Uno yuppie di Manhattan una sera viene morsicato da una vampira. Almeno così lui crede. In realtà è soggetto a una paurosa schizofrenia che lo porta a comportarsi come un Dracula.
Un vecchio e decrepito palazzo romano a fitto bloccato è di proprietà di Amedeo Pecoraio e di sua sorella Ofelia, maturi zitelli. Una società immobiliare offre loro una grossa somma a condizione che tutti gli inquilini siano sfrattati. La morte per veleno del loro soriano offre ai due proprietari il pretesto per spiare la vita degli inquilini resistenti. Come in Lo scopone scientifico , soggetto e sceneggiatura (con Augusto Caminito) sono di Rodolfo Sonego: il tono generale è più cupo e crudele, ma eccede nella tensione verso la metafora a scapito della verosimiglianza. È uno dei film degli anni ’70 che segnano, all’insegna del pessimismo, la fine della commedia italiana, egemone nel decennio precedente. Infallibile duo Tognazzi-Melato. Musica: Ennio Morricone. Prodotto da Sergio Leone.
Le strade di San Francisco (The Streets of San Francisco) è una serie televisivastatunitense di genere poliziesco, trasmessa dalla ABC per 5 stagioni dal 1972 al 1977.Popolare anche fuori dagli Stati Uniti (in Italia andò in onda dal febbraio 1980), la serie, come suggerito dal titolo, è interamente ambientata nella caratteristica città di San Francisco, in California, dove avvengono spettacolari e lunghi inseguimenti in auto, ma è anche una serie “attenta alle problematiche sociali”[1]. Coprotagonisti sono Karl Malden nei panni del tenente Mike Stone e l’attore esordiente (nonché figlio d’arte e futura star di Hollywood) Michael Douglas nel ruolo di Steve Keller. Douglas lasciò la serie nella penultima stagione lasciando il posto a Richard Hatch nella parte di Dan Robbins. I protagonisti sono una coppia ben assortita di investigatori: il tenente Mike Stone è un anziano poliziotto venuto dalla gavetta, vedovo e con una figlia, Jeannie, che appare saltuariamente; si presenta indossando immancabilmente uno sdrucito trench con in testa un floscio cappello anni 50. Il giovane ispettore Steve Keller è più “intellettuale” e politically correct (infatti, al momento di uscire dalla serie, il personaggio lascia la polizia per dedicarsi all’insegnamento dopo una seria ferita rimediata in servizio). Le vicende dei due, solitamente concluse nell’ambito di ogni episodio, si svolgono a San Francisco; anche se non mancano inseguimenti e sparatorie, le scene violente risultano contenute, considerato che la serie era rivolta a un pubblico televisivo familiare, mentre viene fatto risaltare lo spessore umano dei due detective: il loro coinvolgimento nelle indagini, soprattutto per il tenente, è frequentemente di natura emotiva.
Un film di Werner Herzog. Con Klaus Kinski, Helena Rojo Del Negro, Ruy Guerra, Peter Berling Titolo originale Aguirre, der Zorn Gottes. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 94′ min. – Germania, Messico, Perù 1972. MYMONETRO Aguirre, furore di Dio valutazione media: 3,80 su 15 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Nel 1560 una spedizione spagnola, guidata da Gonzalo Pizarro, fratello di Francisco, discende la Cordigliera delle Ande alla ricerca del mitico El Dorado. La giungla inestricabile la blocca. Si invia allora un pattuglione esplorativo, munito di zattere, sul fiume Urubamba al comando di Pedro de Urrua al cui fianco è l’ambizioso e spietato Lope de Aguirre. Girato con pochi mezzi in Perú, il 5° film di W. Herzog è leggibilea 3 livelli: 1) racconto di avventure e di viaggio che ha al centro il tema di una profanazione fallita, 2) tragedia di un eroe del male (con un Kinski strepitosamente nevrotico) sui temi della ribellione e della solitudine, 3) parabola politica sull’imperialismo coloniale. Vi coabitano uno straniamento epico di timbro brechtiano e una tensione onirica, allucinata. Fotografia di Th. Mauch.
Uno scrittore in cerca d’ispirazione si ritira in una casa che ha ereditato nella campagna del Connecticut. Conosce una ragazza, figlia di emigrati polacchi, e s’innamora. Ma lei è fidanzata e lui sposato. Uno dei più teneri film d’amore nella Hollywood degli anni ’30. È anche appassionato, ma il fuoco cova sotto le ceneri, grazie a un Vidor insolitamente misurato che descrive bene l’ambiente di emigrati polacchi. 3° e ultimo tentativo di Samuel Goldwyn di fare della Sten una nuova Garbo. Fotografia di Gregg Toland.
Un film di Ermanno Olmi. Con Jun Ichikawa, Sally Ming Zeo Ni, Bud Spencer, Yang Li Xiang, Camillo Grassi, Makoto Kobayashi Drammatico, durata 90 min. – Italia 2003. MYMONETRO Cantando dietro i paraventi valutazione media: 2,85 su 16 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un giovane ed ingenuo studente si ritrova per errore in un teatrino fuori mano, tra le cui sale è possibile inoltre comprare trasgressioni e favori sessuali. Il Vecchio Capitano – un Bud Spencer inedito – dal palcoscenico situato nell’ampia sala centrale sta raccontando le gesta di Ching, piratessa ai tempi della Cina imperiale. Ching era sposa di un prode corsaro che, per aver accettato di collaborare con l’Imperatore, era stato ucciso a tradimento. La vedova, incapace di accettare questo oltraggio, si era dunque messa a capo della flotta del defunto marito ed era divenuta il pirata più temuto della Cina. Olmi torna a misurarsi con la fiaba (ricordate “Il segreto del bosco vecchio”?) ma volge lo sguardo all’Oriente. E’ una sperimentazione interessante quella che mette in atto il regista.
Giuseppe Tornatore ha collaborato col Maestro – definizione per una volta appropriata – in un arco temporale che va da Nuovo Cinema Paradiso (1988) a La corrispondenza (2016), frequentandolo per circa trent’anni. Nel 2018 ha scritto “Ennio. Un maestro” (Harper Collins), intervista fluviale e conversazione franca, a trecentosessanta gradi: in Ennio ne riprende argomenti, andamento cronologico e tono disteso, modesto, autocritico con cui Morricone si era concesso alle sue domande. Attorno a lui, nel film, una schiera di musicisti, registi, colleghi ed esperti portano testimonianze rilevanti e inerenti una carriera straordinaria, che supera il concetto di prolifico: centinaia le opere firmate, da Il federale (1961) all’unico Oscar vinto per una colonna sonora, The Hateful Eight nel 2016, a 87 anni.
Dopo una sanguinosa rapina in una banca del Texas, i due fratelli Seth (G. Clooney) e Richard (Q. Tarantino) prendono in ostaggio un predicatore disilluso che viaggia in camper con due figli (J. Lewis e il piccolo E. Lui) e sconfinano nel Messico dove approdano al locale “Titty Twister”. Un volo finale in dolly della cinepresa svela il mistero. Basato su una vecchia (1990) sceneggiatura di Q. Tarantino, il 3° film del messicano Rodriguez ( El Mariachi ) – anche operatore alla macchina e montatore – è una sagra del tarantinismo più trash , in altalena tra la parodia cinica e l’estasi del pecoreccio. L’edizione originale era di 108′, potata vigorosamente in quella italiana, insignita tuttavia di un V.M. 18 e ancor più ridotta per farla passare in TV.
Qui Tarantino è attore non regista. Mamma mia cos’era Salma Hayek in questo film.
Non è, come si è scritto, una variazione dello “spaghetti-western” italiota: tolti pochi risvolti stilistici, va in tutt’altra direzione, con una storia situata nel 1858, poco prima della Guerra di Secessione. Come raramente accade nel genere western, il protagonista è nero. Sicuramente il più politicamente impegnato tra i film di Tarantino nella denuncia del razzismo bianco che in Django si sovrappone al desiderio di vendetta personale in difesa della moglie Broomhilda. Non a caso nella più caustica sequenza si sbeffeggia in allegria un classico del muto USA Nascita di una nazione (1915) di Griffith, con Don Johnson capo di una banda schiavista del Ku Klux Klan alle prese con scomodi cappucci che, soprattutto cavalcando, impediscono di vedere bene. Scomponibile in 2 parti, con l’azione che si sposta dal Texas al Mississippi e in cui si usa il fucile Remington più che le Colt. Nella prima il dentista tedesco Dr. King Schultz diventato cacciatore di taglie, cioè di cadaveri, rende libero lo schiavo Django e lo trasforma in compagno/complice di avventure e punizioni. Lo interpreta il colto, elegante Waltz in una interpretazione premiata dall’Oscar (un’altra statuetta è andata a Tarantino per la sceneggiatura). Più parlata e più rivolta all’analisi psicologica dei personaggi la seconda parte, dove Foxx si oppone a un bravo DiCaprio, il più crudele degli schiavisti perché il più intelligente.
Febbraio 1815: di ritorno dall’Elba, Napoleone ringalluzzito ricompatta l’esercito e marcia verso Bruxelles. Nella piana di Waterloo l’esercito inglese aspetta e quello tedesco sta arrivando. La 2ª metà del film è tutta dedicata alla battaglia, forse la più lunga nella storia del cinema: grande spettacolo, puntiglio di ricostruzione e qualche momento epico. Più inamidata e convenzionale senza remissione la 1ª ora dove l’accademico pompierismo di Bondarčuk si svela con tutto il suo peso. Steiger come Napoleone è perfettamente bondarčukiano. Produce Dino De Laurentiis con Columbia e Mosfilm. Fotografia di Armando Nannuzzi e musiche di Nino Rota. L’edizione sovietica dura 4 ore. Quella italiana è stata in seguito ridotta a 123 minuti.
Film a 2 versanti: la favola moderna di Jesse, bambino nordamericano di Seattle che, scortato dal padre, è portato dal Lama Norbu nel Bhutan (versante sud dell’Himalaya) perché potrebbe essere il tulku , la reincarnazione del Lama Dorje, morto otto anni prima; e la favola antica del principe Siddharta Gautama (ca. 565-486 a.C.) detto il Buddha, il Risvegliato, che s’avvicenda con la 1ª, letta su un libro illustrato ora da questo, ora da quel personaggio. 1° film di Bertolucci senza conflitti drammatici, tormenti, trasgressioni. Se si toglie la lotta di Siddharta con Mara, dio del Male, non c’è una sola figura malvagia o antagonista. 1° suo film di bambini, sui bambini, per i bambini. È come se, per adeguarsi alla “via di mezzo” tra i due estremi del piacere e dell’ascetismo spinto di cui il Buddha fu un esempio, il regista avesse scelto una via stilisticamente e narrativamente intermedia, al di là dei conflitti drammatici. Persino la nascita di Siddharta è risolta in canto, con grazia delicata: il dolore esiste, ma superato e trasfigurato. Anche nel ricorso agli effetti speciali la sua cinefilia rifugge dall’esibizionismo della moderna tecnologia digitale: vicino più alla magia di Méliès che a Spielberg. Anche nella luce e nei colori, governati dalla maestria di Vittorio Storaro, c’è una ripartizione: freddi, grigiazzurri, quasi acciaiati a Seattle (Occidente); caldi, fastosi o festosi (col giallo-arancione che inclina al rosso-nero nelle scene finali di morte) nel Nepal e nel Bhutan (Oriente). Scritto con Rudy Wurlitzer, esperto di buddismo, e Mark Peploe. Musiche di Ryuichi Sakamoto, scene e costumi di James Acheson, montaggio di Pietro Scalia.
Nella comunità ebraica di Montréal 1948 l’arrampicata sociale del giovane Duddy Kravitz che s’inventa imprenditore, speculatore finanziario, produttore cinematografico per realizzare il suo sogno di radicamento, integrazione e ricchezza, sacrificandogli parentele, amicizie, amori. Da un romanzo (1959) del canadese Mordechai Richler che ha brio e ritmo, quasi per intero costruito sui dialoghi, adattato dall’autore. Con American Graffiti , lanciò un bravissimo R. Dreyfuss, ma lo sono altrettanto D. Elliott come regista e R. Quaid, innocente sempliciotto. La riduzione privilegia la dimensione comica del romanzo, mettendo la sordina ai suoi significati sociali. Orso d’oro a Berlino 1974.
Due agenti della Buoncostume di Los Angeles, piuttosto anticonformisti, sono incaricati di un’indagine su una squillo d’alto bordo e su un night-club dove si spaccia droga. 1° film di Hyams che veniva dal giornalismo televisivo. È un poliziesco svelto, vivace, divertente, ma convenzionale, di livello medio. Fu criticato negli ambienti gay perché mette in caricatura gli omosessuali.
Una prostituta ha ucciso il suo cliente per legittima difesa. I parenti, timorosi dello scandalo, cercano di evitare un processo dimostrando la sua infermità mentale. Ma la donna si ribella. Lei è perfettamente sana di mente (il babbo adottivo magari ha qualche tara…) e ottiene il proseguimento del dibattito.
Parigi nel 1943, sotto l’occupazione nazista, un povero diavolo tira a campare facendo la borsa nera. Una notte deve trasportare quattro valigie in cui è nascosta della carne di maiale e, bisognoso di un compare, assolda un tizio conosciuto da poco. Costui è un pittore affermato che ha accettato solo per provare il brivido dell’avventura e molte volte durante il trasporto si ficca volutamente nei guai, con grande preoccupazione del poveraccio, cavandosela sempre grazie alla sua faccia tosta. Alla fine i due sono fermati dai tedeschi e, mentre il pittore verrà salvato da un ufficiale che ammira i suoi quadri, il borsaro nero finirà deportato. Alcuni anni dopo i due si rincontreranno.
Dalla tragedia (431 a.C.) di Euripide: abbandonata da Giasone, Medea, regina barbara della Colchide, ricorre alle arti magiche per far morire la rivale Glauce e completa la vendetta, uccidendo i due figli avuti dall’argonauta. È il 4° e ultimo film tragico e mitico di Pasolini, “mescolanza un po’ mostruosa di un racconto filosofico e di un intrigo d’amore” (P.P.P.) e occasione per affrontare il tema del passaggio dal vecchio mondo religioso-metafisico al nuovo mondo laico-pragmatico. Una metafora sul Terzo Mondo affidata alla disponibilità tragica (e insoddisfacente) della Callas. L’eclettismo figurativo e il gusto della contaminazione di Pasolini rivelano qui i loro limiti: è, forse, il più manieristico, squilibrato, algido dei suoi film, sicuramente il più ideologico.
Regista teatrale in crisi esistenziale e ossessionato dalle malattie e dall’idea della morte, Caden è circondato da un esercito di donne: la moglie Adele, pittrice che parte per Berlino con la figlioletta, Maria la (presunta?) amante di Adele, la sua psicanalista preoccupata solo dai suoi libri, la bella Hazel. Dopo una carriera di sceneggiatore Kaufman passa alla regia e sembra voler infilare in un solo film tutto quello che ha visto e imparato in una vita: il risultato è prolisso e ripetitivo. Ripescato dopo 6 anni, in seguito alla morte di Hoffman.
Nella cittadina di Midwich (California) tutte le donne giovani vengono ingravidate da una misteriosa forza extraterrestre e danno alla luce un gruppetto di bambini, biondissimi (quasi albini) come Hitler sognava gli ariani e dotati di sovrumani poteri mentali, adibiti a malefici scopi di dominio e distruzione. 2ª riduzione del romanzo I figli dell’invasione (1957) di John Wyndham: un mediocre film del più hawksiano dei registi statunitensi, ma che qui non ha spessore né echi, nemmeno a livello metaforico. Personaggi evanescenti e, quando entrano in scena i terribili biondini, si scivola nel ridicolo involontario. V.M. 18 anni.
Pur di non scendere a compromessi, architetto geniale e anticonformista fa l’operaio finché trova un alleato nel direttore di un quotidiano di New York la cui moglie, giornalista ambiziosa, è innamorata di lui. Quando un suo grande progetto subisce gravi modifiche, fa saltare in aria gli edifici e chiede un pubblico processo per sostenere le sue idee. Sceneggiato da Ayn Rand, che adattò il suo primo filosofeggiante romanzo, e ispirato alla vita dell’architetto Frank Lloyd Wright, è il più bizzarro film nella carriera di Vidor e in quella di Cooper: una magniloquente allegoria, più metafisica che etica, sull’individualismo, un inno all’autonomia dell’artista integro cheè utile alla comunità più che le forze del denaro, degli affari e della politica che la sfruttano e l’asserviscono. Ciascuno dei personaggi principali incarna un valore o un disvalore. Sono astrazioni così com’è astratta e disincarnata la passione che lega i due protagonisti. Prodotto dalla Warner. Titolo francese: Le Rebelle.
E’ un grazioso film. Protagonista è un sedicente giornalista che riesce un giorno a farsi affidare un’inchiesta seria. Il tema è “il bambino”. Il pennaiolo di complemento interroga due musicisti (Fonda e Stewart), una diva del cinema (Dorothy Lamour), due personaggi non proprio raccomandabili. Ne viene fuori un ottimo reportage. Il neocronista viene assunto.
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