Giovane compositore di provincia evade dalla triste realtà quotidiana viaggiando in sogno attraverso i secoli e trovandovi belle donne innamorate finché si accorge che la felicità è a portata di mano. Clair voleva soltanto “divertire e far sorridere”. Ci riesce. Non è il suo film migliore, ma il più paradigmatico. E c’è Philipe, fulgido emblema di giovinezza.
Una ragazza si allontana dalla famiglia che l’opprime. Gli impieghi che trova non fanno che peggiorare la sua situazione; ben che vada il suo titolare vuol portarsela a letto. La conoscenza di un ragazzo tetro e insoddisfatto le crea altri problemi. I due predispongono addirittura un suicidio, che poi non realizzano perché tutto sommato è meglio restar vivi e volersi bene.
Film di attori: Manfredi è bravo e non strafà; Tiffin è carina e ben doppiata; Tognazzi, che ricorda Harpo Marx, ha la modestia di rinunciare alla parola. La dolorosa istoria della contrastata passione tra Marino, barbiere di Alatri, e la sventurata Marisa. Dopo tante sciagure e tentati suicidi, coronano il loro sogno d’amore. Scritto da Age & Scarpelli, con dialoghi ricalcati sulla lingua della subcultura popolare (fotoromanzi, canzoni, ecc.).
Provincia toscana, anni ’30. Giovanni (Stefano Accorsi), impiegato di banca e padre di famiglia, ritrova Maria (Maya Sansa), suo vecchio amore: tra i due rinasce la passione. Sull’esile traccia di un triste romanzo di Carlo Cassola (Una relazione, 1969), Carlo Mazzacurati tira fuori senza troppi sforzi un film altrettanto esile e triste. Se gia’ il romanzo appariva ai suoi tempi nostalgico e datato, il film arriva sicuramente fuori tempo massimo, con una forza comunicativa prossima allo zero. In teoria, si potrebbe fare grande cinema anche narrando piccole vicende, mettendo in scena personaggi poveri, rievocando ambienti lontani nel tempo. Tuttavia Mazzacurati adegua anche la sua regia al minimalismo della storia, si affida ai bei paesaggi tirrenici, spreca il talento di due tra i nostri migliori attori, che ci fissano dallo schermo con espressioni sorprendentemente piatte e intorpidite, quasi a disagio.
Due vecchie stelle dell’età dell’oro della tv in bianco e nero, i ‘Sunshine Boys’, vengono riesumate per un film natalizio. Per i due, che non si sono mai sopportati, il forzato incontro dopo anni di serena lontananza è occasione per un’esilarante serie di gag.
Non esiste versione in italiano. Ho rippato il dvd5. I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Una coppia di attori meravigliosamente in sintonia sul piano professionale non riesce a trovare lo stesso accordo nella vita di tutti i giorni. Finita l’epoca d’oro del successo, vivono l’uno di qualche sketch pubblicitario, l’altro della carità della figlia. Una trasmissione televisiva permette ai due protagonisti di ritrovarsi, ma gli antichi rancori esplodono quasi subito. Uno di essi, colpito da infarto, decide di ritirarsi in un pensionato per attori, senza sapere che il collega ha adottato la medesima soluzione.
Ci sono tutti, i personaggi principali del romanzo di Collodi, nel Pinocchio di Matteo Garrone: Geppetto e il suo burattino di legno, Lucignolo, Mangiafuoco, la Fata Turchina, il Grillo Parlante, il Gatto e la Volpe, fino all’Omino di burro, il Tonno e la Balena. Perché questo ennesimo adattamento cinematografico di una delle favole italiane più note nel mondo è enormemente rispettoso dell’originale, come già era stato Il racconto dei racconti al testo di Gianbattista Basile.
C’è una cura devota nella ricerca delle facce giuste, negli scenari che chiunque abbia letto Pinocchio ha immaginato, nei dettagli dei costumi, del trucco (impressionante il legno con cui è costruito il bambino), degli effetti speciali artigianali, come lo erano stati ne Il racconto dei racconti, e utilizzati con grande parsimonia, ovvero solo quando narrativamente necessari.
In questa cura c’è tutto l’amore e la reverenza che Garrone ha verso il testo di Collodi, il suo perfetto equilibrio nel dosaggio degli elementi narrativi e nella caratterizzazione di personaggi che sono diventati archetipi, verso quell’ingranaggio drammaturgico che vede il percorso di iniziazione alla vita di un burattino che sogna di diventare un bambino (e dunque un uomo) vero dipanarsi per corsi, ricorsi e inciampi, sempre due passi avanti e uno indietro, con un andamento ad elastico sempre pronto a ritornare bruscamente al punto di partenza, proprio quando sembrava così vicino al salto evolutivo.
Gli interpreti son perfetti: Benigni trattenuto e straziante (come già il Nino Manfredi del Pinocchio televisivo di Luigi Comencini), il piccolo Federico Ielapi minuto ma tosto, sempre in equilibrio fra intraprendenza e desiderio di appartenere, disobbedienza e lealtà.
E poi Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, nati per diventare la Volpe e il Gatto, Gigi Proietti credibilissimo come il burbero Mangiafuoco dallo starnuto facile, le due fatine (bambina e adulta) Alida Baldari Calabria e Marine Vacht, la prima compagna di giochi (e marachelle), la seconda mamma e Madonna; il grillo parlante Davide Marotta. Standing ovation per Maria Pia Timo (la Lumaca), Enzo Vetrano (il Maestro) e Nino Scardina (L’Omino di burro).
Rinchiuso con i suoi Apaches Chiricahua nella riserva di Turkey Creek, a causa di numerosi soprusi, nel 1885 Geronimo (Studi) si ribella e riprende le armi. La guerra indiana ricomincia ai confini col Messico.
2° western di Hill, cineasta urbano, dopo I cavalieri dalle lunghe ombre. Circoscritto al biennio 1885-86, è la storia di una sconfitta che celebra il vinto e vitupera il vincitore. Non a caso si chiude con le dimissioni dall’esercito del narratore (Damon). Ma l’aspetto più interessante del film sul piano narrativo _ la sua dimensione critica e didattica _ finisce col coincidere con il suo limite. Scritto da John Milius e Larry Gross.
Il noir-thriller coreano è un mirabile esempio di meccanismo perfettamente oliato, capace di riproporsi e rinnovarsi in ogni occasione, con l’aggiunta di elementi che permettono di evitare il prevalere dei cliché sulla volontà di stupire lo spettatore. Lee Jeong-beom, fin qui noto solo per il folgorante debutto di Cruel Winter Blues – malinconica vicenda di piccoli gangster e del bisogno di affetti familiari – ovvero per un taglio originale e collaterale al gangster movie, con The Man from Nowhere rientra con decisione nei canoni consolidati di genere, confezionando un’impressionante vicenda di vendetta. Se nel primo film la manovalanza mafiosa era costituita in fondo da fragili esseri umani, qui sono raffigurati come villain senza se e senza ma. Traffico di organi, rapimento di minori e loro utilizzo come corrieri della droga, omicidi brutali: si può dire che la coppia di fratelli Man-seok e Jong-seok sia una delle più ripugnanti mai apparsa su grande schermo, così abietta da giustificare qualsiasi tipo di vendetta, anche la più truce ed efferata. L’uomo destinato a metterla in atto è Cha Tae-sik, una macchina da guerra addestrata per uccidere, come in un ideale incrocio tra il Benicio Del Toro di The Hunted, Frank Costello di Melville e gli uomini-belva di Dog Bite Dog di Soi Cheang. The Man from Nowhere riesce in quel che dopo gli exploit di The Chaser e Man of Vendetta pareva impossibile: alzare ulteriormente l’asticella in termini di truculenza ed efferatezza e sfoggiare dei villain così riprovevoli da rendere catartico lo spargimento di sangue finale, cancellando ogni genere di remora riguardo ai metodi dell’angelo vendicatore. L’esagerazione fumettistica delle sequenze action però non contrasta con l’interpretazione tutt’altro che ovvia dell’idolo delle adolescenti Won Bin, già ammirato in Mother nei panni del figlio ritardato e sempre più desideroso di affrancarsi dal ruolo di pin-up al maschile; non è da meno la piccola Kim Sae-ron – appena undicenne ma già con una carriera folgorante in corso, dopo la prova maiuscola di A Brand New Life – ancora alle prese con un’infanzia tormentata e con la difficoltà di dover mutare più volte registro, passando dalla vivace curiosità delle prime sequenze al necessario annullamento di ogni irrequietezza dovuto alla prigionia. Stratosferico in patria – e per una volta ampiamente meritato – l’incasso al botteghino.
Da 3 fiabe ( La cerva fatata , Lo polece , La vecchia scortecata ) di Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (1575-1632) trasposte a intreccio e con sostanziali modifiche dai 4 sceneggiatori, tra cui Garrone stesso. Divenuta madre in seguito a una gravidanza magica, una regina è turbata dal rapporto del suo unico figlio col figlio di una serva, suo sosia. Un re deve dare la figlia in sposa a un orco perché è l’unico che riesce a superare la prova creata per ottenere la mano della principessa. Una vecchia, scambiata dal suo re per una giovane, accetta di passare la notte con lui, purché al buio; scoperta e gettata da una torre, si salva e diventa una meravigliosa fanciulla. Nella sua rivisitazione delle fiabe barocche di Basile, Garrone ne ha accentuato i toni grotteschi e truculenti ma anche il carattere di apologhi sulla tracotanza dei potenti. Esercizio di stile di altissimo livello, certo, ma fine a sé stesso e, alla fine, lungo e noioso. Se nei film precedenti Garrone aveva sfiorato il formalismo, questa volta lo ha abbracciato. Fotografia incantevole di Peter Suschitzky, splendide scenografie di Dimitri Capuani, costumi fiabeschi di Massimo Cantini Parrini, musiche suggestive di Alexandre Desplat.
Il tenue filo che lega i nove episodi del film è costituito da un rivenditore di libri usati che presenta alcuni volumi. Per ognuno Blasetti ha saputo trovare la giusta chiave narrativa, ben sostenuto da un gruppo di attori di prim’ordine.
Scapolo impenitente tenta di dissuadere il nipote dal matrimonio, ma il giovane parte alla controffensiva e vince la battaglia. Lo zio sconfitto finirà per sposare la segretaria che l’amava in segreto. Commedia umoristica senza molte pretese è più che altro una sfilata di storielle, abbastanza ben condite da trovate divertenti, interpretate da noti attori di varietà.
Carlo, avendo vinto al gioco una forte somma, lascia il natio paesino presso Cremona e si reca a Roma per far bagordi. Giunto nella capitale, si accorge d’esser stato derubato di tutti i soldi. Cominciano allora innumerevoli peripezie del povero cremonese che però si concluderanno con un felice matrimonio.
Abbandonata la società, un disegnatore di fumetti vive in un’isoletta sarda in compagnia del cane Melampo. Lo raggiunge una donna, uccide il cane e ne prende il posto come compagna muta e fedele. Dal racconto di Ennio Flaiano Melampus (1970) che lo sviluppò in una sceneggiatura rielaborata poi da Ferreri con J.C. Carrière. Doveva essere l’esordio alla regia di Flaiano. Apologo amarissimo sulla solitudine in un mondo degradato, condotto in uno spazio chiuso, con soprassalti ironici e misogini. Alto livello stilistico. Il rapporto centrale è raccontato senza sadismo né compiacimenti morbosi.
Un’americana sposata trascorre qualche settimana di vacanza a Roma. Qui si innamora di un professore e ne diventa l’amante. Un giorno, dopo una telefonata da casa, la donna decide di partire. A nulla valgono i tentativi dell’uomo per trattenerla: la paura dello scandalo è più forte di lei, benché giuri allo spasimante che lo amerà per sempre.
Un film di Roger Corman. Con Ray Milland, Hazel Court, Richard Ney Titolo originale The Premature Burial. Horror, durata 81′ min. – USA 1961. MYMONETRO Sepolto vivo valutazione media: 2,71 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Terrorizzato dall’idea di essere sepolto vivo si fa costruire una bara speciale. Quando gli succede davvero, ne esce e si vendica. 3° dei 5 film di Corman ispirati ai racconti di E.A. Poe, unico in cui R. Milland sostituisce Vincent Price. Scritto da Charles Beaumont e Ray Russel e, come gli altri, affidato a Floyd Vrosby (fotografia) e Daniel Haller (scene). Ha il torto di avere un’azione statica e, dunque, un’atmosfera gotica che talvolta sembra fine a sé stessa invece di essere un veicolo di suspense e paura. Come il solito, emerge qua e là una vena di umorismo ironico. Milland efficace nelle scene oniriche.
Durante una sosta in un pianeta sconosciuto un essere s’introduce nella Nostromo , gigantesca astronave da carico, e semina terrore e morte tra i sette membri dell’equipaggio. Sopravvive soltanto la coraggiosa Ripley. È un thriller fantascientifico con componenti di horror e suspense che conta poco per quel che dice, ma che lo dice benissimo, grazie a un apparato scenografico di grande suggestione e a un ritmo narrativo infallibile. La sua chiave tematica è la paura dell’ignoto, perciò pesca nel profondo. Oscar per gli effetti visivi a Carlo Rambaldi, H.R. Giger, Brian Johnson e Nick Allder. Da novembre 2003 è in circolazione una nuova edizione rimasterizzata in digitale curata da R. Scott. Colonna musicale di J. Goldsmith.
L’ordine di visione è come li ho segnati nella cartella Mega.
Il film narra la storia di un commissario di polizia inglese che, nell’imminenza della pensione, sfrutta l’abilità di un ladro internazionale per fargli eseguire un colpo col quale si sistemerà.
Non ho trovato versione in italiano. I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
1940, a Sorman, oasi nel deserto libico dov’è accampato il 3° Reparto della 31ª Sezione Sanità, in un clima indolente di vacanza esotica anche se c’è qualcuno che si preoccupa di soccorrere la popolazione locale. Un’offensiva dell’esercito britannico rovescia drammticamente la situazione. Scritto dal regista con Alessandro Bencivenni e Domenico Saverni, dal diario di guerra II deserto della Libia (l95l) di Mario Tobino e dal racconto II soldato Sanna in Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco. Fotografia: Saverio Guarna. Girato a budget ridotto tra maggio e giugno in Tunisia, il 65° film del novantunenne Monicelli (85° come sceneggiatore) è all’insegna della precarietà, interna ed esterna, narrativa e produttiva. È uno dei rari registi al mondo che sanno raccontare la morte, rispettandola, in cadenze di commedia e di rappresentare una tipologia di italiani in divisa e in guerra, brava gente stracciona, con un cinismo affettuoso, qui più che mai affettuoso, tirando fuori le unghie satiriche soltanto per la stupidità pomposa (il generale di T. Sanguineti) di chi li comanda. “Il film c’è, qua e là raffazzonato, esorbitante o insufficiente. Ma c’è.” (A. G. Mancino). E’ una guerra raccontata da una prospettiva “dal basso” ma, nel suo squallore, in modi realistici e veritieri. Come i suoi personaggi, i soliti militi ignoti.
Seguito dell’ Armata Brancaleone. Ma non un pigro seguito. Le avventure, i personaggi del secondo capitolo sono tanti e quasi tutti divertenti. Partito per le crociate con la turba del frate Zenone, Brancaleone scampa per un pelo al massacro dei compagni, salva una principessa francese e un’avvenente streghetta che stava per essere bruciata viva. Raggiunge in Terrasanta l’esercito di Boemondo, ma ne viene scacciato quando si scoprono i suoi oscuri natali. Duella con la Morte e questa volta è la streghetta a salvarlo ma a prezzo della vita. Manca al secondo Brancaleone la novità dei caratteri e del latino maccheronico. In compenso le trovate sono molte: dal personaggio dello stilista (ricalcato sul Simone del deserto di Buñuel) al giudizio di Dio fra papa e antipapa, dalla corte di Boemondo (vista come l’opera dei Pupi) ai personaggi di Toffolo e Villaggio.
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