo, Marilyn Monroe, e non possano smettere il loro travestimento femminile, pena la vita. Il gioco riesce nonostante le difficoltà produttive causate in gran parte dalla complessa situazione psicologica della protagonista. Quando si vede Marilyn entrare nella stanza delle due ‘amiche’ e frugare nei cassetti alla ricerca di whisky non si può non pensare che vennero battuti 65 ciak per quella semplice azione. Il controllo del regista sulla materia è però, come sempre, assoluto. Se la convivenza di Lemmon e Curtis con la Monroe fu complicata, sullo schermo il gioco delle finzioni multiple (Joe e Jerry che diventano Josephine e Dafne;Joe/Josephine che si trasforma in Shell Junior; Sugar Kane che si spaccia per ciò che non è) funziona alla perfezione. Ma è sul piano della sessualità e sensualità che Wilder osa di più. Perché nel 1959 trattare il tema del travestimento sotto forma di commedia non disturba il grande pubblico ma affrontare quello dell’omosessualità latente (Jerry che scopre di essersi divertito a ballare come Dafne con il suo ricco corteggiatore) non è da tutti. Così come far simulare un’impotenza incurabile a Joe, falso magnate del petrolio, per ribaltare il ruolo uomo/donna e trasformare il seduttore in sedotto, realizzando così sullo schermo i sogni erotici più nascosti degli spettatori apparentemente più moralisti. Che poi Tony Curtis abbia dichiarato in seguito che baciare Marilyn era stato come baciare Adolf Hitler fa parte della storia dei set di Hollywood. Il pubblico di tutto il mondo non se ne era affatto accorto.
Un impiegato rimasto solo in città, perché la famiglia se ne è andata in villeggiatura, prova un’attrazione sempre maggiore per la vicina di casa bionda e sexy. Alla fine però si spaventa per le possibili conseguenze e fugge a raggiungere la moglie.
Peripezie e disavventure a lieto fine di una famiglia di attori ai tempi in cui trionfava il vaudeville. Film Fox di alto costo con musiche, più che musical vero e proprio, conta per le canzoni di Irving Berlin (tre delle quali cantate dalla Monroe con la sua vocina) e per i numeri di O’Connor. Piacevole e prolisso. C’è anche Johnny Ray, allora famoso cantante pop (e sordo).
Dalla commedia Bus Stop (1955) di W. Inge: un ingenuo e casto cowboy, arrivato nella città di Phoenix per un rodeo, incontra una cantante-entraineuse e le chiede di sposarlo. Dopo essere stata obbligata a prendere un autobus per il Montana, la ragazza acconsente. Sceneggiata con brio da G. Axelrod, la commedia funziona anche sullo schermo grazie a un buon cast di interpreti tra cui spicca una fulgida Monroe in una delle sue interpretazioni più scattose.
Tre ragazze di provincia affittano un appartamento di lusso a New York e se ne servono come base per la loro caccia a un marito milionario (in dollari, cioè miliardario). Ciascuna delle tre ha il suo metodo efficace. Fu la prima commedia girata con il cinemascope della Fox: lo scambio di battute assomiglia a una partita di tennis. Il tema delle cercatrici d’oro con fiori d’arancio è vecchio, ma sviluppato con frivolo garbo. Sceneggiatura di Nunnally Johnson.
Harpo ruba una scatola di sardine in cui è nascosta la favolosa collana dei Romanoff e, senza conoscerne il prezioso contenuto, la porta dai suoi amici, attori di varietà in miseria che stanno preparando una rivista. Groucho è l’investigatore incaricato di recuperare il gioiello, ma una banda di avventurieri cerca d’impedirglielo. Tra gli altri attori appaiono Raymond Burr, il futuro Perry Mason, e Marilyn Monroe che, ancora sconosciuta, s’accontenta d’una particina minuscola.
Dalla commedia The Sleeping Prince (1953) di T. Rattigan: arrivato a Londra nel 1911 per assistere all’incoronazione di Giorgio V, il granduca Carlo di Carpazia vuole compagnia galante per la serata. La trova in una ballerina americana, ma la situazione si complica. Il copione è un po’ moscio, irrimediabilmente coperto di polvere teatrale, ma la messinscena di Olivier è di un accademismo impeccabile e la Monroe, anche produttrice, sfolgora. Domanda: chi delle due star ha più sfruttato l’altra?
Un vecchio giudice un po’ rimbambito, senza aver la licenza, celebra alcuni matrimoni. L’irregolarità viene scoperta e comunicata agli interessati. A tutti è offerta la chance di “ripensarci”. Solo uno però, un maturo signore turlupinato da una frivola bionda, opterà per l’annullamento.
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