Due allevatori cassintegrati, quasi in risarcimento della negata indennità di licenziamento, rubano Corinto, campione taurino di riproduzione che vale un miliardo, per (s)venderlo all’Est. Come nelle opere precedenti del padovano Mazzacurati, il film parte da un’idea forte, originale, carica di potenziale metaforico _ il magnifico e mostruoso toro diventa qui l’emblema del capitalismo _ ma il racconto si rivela poi debole e sfrangiato. I temi sono indicati, ma non approfonditi. Manca di energia. Abbonda, invece, come in tanto cinema italiano degli anni ’90, un’aria lamentosa di sconfitta, rassegnazione, disorientamento. Musiche di Ivano Fossati. Leone d’argento a Venezia e Coppa Volpi a Citran come miglior attore. 2 Grolle d’oro: regia, produzione (Cecchi Gori).
Compendio petroliniano che spazia dalle macchiette alle opere teatrali, in oltre tre ore di spettacolo ad altissimo livello, allestito, con la complicità di Ugo Gregoretti, per il Brancaccio con la collaborazione degli allievi del Laboratorio di Esercitazioni Sceniche, tra i quali si riconoscono gli immancabili Giorgio Tirabassi e Sandra Collodel. Il primo tempo è un grande ripasso generale del repertorio di Petrolini (Nerone, Fortunello, Gastone, La canzone delle cose morte, Ma l’amor mio non muore…), spezzettato in schegge impazzite e ricucito anche con qualche inserto dannunziano (dal “Piacere”, esilarante);nel secondo tempo si alternano sulla scena, in un movimentato collage, tre commedie: Romani de Roma, Benedetto tra le donne (che saranno in seguito ripresi in Per amore e per diletto, cui vi rimando per le trame), e Il Padiglione delle meraviglie. La trama di quest’ultimo spettacolo è molto semplice: in un povero circo romano, l’ex domatore Tiberio (Gigi), costretto a riposo da una malattia, soffre per l’abbandono della sua ex amante Sirena, che gli preferisce, da quando si è ammalato, il forzuto Tigre. Ma Tigre è sposato, e per vendicarsi dello sgarbo Sirena propone a Tiberio uno scambio: sarà di nuovo sua, e per sempre, se riuscirà ad umiliare Tigre, in qualunque modo. Allora Tiberio sfida il forzuto in una gara di lotta e lo uccide, ma lo sforzo risulta fatale anche per lui.
Registrazione parziale dello spettacolo teatrale portato in giro nella stagione 2005-06 con più di 250 000 spettatori. Il prologo dei quattro alieni che sbarcano sulla Terra in una città simile a Milano, è un pretesto per legare la catena delle scenette comiche. Da non perdere i fuoriscena sui titoli di coda. L’umorismo frizzante (con risvolti surreali) prevale sulla satira, ma non mancano i rimandi agli umori antimeridionali della Lega nordista. La solita ripartizione dei ruoli nel trio dà spazio soprattutto alla buffoneria sopra le righe di Aldo, impegnato anche nel cantare in platea una passionale “My Way”. È apprezzabile, comunque, l’onestà dell’operazione che non soltanto sottolinea la natura teatrale dello spettacolo, ma ne amplifica il fascino. Il merito è anche di R. Gaspari che sfrutta a dovere le invenzioni di A. Brachetti. Nella vita S. Fallisi è moglie di Aldo.
Salvatore Lucania (Lucky Luciano) fu il capo assoluto della mafia fra il 1931 e il 1945. Allontanato dagli Stati Uniti, giunse in Italia da dove diresse il traffico internazionale della droga. Morì d’infarto all’aeroporto di Capodichino. Rosi usa la tecnica del documentario.
Tom, modesto impiegato sposato e con prole, vive un’esistenza tranquilla e opaca. La moglie lo spinge a reagire per migliorare la situazione. Da un romanzo (1955) di Sloan Wilson, sceneggiato da Johnson, una maratona melodrammatica interessante più per quel che tace che per quel che dice, per gli spiragli che apre sui problemi dell’uomo medio americano. Superbo cast di attori, a Cobb 30 e lode. Musiche di B. Herrmann. Cinemascope: Ch.G. Clarke.
Un politico italo-americano mette in atto una campagna per guadagnare voti: liberalizzare la droga, in modo da bloccarne il commercio mafioso. Fa però l’errore di pubblicizzare il suo viaggio di nozze a Palermo. La tragica fine della vicenda però avverrà negli Stati Uniti. Anche se il film risulta scorrevole il messaggio del regista va a scapito della materia cinematografica che si riduce ad un semplice apporto. Convince abbastanza la recitazione di James Belushi.
L’ispettore Bellaver (Alfred Marks) indaga su una serie di strani delitti e, dopo un lungo inseguimento in auto, riesce a catturare l’omicida. Ammanettato all’auto, l’assassino si libera tranciandosi di netto una mano. Poi fugge dal misterioso dottor Browning (Vincent Price) e finisce nell’acido autodistruggendosi. Nel frattempo un oscuro complotto politico si sta organizzando in un’altra nazione sotto la guida di Konratz (Marshall Jones), che non esita a uccidere il maggiore Benedek (Peter Cushing). Browning sta cercando di costruire un essere superumano con parti di esseri viventi e l’omicida era il risultato di un esperimento. Entra in scena Fremont (Christopher Lee), capo dell’Intelligence britannica e decisamente ambiguo. Thriler horror fantascientifico di grandi ambizioni, è diretto con concitazione e ricercatezza da un Gordon Hessler all’apice delle possibilità e con una grande voglia di innovare l’ingessato mondo dell’horror britannico che stava attraversando una fase stagnante (Michael Reeves escluso). La trama, basata su un romanzo di Peter Saxon, è fortemente caratterizzata dallo stile funambolico e criptico dello sceneggiatore Christopher Wicking, che gioca con vari generi facendone un mélange ardito, dalla struttura complessa e talvolta un po’ confusa. L’intelligente messa in scena non nasconde qualche banalità e nell’insieme il film resta in parte irrisolto. Un elemento di interesse è la riunione di tre grandi dell’horror, ma quello di Cushing è un brevissimo cameo, mentre Price e Lee vanno con il pilota automatico. Film bizzarro, i cui elementi singoli valgono più dell’insieme.
Egocentrico, borioso e odioso giornalista specialista in meteorologia, a Punxsutawney (Pennsylvania) per l’annuale Festa della Marmotta, è costretto a rivivere, senza sosta, all’infinito, la stessa giornata. L’incubo gli cambia la vita. Commedia filosofica e sentimentale che parte da una buona idea, sceneggiata con intelligenza senza cadere nel ripetitivo e sostenuta da una sapiente regia: attori ben diretti, buona ambientazione della provincia americana, montaggio funzionale, capacità di mescolare i toni umoristici con quelli grotteschi.
Tratto da un notissimo racconto di Poe, il film racconta di un giovane che penetra in un castello misterioso alla ricerca della sorella rapita e si trova legato sotto una mannaia a forma di pendolo che cala sempre più su di lui.
Una fiaba ambientata nel Duecento. Il cattivo signore di un borgo francese ha trasformato due innamorati in due animali: lui diventa un lupo di notte, quando lei è una bella fanciulla; lei è un falco di giorno, quando lui è un prode cavaliere. Insieme affrontano una fantastica avventura, finché durante un’eclisse solare, il maleficio si dissolve. Girato interamente in Italia, il film si avvale dell’ottima fotografia di Vittorio Storaro.
Principe spagnolo s’innamora di bella popolana del Sud, specialista in fatture. Per sposarla, impone alle principesse pretendenti una gara: vincerà colei che laverà più piatti nel minor tempo senza romperne. Ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (1575-1632), è una storia d’amore in forma di fiaba con intenzioni di contro-fiaba che si disperdono nella dominante cifra coreografica, nel raffinato gioco degli specchi tra stracci e broccati. Da ricordare almeno l’episodio di san Giuseppe da Copertino.
Il giovane favoloso inizia con la visione di tre bambini che giocano dietro una siepe, nel giardino di una casa austera. Sono i fratelli Leopardi, e la siepe è una di quelle oltre le quali Giacomo cercherà di gettare lo sguardo, trattenuto nel suo anelito di vita e di poesia da un padre severo e convinto che il destino dei figli fosse quello di dedicarsi allo “studio matto e disperatissimo” nella biblioteca di famiglia, senza mai confrontarsi con il mondo esterno.
Figlio trentacinquenne timido del sarto pontificio (Giannini) e ignaro di donne, Nello Balocchi (Marcorè) è mandato dal padre a insegnare latino e greco nella carnale Bologna dove s’innamora di Angela (Incontrada), ricca, bella, incostante e non vedente che, pur col cuore altrove, gli corrisponde. Epilogo malinconico. Tentativo soltanto in parte riuscito di coniugare la vena elegiaca con quella romanzesca, il 28° film di P. Avati ridonda: nella timidezza di Nello; nel macchiettismo romanesco di Giannini; in inverosimiglianze di sceneggiatura; nell’idealizzazione; nell’amore per la Bologna del tempo che fu. Il nostalgico Avati ha dimenticato che “la nostalgia spesso si alimenta, più che dei ricordi, di amnesie” (G. Pontiggia). Del nucleo della storia rimangono la notte d’amore e l’incontro finale, ma non mancano invenzioni bizzarre e notazioni curiose. Fotografia del fido Pasquale Rachini, musiche di Riz Ortolani. Premio Donatello per la regia. Nastro d’argento a Marcorè.
Tre funzionari sovietici, in missione in Francia per vendere dei gioielli, sono “convertiti” ai piaceri consumistici da un aristocratico, amico intimo dell’ex proprietaria dei monili. Per ricondurli alla retta via arriva dalla Russia l’inflessibile Nina Ivanovna Yakusciova. Tra tensioni politiche e altre discrepanze la forza dell’amore nella Parigi di fine anni 30 avrà la meglio sul resto. In Ninotchka (sceneggiato tra gli altri da Billy Wilder, prima di diventare regista) a Lubitsch non interessa il risvolto ideologico della storia non attribuendo troppa serietà al manicheo scontro comunismo/capitalismo e prendendosi gioco di una parte e dell’altra. Sono piuttosto la messinscena e l’umorismo sottile delle battute a rilevare in una sapiente compressione di idee e significati in singole sequenze.
Dopotutto il Lubitsch touch, il tocco di Lubitsch o alla Lubitsch ha segnato il cinema. Un regista innovativo in un’epoca in cui la settima arte era standardizzata su cliché fortemente collaudati in relazione alla tradizione dei paesi dove i film venivano realizzati. Raffinato, audace, irriverente, elegante, fascinoso “il suo cinema è il contrario del vago, dell’impreciso, dell’inespresso, dell’incomunicabile, non ammette mai nessuna inquadratura decorativa, messa là per fare bella mostra: no, dall’inizio alla fine si è immersi nell’essenziale, fino al collo” come disse efficacemente François Truffaut. Unico ruolo brillante nella carriera della “divina” Garbo, qui al penultimo film e all’ultimo capolavoro. La MGM pubblicizzò il film con lo slogan: “Garbo laughs!” (“La Garbo ride!”) operando una sorta di demolizione del mito, preannunciandone un’umanizzazione. La pellicola è anche nota per essere una delle prime satire politiche alla Russia di Stalin di particolare impatto considerando la data di distribuzione nelle sale in Europa (un mese dopo l’uscita del film la Germania nazista invadeva la Polonia). Vietato in Unione Sovietica e nei suoi stati satelliti nel dopoguerra il film fu proibito anche in altri paesi europei per paura di “turbamenti all’ordine “pubblico” e risultava ancora inedito in Finlandia fino al 1988. Il film è stato candidato a quattro premi Oscar ma senza vittoria: era l’anno del trionfo di Via col vento.
Un film di Jacques Becker. Con Jean Gabin, Delia Scala, Lino Ventura, Vittorio Sanipoli, Jeanne Moreau. Titolo originale Touchez pas au grisbi. Drammatico, b/n durata 94′ min. – Francia 1954. MYMONETRO Grisbi valutazione media: 3,67 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Due gangster, vecchi amici, vogliono chiudere la carriera con un grosso colpo. Una ragazza rivela a un rivale il progetto. Raro film nero dove il ritmo spedito dell’azione coabita con la finezza dell’analisi psicologica. Un’elegia sull’amicizia virile nel mondo della malavita. Da un romanzo (1953) di Albert Simonin. Becker filma con grande discrezione senza concessioni allo spettacolo né dialoghi brillanti. La musica di Jean Wiener contribuisce all’atmosfera.
Con partenza da Firenze il 26 agosto 1944, dopo l’arrivo degli Alleati, un anziano ex pugile mette insieme un quartetto di giovanotti affamati allo sbando, portandoli a tirar pugni nelle sagre di paese. Film corale picaresco di svelta protervia e apparente futilità in una miscela di disincanto e buffoneria, pathos e ironia, crudeltà e tenerezze di contrabbando. Soggetto di Rodolfo Angelico, sceneggiato da L. Benvenuti, P. De Bernardi, S. Cecchi D’Amico, M. Monicelli.
La tigre, dicono gli ecologi, è un animale in via d’estinzione e bisogna salvarla, ma anche il protagonista di questo film è il rappresentante di una specie in via d’estinzione. Si tratta infatti di un bravo borghese americano che non capisce più il mondo in cui si trova a vivere: tutti i suoi ideali sono crollati. In una scena, rimasta famosa, recita a una ragazza hippy con cui ha avuto un’avventura i nomi di personaggi famosi ai suoi tempi e lei non ne riconosce nessuno.
Costa del Brasile, 1805: a migliaia di leghe lontano dall’Europa, infuria un’epica battaglia che può cambiare le sorti della guerra di Napoleone alla conquista dell’Inghilterra. La Surprise, vascello della Royal Navy guidato dal Capitano Jack “Lucky” Aubrey, e la Acheron, nave francese di stazza e potenza di fuoco estremamente superiori, si sfuggono e si inseguono, a viso aperto o col favore della nebbia, si scambiano di ruolo da preda a predatore. A bordo della Surprise, la patriottica devozione di Aubrey si scontra con l’etica scientifica del suo amico e medico di bordo Maturin, ma sapranno trovare una nell’altra la chiave per il successo dei propri scopi. Mettete una montagna di soldi in mano ad ognuno dei registi di Hollywood e state certi che, dopo averla resa poco più che una collinetta per onorare i cachet dei maggiori divi del momento, nove su dieci faranno un film mediocre, che farà storcere il naso ai critici, che avrà il sapore del “già visto”, eccetera. Peter Weir è il decimo tra questi registi. La sua montagna d’oro si trasforma nel sontuoso Master & Commander, un film compatto come un megalite. Sebbene realizzato interamente a mollo nell’Oceano, M&C non fa acqua da nessuna parte e non sono necessari grandi giri di parole per spiegarne la grandiosità: gli attori sono eccellenti (ad essere sinceri, Bettany sembra un candidato più credibile di Crowe alla statuetta più ambita del mondo, anche se quale attore non protagonista); la regia è essenziale e di stile, lasciando parlare tutta la serie di meravigliosi elementi scenografici: dalle navi ai costumi passando per le isole Galapagos, mai viste al cinema, che lasciano intontiti per la loro bellezza; la fotografia riesce a virare con piacevole disinvoltura da una prima parte grigia e nebbiosa ad una seconda soleggiata e splendente, con nel mezzo una tempesta da cineteca dei sogni. Non bastasse, in M&C c’è anche il sentimento – e non certo l’amore, visto che la presenza delle donne è ridotta ad una ventina di secondi di bellezze caraibiche. Cuore e testa (quello del Capitano Crowe che si fa travolgere dall’orgoglio e dal fervore patriottico e questa del dottor Maturin che sacrificherebbe la sua stessa vita nel nome della scienza) possono convivere senza dover sacrificare il “terzo incomodo”, l’amicizia: e come, se non traendo forza l’uno dall’altra e viceversa? Connubio creativo meravigliosamente sottolineato, in chiave metaforica, da Capitano e Dottore che, al riparo della cabina, danno vita col mescolarsi dei loro strumenti da camera ad una creatura armoniosa e magica come solo la musica è. E quando i due si scambiano le partiture, cambia la musica ma la magia resta la stessa. Anzi, si fa più bella di prima. Con questo film che sa di Ben Hur più che di Titanic, diamo un caloroso bentornato al Kolossal con la K maiuscola.
Sulla scia di Oggetti smarriti , nasce a pochi mesi di distanza questo documentario sulla popolazione notturna della Stazione Centrale di Milano, prodotto da Unitelefilm con RAI 2 e l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio di Roma. Fa parte di una serie di film-inchiesta sulle grandi città italiane rette da giunte rosse: Torino ( Vorrei che volo di E. Scola), Roma ( Comunisti quotidiani di U. Gregoretti), Napoli ( Napoli, due città di A. Vergine), in funzione della propaganda elettorale del PCI. Suddiviso in 33 capitoletti in ordine alfabetico, è un film d’autore che mette in immagini la Milano sommersa, con la gente che in stazione abita e dorme: drogati, barboni, puttane, pugili suonati, vagabondi, alcolizzati, barflies . La Stazione Centrale come ventre di Milano, metropoli europea. Contaminazione di documentario, tecniche di cinema diretto, e ambizioni di fiction nel tentativo di dare agli intervistati statuto e statura di personaggi, qua e là risente di rigidità nell’impostazione tematica populista e, insieme, intellettualistica, ma ha un’ammirevole equilibrio tra lucidità di sguardo e partecipazione emotiva senza concessioni al sentimentalismo né alla demagogia. L’etichetta di documentario gli sta stretta e quella d’inchiesta è poco pertinente. Fu poco usato come propaganda elettorale perché utilizzabile non era. A Milano – dove non c’era una giunta rossa – la proiezione, seguita da dibattito, avvenne per iniziativa personale di Pietro Ingrao. 1° premio ex aequo al Festival dei Popoli di Firenze.
Un capitano della polizia sovietica dà la caccia in America a uno spacciatore di droga russo. Costui, arrestato a Chicago per un reato minore, viene consegnato a Danko (Schwarzenegger) ma fugge con l’aiuto dei suoi complici. Danko deve rimettersi al lavoro, in coppia con un volonteroso agente americano.
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