California 1963. Due delinquenti catturano una coppia di poliziotti e ne uccidono uno. L’altro riesce a fuggire, ma per molti anni sarà ossessionato dal ricordo di quel tragico episodio. Dramma poliziesco insolitamente intenso nel suo realismo sociale senza facili effetti. Sceneggiato da Joseph Wambaugh, autore del romanzo.
Da un dramma (1960) di Giuseppe Patroni Griffi. Adriano, cinico in crisi, debole, sbruffone e sentimentale, cerca di cambiar vita sposando una brava ragazza. Diretto senza convinzione, non abbastanza riscattato da una scrittura disadorna e da un bianconero sporco da cinegiornale. “Credo che sia orribile… – dichiarò anni dopo Rossellini – Fu allora che abbandonai definitivamente il cinema.”
Fred e Mick sono due amici da moltissimo tempo e ora, ottantenni, stanno trascorrendo un periodo di vacanza in un hotel nelle Alpi svizzere. Fred, compositore e direttore d’orchestra famoso, non ha alcuna intenzione di tornare a dirigere un’orchestra anche se a chiederglielo fosse la regina Elisabetta d’Inghilterra. Mick, regista di altrettanta notorietà e fama, sta invece lavorando al suo nuovo e presumibilmente ultimo film per il quale vuole come protagonista la vecchia amica e star internazionale Brenda Morel. Entrambi hanno una forte consapevolezza del tempo che sta passando in modo inesorabile. Paolo Sorrentino era atteso al varco con questo film che arriva dopo l’Oscar de La grande bellezza e la sua estetica così personale tanto da aver diviso critica e pubblico in estimatori e detrattori molto decisi. Per di più il regista tornava in competizione a Cannes dove solo due anni fa la giuria non aveva degnato del benché minimo riconoscimento il film ricoperto successivamente da molteplici allori. Il rischio maggiore però, che era più che lecito paventare da parte di chi amava il suo cinema ma non era impazzito di gioia dinanzi al suo ultimo lavoro, era quello di ritrovare un Sorrentino ormai divenuto manierista di se stesso. Il trailer del film seminava più di un indizio in tal senso ma, fortunatamente, i trailer non sono i film. Perché il Sorrentino regista è tornato a confrontarsi con il Sorrentino sceneggiatore. Se entrambi avevano deciso di convivere senza intralciare il lavoro dell’altro dando così luogo a ridondanze e compiacimenti oltremisura, in questa occasione l’uno non ha concesso all’altro (e viceversa) più di quanto fosse giusto concedergli. Ne è nato così un film compatto a cui non nuocciono neppure le molteplici sottolineature del finale. Perché questa volta il modello di Sorrentino torna ad essere se stesso, senza più o meno consci confronti con i maestri che, anche quando citati, vengono metabolizzati nel suo universo creativo. Non mancano anche qui personaggi più o meno misteriosi che appaiono e scompaiono e a cui ora è comunque lo spettatore a poter assegnare la valenza simbolica che preferisce. Perché Fred e Mick sono persone che sono state personaggi nella loro vita ma che su questo schermo tornano a presentarsi come persone. Con le loro angosce, con le loro attese, con i loro segreti e, soprattutto, con la consapevolezza di una memoria destinata a perdersi nel tempo come le lacrime del Roy Batty bladerunneriano. Sorrentino non ne fa due vecchie glorie più o meno coscienti delle proprie attuali forze fisiche e intellettuali ma offre loro anche i ruoli di genitori che conoscono luci ed ombre di un’arte altrettanto difficile: quella che i figli pretendono che venga esercitata nei loro confronti, non importa in quale età essi si trovino. In tutto ciò, ci si può chiedere, che ruolo viene assegnato alla giovinezza del titolo? Quello di specchio riflettente (e deformante al contempo) di passioni, desideri, fragilità. Su tutto questo e su molto altro ancora Sorrentino torna a trovare la profondità, la leggerezza ma anche la concentrazione che permettono al film di levitare. Chi lo vedrà capirà il senso del verbo.
Vera storia di Robert Stroud, condannato nel 1909 all’ergastolo per omicidio, che in carcere, per molti anni chiuso in isolamento, divenne un esperto di fama mondiale sulla vita degli uccelli. Ottenne il permesso di sposare la sua assistente. Tratto da un libro di Thomas E. Gaddis (qui interpretato da O’Brien) e sceneggiato da Guy Trosper, è un solido efficiente, monocorde film con il piombo nelle ali. Vola basso, senza cadute ma nemmeno impennate, trattenuto da un rigido moralismo che esalta la dignità dell’uomo e denuncia, con massiccia oratoria, il sistema carcerario americano. Memorabile interpretazione, un vero tour de force, di Lancaster, anche produttore, che all’inizio delle riprese aveva protestato il regista inglese C. Crichton.
Terrore di notte sul metrò. Due teppisti imperversano in un vagone della subway. Di buona intensità drammatica, nonostante la convenzionalità dei personaggi.
Nel 1932 anarchico della Bassa lombarda, deciso a far fuori il Duce, trova ospitalità in una casa chiusa di lusso dove s’innamora della bella Tripolina. Il mattino dell’attentato si sveglia in ritardo. Ghignante quadro di costume, è un’opera ideologicamente equivoca perché il suo contenuto evidente (l’antifascismo) è in contraddizione con il suo contenuto latente (una mescolanza di sentimentalismo e volgarità). Come la bricconata conclusiva mostra, la sua mancanza di rigore rasenta l’isterismo. Attori ineccepibili. Premiato Giannini a Cannes.
La solita banda di Formula 1 (i piloti e le loro donne, i tecnici, i dirigenti delle squadre) attraverso 6 gran premi: Montecarlo, Clermont Ferrand, Belgio, Olanda, Inghilterra fino a Monza. Ciascuno è filmato in modo diverso. 1° film sulle corse d’auto (fotografia in 70 mm SuperPanavision di Lionel Lindon) girato senza trasporto e con il ricorso allo split-screen (montaggio nel quadro frazionato in caselle, cercando la contemporaneità o il contrasto). Frankenheimer è un appassionato delle quattro ruote, e si vede, ma il copione di Robert Alan Arthur è una prolissa passerella di stereotipi senza sugo e di situazioni già viste. Il personaggio di Bedford è ispirato a Stirling Moss. 3 Oscar: montaggio, suono, effetti visivi. L’alta qualità tecnica accentua quella bassa del resto. 2 film in uno e stanno male insieme.
Un’organizzazione segreta, specializzata in assassinii politici, si occupa di un caso che la CIA vorrebbe tenere nascosto. Il suo killer n. 1, che sta scoprendo troppo, viene reso invalido dal suo compagno e decide di vendicarsi. Si fa aiutare da un maestro in arti marziali. È uno dei film di Peckinpah dove è percettibile la linea di divisione tra l’autore e il regista esecutore: l’autore emerge nella 1ª parte che ha grinta, ritmo, estro; nella 2ª l’esecutore si adagia nelle convenzioni e negli stereotipi del genere. Ma la sequenza finale tra una flotta di navi in disuso non si dimentica.
Lui è un poliziotto, lei una brillante professionista. I rispettivi coniugi hanno una relazione. I due fedifraghi muoiono in un incidente aereo mentre sono diretti, per il week-end, in un’isola. Ford intuisce la situazione e contatta l’altra donna, per cercare la verità. Dopo il doveroso trauma iniziale, i due traditi prendono coscienza, indagano insieme, alla fine, naturalmente, finiscono per piacersi. In questa sede Pollack viene considerato uno dei più bravi narratori del cinema americano. Basta ricordare titoli come Come eravamo e La mia Africa. Questa è la sua seconda caduta, dopo il quasi intollerabile Sabrina. Così come per Scorsese, non riusciamo proprio ad attribuirgli l’insufficienza.
Tratta dall’omonima opera di Michael Frayn, si tratta di una commedia scoppiettante, dal ritmo incalzante e con spassosissime gag che si susseguono vorticosamente. La trama del film riguarda le varie fasi della costruzione di uno spettacolo da parte di una bizzarra compagnia: dalle prove, al debutto, alla tournée, che inizialmente risulta essere positiva, ma poco tempo dopo si rivela un disastro per ripicche e screzi fra attori – sul palcoscenico e fuori accade di tutto: interruzioni, errori, isterie, conflitti, tensioni, rappacificazioni – ma alla prima a Broadway è un trionfo. Regia sardonica e impeccabile, con degli straordinari attori tutti in stato di grazia, parecchie e buone le occasioni di risata. Era dai tempi della “screwball comedy” degli anni Trenta che non ci si divertiva così vedendo una commedia.
Dal romanzo omonimo (1910) di Edward M. Forster. Conflitto tra due mondi (due culture, due mentalità) all’interno della società londinese del primo Novecento: le due sorelle Schlegel della piccola borghesia colta e progressista e i ricchi, conservatori Wilcox, fondatori senza fasto né splendore dell’Impero. C’è anche una terza classe sociale, quella degli esclusi per censo ed educazione, rappresentata da Leonard Blast, povero e orgoglioso. La posta in gioco è Howards End, bella e scomoda dimora di campagna: appartiene ai Wilcox, passa in eredità a una delle due Schlegel e, infine, all’altra. sotto la vernice di raffinata eleganza, è un film (e un romanzo) attuale: beni immobili, sicurezza finanziaria, compagnie di assicurazione che falliscono, conflitti tra femminismo e vita domestica, attriti tra classi sociali. Premio speciale a Cannes e 3 Oscar: attrice protagonista (E. Thompson), scenografia (Luciana Arrighi) e costumi.
Nella Francia occupata dai nazisti, viaggia un treno che trasporta un tesoro in opere d’arte trafugato ai musei di Parigi. Il comandante tedesco è un raffinato esteta. Ma il macchinista è uno dei capi della Resistenza. Prima ostacola in ogni modo il viaggio, poi dirotta il treno fuori dal percorso prefissato. Finisce in un massacro: il comandante germanico fa una strage dei civili, ma il macchinista uccide lui a colpi di mitra.
Jimmy Doyle “Popeye” è un poliziotto della squadra narcotici di New York dai metodi brutali e assai poco ortodossi. Messosi in cattiva luce con i suoi superiori, a causa di alcuni fallimenti professionali, Doyle è convinto di avere finalmente ricevuto la soffiata giusta, quella capace di imprimere una svolta a un’intera carriera. Un infiltrato è venuto a sapere di una grossa partita di eroina in arrivo dalla Francia. Pur senza mandato, il detective si lancia sulla pista indicatagli, che lo conduce alla mafia italoamericana locale. Con il collega Lo Russo, suo partner professionale fisso, avvierà un’indagine tutta pedinamenti e intercettazioni.Diventato un classico del nuovo poliziesco americano anni Settanta, Il braccio violento della legge ha rivoluzionato le regole allora in voga nel noir investigativo a stelle e strisce, influenzando molto cinema d’azione successivo.
Un misterioso amuleto finisce tra le mani di un ragazzino che, preso da smania erotica, assale un gran numero di fanciulle. Dopo numerosi, grotteschi episodi arriva finalmente uno stregone, che inghiotte l’amuleto e finisce agli inferi.
Una coppia di coniugi anziani vive a Courbevoie, nella periferia parigina. Un tempo si erano molto amati, oggi si odiano e non si parlano mai. Lui raccoglie un gatto abbandonato, lei lo elimina. Ma le loro due vite sono indissolubilmente unite. In un faccia a faccia patetico ad armi uguali, J. Gabin e S. Signoret danno il meglio di sé stessi. È un film da vedere: una riflessione sul mondo di Georges Simenon e sul realismo poetico degli anni ’30. Titolo italiano deviante e imbecille.
Da un racconto di Helen Rose. Un giornalista sportivo e una disegnatrice di moda si sposano, scoprendo che hanno pochi interessi in comune. Come mostra spiritosamente la conclusione, il mondo del sogno (la moda) ha la meglio su quello della realtà (la boxe). Scritta con impeccabile garbo, ricca d’inventiva a livello di regia (e di scenografie), elegante, divertente, è una commedia che regge il paragone con i modelli degli anni ’30. Un solo neo: Peck non è abbastanza duttile per una parte che avrebbe richiesto Cary Grant.
Joanna Crane ha una doppia vita a schizofrenia libera: strapagata stilista di giorno, tutta casa e lavoro, al calar del sole si traveste da prostituta e va a battere i marciapiedi dell’infima Los Angeles. Film truculento e trito, indigesta mistura di naturalismo attardato, decadentismo decorativo, infantilismo freudiano, greve moralismo e congenita ruffianeria mercantile. Il talento di K. Russell affiora qua e là a schegge.
È meticolosamente controllato il film di Jim Jarmush sui limiti del controllo. Un killer americano segue una serie di indizi improbabili per effettuare una misteriosa missione criminale. The Limits ha una struttura ridondante ben chiara: una serie di incontri bizzarri, delle anomalie (de Bankolé che prende due espressi in tazze separate in ogni bar), delle ricorrenze apparentemente marginali che poi convergono gradualmente (i fiammiferi, l’elicottero) e delle strizzate d’occhio (al killer di Ghost Dog, al treno o all’ossessione per il tabacco di Dead Man). Tra le apparizioni esplicitamente grottesche ci sono gli autoironici Tilda Swilton, John Hurt e Bill Murray. In una costruzione lenta e ripetitiva a restare nella mente sono soprattutto il montaggio di Jay Rabinowitz e la fotografia di una Spagna assolata di Cristopher Doyle. Ma lo spettatore che si lascia semplicemente trasportare dalle sensazioni é tutt’altro che superficiale: Jarmush ci fa viaggiare sui margini del controllo per riportarci al punto iniziale, le sensazioni appunto.
Si tratta di un video sperimentale girato in uno studio di posa con strane strutture gigantesche e le canzoni della Cruise che ha già cantato in molti film di Lynch. La musica è di Badalamenti. Il lavoro è già stato portato in scena dalla Brooklin Academy of Music Opera.
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