Due maestri elementari, che non riescono ad avere un figlio, si rivolgono a un luminare della scienza che prescrive uno speciale regime di vita. Il marito si presta obbedientemente, ma non si arriva che a una gravidanza isterica. Consultano una chiromante che prescrive un rimedio specifico e ordina di fare all’amore nel plenilunio.
Nel 1932 anarchico della Bassa lombarda, deciso a far fuori il Duce, trova ospitalità in una casa chiusa di lusso dove s’innamora della bella Tripolina. Il mattino dell’attentato si sveglia in ritardo. Ghignante quadro di costume, è un’opera ideologicamente equivoca perché il suo contenuto evidente (l’antifascismo) è in contraddizione con il suo contenuto latente (una mescolanza di sentimentalismo e volgarità). Come la bricconata conclusiva mostra, la sua mancanza di rigore rasenta l’isterismo. Attori ineccepibili. Premiato Giannini a Cannes.
Un marinaio siciliano comunista deve sottostare ai capricci della padrona, la viziata moglie di un industriale milanese, ma quando lo yacht naufraga in un’isola deserta lui si prende la sua rivincita.
Un siciliano, licenziato a causa delle sue idee politiche, grazie all’intervento della mafia trova lavoro come metallurgico in una fabbrica di Torino. Qui diventa amante di una ragazza che gli dà un figlio; al suo ritorno a casa, scoprendo che la consorte è incinta di un brigadiere, ne seduce la moglie per vendetta.
Mentre nel Paese dilaga un’epidemia che causa numerose vittime nella casa per esercizi spirituali Zafer retta da gesuiti si radunano uomini politici, affaristi, banchieri tutti legati al partito dominante la Democrazia Cristiana. A condurre gli esercizi che dovrebbero far meditare gli intervenuti sui peccati commessi a causa di una distorta concezione dell’attività politica è Don Gaetano e al centro delle attenzioni di molti si trova il Presidente. Ben presto però la morte inizia a seminare la paura tra i convenuti e non si tratta delle conseguenze dell’epidemia ma di omicidi. Al termine dei titoli di coda del film si legge “Gli avvenimenti e i personaggi di questo film sono immaginari. Ogni riferimento alla realtà è da ritenersi puramente casuale”. Raramente una dichiarazione simile è stata così lontana dalla verità dei fatti e dalla volontà stessa del regista e degli attori. Come lo stesso Petri ricordava: “Quando girammo Todo modo, Volonté divenne evanescente, camminava come se fosse sulle nuvole, parlava a bassa voce, non ti guardava negli occhi, tutto preso com’era dal personaggio di Moro. Il suo fu uno sforzo di concentrazione eccezionalmente intenso. (…) Per quel personaggio, Volonté e io ci servimmo molto della moviola. Avevamo radunato molti pezzi di repertorio su Moro”. Nel momento in cui il film esce (30 aprile 1976) Aldo Moro è Presidente del Consiglio e il film suscita un’infinità di polemiche (cosa che peraltro era il suo fine) tanto da portare al sequestro nel giro di un mese. Meno di due anni dopo, il 16 marzo del 1978, Moro veniva rapito dalle BR per essere poi ucciso. Ciò decretava la definitiva scomparsa del film. Il quale non ha ovviamente alcuna responsabilità nell’accadimento dei fatti successivi perché Petri, adattando liberamente il romanzo omonimo di Sciascia, esaspera i piani conducendoli progressivamente su un livello grottesco finalizzato alla denuncia di un sistema politico in cui la corruzione dilaga e che vede ormai prossimo alla fine. Sarà, su questo versante, uno sguardo anticipatorio di quanto accadrà nel 1992 con Mani Pulite ma qui la forza sta nella messa in scena a cui offrono un determinante contributo non solo gli attori ma anche la scenografia cupa e simbolicamente efficace di Dante Ferretti e la musica di Ennio Morricone. Marcello Mastroianni nei panni del gesuita dalla doppia anima sferza gli astanti e, al contempo, li blandisce nel segreto. I gesuiti, costituendo uno degli ordini più strutturati della Chiesa, sono finiti più di una volta nel mirino del cinema anche se poi nella realtà hanno dato origine a personalità come Pedro Arrupe, Carlo Maria Martini e Jorge Mario Bergoglio di cui non si può negare la matrice progressista. E’ pero Gian Maria Volonté a reggere sulle sue spalle il peso di un “j’accuse” a un’intera classe politica attraverso la rappresentazione di un personaggio-simbolo di coloro che fanno della mediazione lo strumento di mantenimento di un potere che ha alla propria base la corruzione. Sarà lo stesso Volonté a tornare ad indossare i panni dell’uomo politico in Il caso Moro di Giuseppe Ferrara nel 1986 e lì la lettura sarà diversa perché il Moro sequestrato e ucciso dalle BR, con quanto scrive nelle sue lettere, non sarà più l’accusato ma l’accusatore del Sistema.
Un commando di terroristi rapisce un diplomatico americano e chiede un riscatto di 10 milioni di dollari. I componenti del gruppo vengono identificati grazie a un filmato e il commissario incaricato del caso fa assalire la fattoria in cui sono nascosti e li fa massacrare tutti, tranne il loro capo. Tratto da un romanzo di Jean-Patrick Manchette, che l’ha anche adattato con Chabrol, è un film d’azione il cui tema centrale è la stupidità del fanatismo, da qualunque parte stia. Il guaio è Chabrol: il film rivela che gli interessano poco o niente i personaggi della storia, poliziotti o terroristi. Si limita a dirigere il traffico come un qualsiasi artigiano della regia. Si oscilla così tra la convenzione e la caricatura.
Lulù Massa è un campione del cottimo con cui mantiene due famiglie, finché un incidente gli fa perdere un dito. Da ultracottimista passa a ultracontestatore, perde il posto e l’amante, si ritrova solo. Grazie a una vittoria del sindacato, è riassunto e torna alla catena di montaggio. Con qualche cedimento di gusto, più di una forzatura e rischiose impennate nel cielo dell’allegoria, è un aguzzo e satirico ritratto della condizione operaia e della sua alienazione. Scritto da Petri con Ugo Pirro, è il 1° film italiano che entra in fabbrica, analizzandone il sistema emettendone a fuoco con smania furibonda i vari aspetti, compresi i rapporti tra uomo e macchina, tra sindacato e nuova sinistra, tra contestazione studentesca e lotte operaie, repressione padronale e progresso tecnologico. Un Volonté memorabile, una bizzarra Melato, un incisivo Randone. Suscitò molte polemiche, anche e soprattutto a sinistra. Palma d’oro a Cannes ex aequo con Il caso Mattei.
Oltre a combattere contro la malavita, il commissario Bertone deve combattere una organizzazione clandestina di “cittadini onesti” che ammazza numerosi criminali o presunti tali.
Da un racconto di Vincenzo Cerami che l’ha sceneggiato con Citti. Una ventina di persone si spogliano nella stessa cabina – la n. 19 – di una spiaggia libera di Ostia in una calda domenica d’agosto. Con un colpo di genio pratico e poetico Citti risolve in una mossa sola 3 problemi: il basso costo, le esigenze commerciali, un’originale struttura drammatica. Allegria crudele, pessimismo ilare, ironia blasfema.
Un film di Nino Manfredi. Con Nino Manfredi, Mario Scaccia, Lionel Stander, Mariangela Melato.Commedia, durata 122′ min. – Italia 1971. MYMONETRO Per grazia ricevuta valutazione media: 4,11 su 19 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Ragazzo miracolato si chiude in convento in attesa di un sogno che confermi la sua vocazione. Quando il sesso lo tenta, va in tilt. Cerca di uccidersi. Lo salvano. È un nuovo miracolo? 1° film lungo di Manfredi regista: insolito, intelligente, bene accolto dappertutto. Il tema dei tabù religiosi (o superstiziosi?) è svolto con pittoresca abilità. Dialogo arguto, caratteristi calibrati, ritmo. Premio Opera Prima a Cannes 1971.
Sceneggiato con Saverio Tutino, è un pamphlet di denuncia, in bilico tra giornalismo e finzione, sull’attività della CIA (Central Intelligence Agency) nell’America Latina e in Africa e sullla parte che ebbe in Italia nella “strategia della tensione” degli anni ’60 e ’70. Insoddisfacente nella tesi di fondo, a mezza strada tra J.L. Borges e la fantapolitica, per la commistione di documenti e scene di finzione, per la carenza di consapevolezza linguistica che lo porta nella pornomacelleria delle scene di tortura. Ora teatrino dei pupi, ora museo di maschere di cera, conferma il vecchio adagio sull’inferno e le buone intenzioni.
Dopo le rivolte studentesche del ’68, Michele è esiliato a Londra, ma si mantiene in contatto epistolare con la madre e le sorelle. Un giorno arriva la notizia che Michele è morto. Tratto dal romanzo (1973) di Natalia Ginzburg, sceneggiato da S. Cecchi D’Amico e Tonino Guerra e diretto da un Monicelli maturo e impegnato, è un buon film, insolito e intelligente.
Avventurose peregrinazioni di una ragazza che respinge il fidanzato borghese e il mondo che rappresenta, fuggendo, prima delle nozze, per un viaggio stravagante attraverso le istituzioni della società. Ovvero quando Brass faceva ancora della sana sperimentazione, sconvolgendo la struttura narrativa e del linguaggio cinematografico, con gusto acceso della provocazione, estro satirico, aggressività orgiastica. È un film del ’68 (dissequestrato nel ’74). La voce di T. Aumont è quella di Mariangela Melato.
Noto attore di cinema, Luca Florio è colto da un grave malore. Ricoverato, riceve le visite di parenti, amici, colleghi e si rende conto che quell’ambiente non gli basta più. Sente il bisogno di ricongiungersi con la terra d’origine e la sua cultura del Sud. Un Rubini 8½ ? 7½, semmai, e con una marcata connotazione teatrale. La malattia come occasione di autoanalisi e di bilancio, ma anche di una possibile svolta. Rimane da stabilire non quanto sia autobiografico, ma se la sua sia un’autocritica personale o abbia anche un significato collettivo. Il fatto che S. Rubini si sia sdoppiato in F. Bentivoglio, suo evidente alter ego, riservando a sé stesso la parte dell’amico medico, farebbe propendere alla seconda ipotesi. Come il solito, comunque, tutti recitano con garbo intelligente. Scritto con Domenico Starnone e Carla Cavalluzzi, è probabilmente il suo film più maturo, sicuramente il più sincero. Nastro d’argento a G. Mezzogiorno non protagonista.
Prima di entrare nell’Aldilà, i morti stanno in un limbo dal quale si dipartono solo quando, tra i vivi, non c’è più nessuno che li ricordi. Scritta con David Grieco e Vincenzo Cerami, è una collana di storie cui fa da mastice il trucido, affabile, cinico custode del cimitero Gassman che fa il verso a un samurai povero. La Melato in una doppia parte briosa ed energica.
Vedova con tre figli sfollata in campagna ospita aviatore americano. Tra i due nasce un tenero idillio. Avati è un piccolo poeta della vacanza che si muove sulla Carta del Tenero. Contano le sfumature, le annotazioni apparentemente marginali, il pudore dei sentimenti, la sciolta leggerezza dei passaggi narrativi e descrittivi. Cinema anomalo che si sottrae ai modelli italiani, lontano dai canoni della commedia italiana. Esiste un’edizione TV di 180′.
Sulla scia di Oggetti smarriti , nasce a pochi mesi di distanza questo documentario sulla popolazione notturna della Stazione Centrale di Milano, prodotto da Unitelefilm con RAI 2 e l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio di Roma. Fa parte di una serie di film-inchiesta sulle grandi città italiane rette da giunte rosse: Torino ( Vorrei che volo di E. Scola), Roma ( Comunisti quotidiani di U. Gregoretti), Napoli ( Napoli, due città di A. Vergine), in funzione della propaganda elettorale del PCI. Suddiviso in 33 capitoletti in ordine alfabetico, è un film d’autore che mette in immagini la Milano sommersa, con la gente che in stazione abita e dorme: drogati, barboni, puttane, pugili suonati, vagabondi, alcolizzati, barflies . La Stazione Centrale come ventre di Milano, metropoli europea. Contaminazione di documentario, tecniche di cinema diretto, e ambizioni di fiction nel tentativo di dare agli intervistati statuto e statura di personaggi, qua e là risente di rigidità nell’impostazione tematica populista e, insieme, intellettualistica, ma ha un’ammirevole equilibrio tra lucidità di sguardo e partecipazione emotiva senza concessioni al sentimentalismo né alla demagogia. L’etichetta di documentario gli sta stretta e quella d’inchiesta è poco pertinente. Fu poco usato come propaganda elettorale perché utilizzabile non era. A Milano – dove non c’era una giunta rossa – la proiezione, seguita da dibattito, avvenne per iniziativa personale di Pietro Ingrao. 1° premio ex aequo al Festival dei Popoli di Firenze.
Un giovane fugge da un manicomio e sequestra in un casolare due donne parigine, madre e figlia. Figlio di Georges Simenon (l’autore di Maigret), Marc ha dipinto con acume, in questo “giallo sociologico”, la realtà provinciale e gretta di una cittadina francese.
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