Le vicende di un gruppo di tecnici specialisti in uragani. Li cercano, li studiano, li combattono. C’è anche un gruppo antagonista che ha la peggio. Effetti speciali, insomma quasi tutto ciò che fa cinema catastrofe. Ma già visto.
1964. Bronx. Il collegio della parrocchia di St. Nicholas ha al suo centro due forti personalità. Padre Flynn, il parroco, è un innovatore che cerca di sostenere gli allievi più in difficoltà e, in particolare, l’unico studente di colore della scuola, Donald Miller. Il ragazzo è stato iscritto dalla madre, contro il volere del marito violento, per sottrarlo ai pericoli della scuola pubblica. L’altro, rigido, pilastro della comunità è Sorella Aloysius Beauvier, la superiora dell’ordine le cui consorelle insegnano nell’istituto. Sorella Aloysius è una strenua conservatrice dell’ordine e del rigore e spaventa a morte tutti gli allievi. Un giorno però, in seguito ad alcune osservazioni sul comportamento di Donald riferitele dalla più giovane e candida delle suore Sorella James, comincia a nutrire il dubbio che le attenzioni di Padre Flynn per il ragazzo non siano solo altruistiche. Un’avvertenza: chi non ama il buon vecchio cinema di una volta quello, per capirsi, con bravi attori, sceneggiature di ferro e modi di ripresa convenzionali, è pregato di astenersi. Chi poi dà già per scontato che un film con preti e suore non possa trattare altro che argomenti o stucchevoli o fuori tempo massimo farà bene a fare altrettanto. Oppure decida di assumersi il rischio della visione. Potrebbe cambiare opinione. Perché Il dubbio, pur denunciando la sua origine teatrale, si salva dalle sabbie mobili della trasposizione (considerando che il regista è l’autore della piece) grazie alle prestazioni dei tre protagonisti e a una sceneggiatura che esula (e così facendo se ne avvantaggia) dai richiami all’attualità. Perché la piaga della pedofilia nelle istituzioni religiose non è sicuramente (e purtroppo) circoscritta agli Stati Uniti ma è lì che è esplosa con maggiore virulenza al punto di spingere la Chiesa a fare pubblica ammenda. Shanley si dimostra però interessato a tematiche diverse e più complesse. Il film non si risolve quindi in una detection sulla colpevolezza o meno di Padre Flynn o sulla forza dei pregiudizi di Sorella Aloysius. Il contrasto e la difficoltà di discernimento stanno soprattutto altrove. Non a caso la vicenda ha inizio l’anno successivo all’uccisione di John Fitzgerald Kennedy. Il trauma nella società è stato forte ma nel mondo qualcosa sta mutando per sempre. Lo testimonia la foto del ‘papa morto’ (Pio XII) che ormai viene usata per vedere il riflesso della classe quando l’insegnante è voltata verso la lavagna ma che la superiora non ha sostituito con quella del papa del Concilio. Il film non si limita ad affrontare il tema del rinnovamento della Chiesa negli Anni Sessanta ma va oltre affrontando il nodo della complessità della lettura della realtà. È sufficiente essere progressisti per liberarsi d’ufficio da qualsiasi possibilità di errore? Al contrario: chi è favorevole alla conservazione ha il diritto di leggere in chiave solo negativa i comportamenti che non si confanno alla norma e si ispirano invece a un’umanità più vicina agli ultimi? Sono solo alcuni dei quesiti che il film pone lasciando poi allo spettatore il compito di dare una risposta sulla base delle proprie convinzioni o (perché no?) dei propri dubbi.
Nell’estate 2006 a New York, dopo un lungo lavoro di preparazione con gli attori, all’età di 82 anni Lumet girò il film più angoscioso della sua carriera, il 45° per il cinema. La sceneggiatura, la prima, è del rinomato commediografo Kelly Masterson. Al sarcastico titolo italiano (il 4° comandamento del Decalogo di Mosè) si oppone quello originale, tratto da un arguto detto irlandese: “Meglio arrivare in paradiso mezz’ora prima che il diavolo sappia che sei morto”. È la storia di una famiglia della media borghesia che deve affrontare il peggiore dei nemici, sé stessa, in un conflitto che nasce dal denaro: la rapina in una gioielleria che ha tragiche e impreviste conseguenze è il motore dell’azione, esposta in una struttura temporalmente frantumata prima e dopo l’evento. Attraverso una trafila di debiti, falsi in bilancio, sensi di colpa, ricatti, tradimenti, vendette, provocando situazioni in cui ogni membro maschile della famiglia (donne quasi escluse) fa emergere il peggio di sé stesso, si arriva a un finale sconvolgente. Tragedia o melodramma? Il formidabile cast degli interpreti è una sfilata di Oscar, compreso quello alla carriera dato a Lumet nel 2005, ma anche tra le figure di contorno non mancano gli attori decorati con premi teatrali o televisivi. Occorre citare almeno Hoffman (doppiato da Pino Insegno) il cui talento gli ha permesso di essere promosso, come qui, da caratterista a protagonista.
Regista teatrale in crisi esistenziale e ossessionato dalle malattie e dall’idea della morte, Caden è circondato da un esercito di donne: la moglie Adele, pittrice che parte per Berlino con la figlioletta, Maria la (presunta?) amante di Adele, la sua psicanalista preoccupata solo dai suoi libri, la bella Hazel. Dopo una carriera di sceneggiatore Kaufman passa alla regia e sembra voler infilare in un solo film tutto quello che ha visto e imparato in una vita: il risultato è prolisso e ripetitivo. Ripescato dopo 6 anni, in seguito alla morte di Hoffman.
Nel 1977 Jack Horner (Reynolds), affermato regista di pornofilm, scopre il 17enne Eddie Adams (Wahlberg) che, con il nome di Dirk Diggler, riscuote subito un grande successo. Due anni dopo un tragico fatto di sangue all’interno della famiglia allargata che fa capo a Horner segna l’inizio della decadenza dell’industria dell’hard core (con conseguente passaggio al video) e dello stesso Diggler, accelerata dalla cocaina. 2° film del 27enne P.T. Anderson, figlio di Ernie Anderson, doppiatore e intrattenitore notturno: il pornocinema fa da chiave di lettura degli anni ’70 libertari e trasgressivi, ma è anche l’altra faccia dell’industria hollywoodiana, un mondo a parte che il giovane sceneggiatore-regista racconta con affettuosa e lucida partecipazione: “sa parlare di sesso e di droga con leggerezza ironica, rifuggendo sia il paternalismo che il trionfalismo” (E. Martini). Evidenti influenze di Altman (per la coralità del racconto), Scorsese, Demme e Tarantino.
Il giovane Patch Adams, dopo diversi tentativi di suicidio, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico in cui il disinteresse nei confronti dei pazienti regna sovrano. La situazione non sarà diversa alla Facoltà di Medicina a cui si iscrive. Il preside Walcott è un individuo decisamente cinico. Patch non sopporta tutto questo e, quando potrà occuparsi in prima persona di un ospedale, ribalterà la prospettiva. Travestimenti da clown, terapia del buonumore, attenzione vera nei confronti dei pazienti divengono la pratica quotidiana. Robin Williams gigioneggia senza freni in un film che si ispira alla realtà ma che non dimentica gli stereotipi.
Dopo l’11 settembre, un giovane islamico, figlio di una cecena stuprata da un colonnello russo, arriva clandestinamente ad Amburgo e, con l’aiuto dell’avvocatessa di un’associazione umanitaria, contatta il padrone di una banca privata per ritirare i miliardi sporchi lasciatigli dal padre. Perseguitato o terrorista? La gestione del caso è contesa tra i servizi di sicurezza tedeschi, la CIA e una squadra speciale di intelligence , sempre tedesca ma ufficialmente inesistente, guidata da Bachmann, veterano dello spionaggio che affoga i sensi di colpa nel whisky. È lui che elabora il piano più efficace, ma anche più morale, per assestare un colpo mortale ad Al Qaeda, infiltrandosi nel suo vertice. È uno spy-thriller in cui l’azione è rallentata per essere posta al servizio di una riflessione che scava strati sempre più profondi: logico-strategico, psicologico, etico, per arrivare a quello filosofico-religioso, che, facendo di Bachmann un novello Giobbe, giunge fino alla teodicea: perché, nella dimensione terrena, Dio punisce i giusti e premia gli ingiusti? Basandosi sul romanzo omonimo di Le Carré, efficacemente sceneggiato da Andrew Bovell, Corbijn ha confezionato un film che affascina per la sua originale e problematica trama, ma anche per la cornice ambientale di Amburgo e le notevoli interpretazioni degli attori, tra le quali spicca quella di Hoffman, l’ultima prima della morte (2/2/14) per overdose di eroina a 46 anni. D’altronde Bachmann è un alter-ego di Hoffman e forse la tutt’altro che lieta fine del film è anche una possibile spiegazione della sua fine. Premiato al Sundance Festival.
Dopo i remakes dei film francesi ora gli americani hanno deciso di metter mano anche alle sceneggiature italiane. Questo film è infatti tratto, come l’omonimo film di Dino Risi, da Il buio e il miele di Giovanni Arpino. Solo che l’ambiente è New York. Frank Slade, tenente colonnello, si fa scortare da un giovane studente nei guai col proprio preside. Un po’ burbero e un po’ insofferente l’uomo è deciso a finire in bellezza la propria vita. Così ha scelto Manhattan per ubriacarsi di follie prima del suicidio. E se nel film di Risi è l’amore che gli fa cambiare idea, qui è il senso di protezione per il ragazzo, che difende davanti al preside del college. Grande interpretazione di Pacino, anche se piuttosto marcata, premiato con l’Oscar. Doppiato da Giancarlo Giannini. Martin Brest, già regista di Un piedipiatti a Beverly Hills, è invece piuttosto manierato.
Gli Oakland Athletics sono una buona squadra di baseball che però non può competere con i budget stratosferici di squadre come ad esempio i New York Yankees. Quando al termine di una buona stagione il general manager Billy Beane si vede portar via i suoi tre migliori giocatori,la loro sostituzione diventa impossibile, soprattutto con i pochissimi soldi a disposizione. A questo punto però Beane incontra Peter Brand, giovane laureato in economia che gli dimostra come si possa costruire una squadra vincente basandosi sulle statistiche invece che sui nomi altisonanti. Beane abbraccia la filosofia del ragazzo e rifonda la squadra con nomi sconosciuti o apparenti scarti, lasciando basiti tutti i collaboratori degli Oakland Athletics, compreso l’allenatore Art Howe. All’inizio le cose non sembrano funzionare, ma pian piano il “sistema” messo in piedi da Beane Brand comincia a dare frutti insperati…
Freddie Quell è un soldato uscito dalla Seconda Guerra Mondiale con il sistema nervoso a pezzi. A poco servono le cure che l’esercito gli offre, se non a rendere esplicita un’ossessione per il sesso. A ciò si aggiunge un forte interesse per l’alcol che si traduce in misture che lui stesso si prepara e che offre agli altri con esiti non sempre positivi. Finché un giorno, in modo del tutto casuale, Freddie incontra Lancaster Dodd. Costui ha inventato un metodo di introspezione che sperimenta sul disturbato Marine, il quale sembra trarne giovamento. Da quel momento ha inizio un sodalizio che li vedrà percorrere insieme un lungo tratto di strada. Anche se il loro viaggio finirà con l’offrire loro esiti assolutamente diversi. Il film che è stato forse il più atteso alla 69^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si rivela perfettamente in linea con l’autorialità di un regista che ha sempre cercato di scrutare il lato oscuro della psiche e dei comportamenti umani senza alcuna intenzione di scandalizzare ma con il desiderio di fare molto di più: cercare cioè di comprenderne le ragioni. Potremmo dire che queste si traducono nel suo cinema con un solo termine: solitudine. Soli, profondamente soli erano i protagonisti di Magnolia nel loro tentativo di sfuggire alle piaghe che spesso si erano inferti da soli. Solo era Il petroliere, bruciato dalle fiamme dei pozzi in cui scorre l’oro nero delle coscienze asservite al Dio Denaro. Soli sono Freddie e Lancaster. Il primo alla ricerca di donne di sabbia che plachino la sua sete sessuale ma anche inconsciamente desideroso di incanalare la propria violenza in forme socialmente accettabili. Il secondo, dotato di un potere di fascinazione su uomini e donne bisognosi di ‘credere’ a vite passate e pronti ad immergersi in dinamiche ipnotiche che li facciano sfuggire a un presente difficile da controllare. Il tutto, da una parte e dall’altra, in un dominio in cui la razionalità non possa infiltrarsi; pena il crollo del castello di illusioni. L’ispirazione a Hubbard, il fondatore di Dianetics, è esplicita ed innegabile ma Paul Thomas Anderson è abilissimo, ancora una volta, nello spiazzare lo spettatore. Chi si aspettava un pamphlet cinematografico sulla capacità di irretire e depredare economicamente gli adepti alla setta, non lasciando loro quasi nessuno spiraglio di fuga, si trova di fronte a tutt’altro. Freddie e Lancaster sono due uomini (perfetta la scelta di Phoenix e Hoffman) che si confrontano mettendo in gioco tutti i loro comportamenti devianti. La differenza tra di loro sta nel modo in cui riescono a gestirli. Alla fine del film si ripensa allo spazio angusto in cui i due si erano incontrati la prima volta mettendolo a confronto con quello in cui finiscono con il ritrovarsi uniti e al contempo divisi più che mai e ci si accorge che in quelle due location si sintetizza il senso di un’opera che sa andare oltre la contingenza della setta miliardaria. L’ultima inquadratura poi riapre il film e chiude l’analisi di una psiche.
Con un passato familiare (sette sorelle!) che non passa, il goffo Barry coabita nella San Fernando Valley (California) con una pacata nevrosi che ogni tanto scarica in solitarie esplosioni di violenza. Nell’amore per l’inglesina Lena trova la forza di uscire dalla sua autistica apatia per affrontare dei ricattatori. E la vita. Dopo l’ambizioso, magnificato e sopravvalutato Magnolia P.T. Anderson abbassa la mira sul registro leggero con una commedia “sbilanciata, asimmetrica, deliberatamente obliqua rispetto ai canoni del genere” (P. Cherchi Usai). L’asimmetria non sta nel plot lineare e prevedibile come sono le favole d’amore, ma nel grottesco stralunato della prima mezz’ora e negli incidenti di percorso. Il sospetto di un esercizio di bravura fine a sé stesso è fondato, ma si deve ammirarne il brio intelligente, anche nella direzione della recitazione: riuscire a rendere buffo e godibile Sandler, divo TV espressivo come un paracarro, non è impresa da poco.
Scritto e diretto da Curtis, sceneggiatore di commedie romantiche di successo, alla sua 2ª regia, è un film lungo ma non prolisso perché vivace nel ritmo, sceneggiato con perizia, interpretato da una squadra di attori vispi che il regista lascia a ruota libera. Si rievoca un episodio storico degli anni ’60: da una nave corsara ancorata nel Mare del Nord, un gruppo di disc-jockey trasmette rock per la gioia di milioni di radioascoltatori. Dalla parte del potere e delle istituzioni c’è un ministro che ricorre a ogni mezzo per far tacere la radio sovversiva. Nonostante gli sfarinamenti nella struttura narrativa, il film funziona: gag abbondanti, dialoghi scoppiettanti, divagazioni spiritose e, ovviamente, la musica: Who, Stones, Jimi Hendrix, Dusty Springfield, Procol Harum. La moltiplicazione dei finali? In linea col disordine creativo del resto.
New York, dopo l’11-9-2001, mentre di notte un fascio di luce segna il vuoto lasciato dal crollo delle Twin Towers a Manhattan. S. Lee e il suo sceneggiatore David Benioff – che ha adattato un suo romanzo – usano quel vuoto quasi a commento di un altro vuoto, poco visibile ma altrettanto luttuoso, per raccontare la storia di Monty Brogan, spacciatore che ha ancora un giorno di libertà prima di entrare in carcere per sette anni. In quelle 24 ore cerca di regolare i conti con sé stesso e con gli altri. È il film più “bianco” (più di SOS Summer of Sam ) del regista afroamericano e forse il più sconsolato e privo di speranza. Il suo tema centrale è la perdita dell’innocenza, riassunta in una domanda che non riguarda soltanto Monty e gli altri personaggi (nessuno dei quali è innocente) ma tutti gli americani – afroamericani compresi -, un’intera nazione: poteva essere diversamente? Se si toglie la paura di essere violentato in carcere, il protagonista accetta con quieta rassegnazione quel che lo aspetta. Anche la sua invettiva xenofoba e misantropa allo specchio contro tutta New York e le sue componenti etniche è uno sfogo, non una ribellione. 16° lungometraggio di Lee, e uno dei più coesi, coerenti, convincenti. Musiche di Terence Blanchard. Norton ammirevolmente sotto le righe.
Nella notte tra il 14 e il 15/11/1959 due giovani in libertà vigilata entrano in una casa isolata di Holcomb (270 abitanti, Kansas) a scopo di furto e fanno strage della famiglia Clutter (padre, madre, due figli). Il 30 dicembre sono arrestati. Rei confessi al processo, sono giustiziati il 14/4/1965. L’anno dopo Truman Capote pubblicò il romanzo-documento, costato sei anni di lavoro, che gli diede la fama. Autore anche della sceneggiatura, R. Brooks ne cava un film di stile semidocumentaristico: asciutto, intenso, implacabile, girato nei luoghi reali, compresa la casa del delitto. Scene raccapriccianti, ma senza compiacimenti. 4 candidature agli Oscar: sceneggiatura, regia, fotografia (Conrad Hall), musica (Quincy Jones). Nel 1996 ne fu fatta una versione TV, regia di Jonathan Kaplan.
Dietro una facciata di normalità rispettabile la vita di una famiglia della classe media (due anziani genitori che stanno per separarsi e tre figlie in vario modo insoddisfatte) cela un groviglio di inconfessabili perversioni e pulsioni distruttive. Anche i loro amici e vicini non scherzano. Titolo antifrastico per il 3° film di Solondz, giovane cineasta indipendente che ha per autore preferito l’austriaco Thomas Bernhardt. Tema: la mostruosità del banale, o viceversa, dissezionata con affilata perfidia e ironia atroce, affidata al Leitmotiv del cibo (della tavola). È una commedia nera estrema. Non fa né ridere né piangere. Nemmeno indignarsi si può. Ma chi può ascoltare, senza esserne inquietato o disturbato, la scena in cui lo psicoanalista confessa, senza pentirsene, la sua pedofilia al figlio undicenne, è meglio che non lo veda. Lungo, forse prolisso. Attori infallibili. Fotografia di Maryse Alberti.
Jon e Wendy, fratello e sorella, vivacchiano a New York in uno stato di ordinaria non-felicità. Jon, docente di letteratura, da anni alle prese con un denso saggio su Brecht, vive con una polacca. Quando a lei scade il permesso di soggiorno, potrebbe sposarla, ma la lascia ripartire. Wendy scrive copioni teatrali che nessuno rappresenta né pubblica, campa con lavori precari e stratagemmi meschini e ha una relazione stracca con un uomo sposato. La loro vita ha uno scossone quando devono occuparsi del vecchio padre scorbutico, che non si è mai occupato di loro, in preda a demenza senile e senza casa. I film sulla vecchiaia – alcuni grandi – non hanno mai avuto successo di pubblico. È rimossa dentro di noi, forse, più che la morte. In questo film che pur è una commedia, amarissima, sugli orrori dei rapporti umani, la Jenkins mette una sequenza notevole – il viaggio in aereo di Wendy con il padre. La vecchiaia non era mai stata raccontata al cinema così impietosamente, ma senza cinismo: Senectus ipsa est morbus . Dialoghi affilati, due protagonisti in gara di bravura. “Ogni vita – scriveva Scott Fitzgerald – è beninteso un processo di demolizione”.
La commedia americana sta vivendo un buon periodo: dopo lo spassoso School Of Rock e il tuffo nel passato di Down With Love, il tandem Stiller /Homburg, già responsabile de Ti presento i miei e Zoolander ci riprova, aggiungendo alla formula magica un po’di sentimento ma, ahimè, togliendo quel gusto per il cinismo e la corrosione, che aveva caratterizzato i due titoli precedenti. Il risultato è un film breve, sfizioso, divertente, leggero e dimenticabile.
Come tre cittadini USA – Charlie Wilson, deputato texano 1973-96, puttaniere senza freni e noto per il suo sostegno ai più deboli; Gustav Avrakotos, agente segreto della CIA; Joanne Herring, miliardaria texana e fervente anticomunista – diedero negli anni ’80 un importante contributo alla resistenza dei guerriglieri islamici mujaheddin (e talebani) contro l’occupazione militare dell’Afghanistan, costringendo l’armata sovietica a ritirarsi nel 1988-89. Il giornalista George Crile impiegò 13 anni per scrivere e pubblicare il best seller Charlie Wilson’s War (2003, Il nemico del mio nemico ), base della sceneggiatura di Aaron Sorkin. È una di quelle storie vere che, portate al cinema, diventano realtà romanzesca, pura fiction. La forza del film è anche il suo limite tanto più che, pur incline ai toni grotteschi, il punto di vista della sceneggiatura e della regia è furbescamente neutrale. Il trio centrale funziona, ma il migliore è P.S. Hoffman, caratterista di 1ª classe.
A Cold Mountain (North Carolina) nasce l’amore tra Ada Monroe (Kidman), agiata figlia di un predicatore, e W.P. Inman (Law), taciturno carpentiere. La guerra di Secessione li divide. Arruolato nelle file sudiste, Inman scampa al massacro di Petersburg (1864), diserta e si mette in cammino per raggiungere Ada che, intanto, si fa aiutare dall’indomita Ruby (Zellweger) per rimettere in sesto la fattoria paterna. Il 5° lungometraggio del britannico A. Minghella – che ha sceneggiato un romanzo di Charles Frazier – è un melodramma d’amore fondato sul montaggio parallelo di due blocchi narrativi: le drammatiche vicende dei due amanti lontani, separati prima dalle differenze di classe, poi dalla guerra. Dopo la battaglia di Petersburg – una larga sequenza di forte impatto spettacolare – il blocco mobile e avventuroso di Inman, scandito in varie tappe come si addice a un racconto di viaggio, risulta meno coinvolgente di quello stabile di Ada e del suo duetto con Ruby in un personaggio di maschietta che è valso a R. Zellweger l’Oscar per l’attrice non protagonista. Esterni girati in Romania. Scenografie di Dante Ferretti. Altre 5 nomination: J. Law (attore), John Seale (fotografia), Walter Murch (montaggio), Gabriel Yared (musica con brani folk e bluegrass ), canzone originale.
Un film di David Mamet. Con Alec Baldwin, William H. Macy, Sarah Jessica Parker, Philip Seymour Hoffman, Julia Stiles. Titolo originale State and Main. Commedia, durata 105 min. – Francia, USA 2000. MYMONETRO Hollywood, Vermont valutazione media: 3,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
La troupe di una produzione arriva nella cittadina di Waterford nel Vermont. La location parrebbe ideale per la storia, ambientata alla fine dell’800. I personaggi sono: un regista sull’orlo di una crisi di nervi (naturalmente), un divo che ha una passione per le adolescenti (con relativi guai in passato), una diva emotiva con una sua problematica contorta, sempre sul punto di far saltare il contratto, lo sceneggiatore, timido e disarmato costretto, da un minuto all’altro, a stravolgere la storia dal titolo Il vecchio mulino) perché il mulino che doveva esserci, con tanto di risparmio di budget, è andato in fiamme nel 1960. Poi ci sono i locali, il sindaco, il procuratore, il medico, i contadini: tutti impazziti per il film. Infine c’è la bella autoctona, a suo modo artista, che si innamora dello scrittore. Il resto è il mondo paradossale del cinema, gli ostacoli che si pongono, insuperabili, risolti all’ultimo col colpo di genio… o di denaro. Tutto sta per crollare perché il divo si è di nuovo messo nei guai con la ragazzina. Ed ecco il “coniglio” che mette tutti d’accordo. Il cinema, – con la sua confusione, con le sue regole dove tutto va bene, tutto va male – alla fine ha sistemato tutto. Per la gioia di tutti. Il filo d’oro del genere, da Viale del tramonto ai Protagonisti, viene ripreso in tutta nobiltà. Mamet è anche lo sceneggiatore, ed è intelligente, leggero. Si sorride, si sta bene. Non c’è violenza, non c’è neppure la scappatoia del sesso. Profumo di Allen e di Cohen. E davvero non è poco. View full article »
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