Principe spagnolo s’innamora di bella popolana del Sud, specialista in fatture. Per sposarla, impone alle principesse pretendenti una gara: vincerà colei che laverà più piatti nel minor tempo senza romperne. Ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (1575-1632), è una storia d’amore in forma di fiaba con intenzioni di contro-fiaba che si disperdono nella dominante cifra coreografica, nel raffinato gioco degli specchi tra stracci e broccati. Da ricordare almeno l’episodio di san Giuseppe da Copertino.
Una superspia sovietica disillusa dal comunismo e una piacente 007 americana disillusa dall’amore si incontrano alle Barbados. Cia e Kgb, increduli ed allarmati, ordinano il rimpatrio dei rispettivi agenti, ma il colonnello russo preferisce scappare e chiedere asilo politico in Gran Bretagna. Gli inglesi lo accettano in cambio di favori spionistici, ma i servizi segreti russi lo vogliono morto.
La banda musicale della polizia di Alessandria d’Egitto viene invitata a suonare all’inaugurazione del centro culturale arabo di una cittadina israeliana. All’aeroporto di Tel Aviv non c’è nessuno ad attendere il gruppo di musicisti, così il pragmatico direttore d’orchestra e colonnello Tewfiq decide di raggiungere il luogo con un autobus locale. Arrivato nella remota e desertica cittadina (una sorta di Las Vegas spoglia di luci scintillanti, giochi e schiamazzi) capisce che, per un difetto di pronuncia, ha sbagliato destinazione. Non si trova nella moderna Petah Tikva, bensì nell’arida Bet Hatikva. Poiché non c’è modo di andarsene da lì (c’è una sola corriera che passa una volta al giorno) gli otto egiziani sono costretti ad accettare l’ospitalità di Dina, la bella proprietaria dell’unico ristorante del posto. Al suo esordio in lungo l’israeliano Eran Kolirin realizza una piccola opera cinematografica, densa di valore, trovando il modo per fotografare e raccontare il suo paese con umorismo, sentimento e nostalgia, utilizzando un linguaggio (e lanciando un messaggio) universale. La banda è una brillante commedia dal retrogusto amaro che parla innanzitutto dell’essere umano. Le inamidate uniformi azzurre della banda celano i disagi esistenziali dei componenti. L’unica voce fuori dal coro è quella di Haled, dongiovanni nell’anima che seduce le fanciulle sussurrando i versi romantici di Chet Baker. La musica fa da collante tra lo sgangherato gruppo in terra straniera e i loro ospiti. È una canzone jazz israeliana che Dina sceglie per trasmettere a Tewfiq – il suo personale Omar Sharif – il desiderio di dirgli “tante cose”. È la danza delle mani del colonnello, che muove sinuosamente nell’aria per mostrare alla locandiera come si dirige un’orchestra, a creare un momento d’intesa tra l’uomo e la donna. E, infine, intorno alla tavola apparecchiata a festa, nel silenzio imbarazzante e un tantino ostile, basta intonare un’approssimativa “Summertime” per comunicare e azzerare la distanza di due paesi avversi. Al di là delle divergenze culturali e delle barriere linguistiche c’è la musica, ma c’è anche l’amore. Quello agognato da una giovane che vede la sua vita come un (melodrammatico) film arabo, quello perduto a causa del proprio rigore, quello cercato tra le braccia di uno sconosciuto. Il finale de La banda è preannunciato da una frase di Itzik. È “come un concerto che finisce di colpo, né triste, né allegro”. Un concerto, aggiungiamo noi, da godere fino all’ultima nota.
Costato più di 20 miliardi, il quinto film di Jodorowsky è una fiaba indolore. Distribuito in Italia dopo più di due anni dalla realizzazione, è stato un completo insuccesso. La grinta e gli artigli del regista sembrano essersi consumati, sperando forse di creare un prodotto di largo consumo. O’Toole rifà il personaggio perduto nelle fantasie, mentre il vero regalo del film è Omar Sharif, tornato grande attore. Due uomini coabitano nelle fogne. Meleagre è un ex nobile che filosofeggia e viene mantenuto da Dima, barbone e ladruncolo.
Nel 922 d.C. Ahmad ibn Fadlan, poeta alla corte di Baghdad, è costretto ad arruolarsi con dodici guerrieri vichinghi che tornano in patria per difendere il re normanno Hrothgar contro un’orda feroce di Wendol, cannibali tatuati e cacciatori di teste, travestiti da orsi o cinghiali. Dal romanzo Eaters of the Dead (Mangiatori di morti, 1976) di Michael Crichton, J. McTiernan, specialista di cinema d’azione, ha cavato un notturno film epico-avventuroso da 85 milioni di dollari, rimodernato con effetti speciali e risvolti orrorifici, girato nel 1998 in esterni della British Columbia. Adattato da William Wisher e Warren Lewis, rimase bloccato per un anno per insanabili contrasti tra il regista e Crichton, uno dei produttori. Pur non privo qua e là di pagine suggestive, soccombe sotto il peso di troppe e contraddittorie intenzioni in cui la partitura musicale del vecchio Jerry Goldsmith (1929) cerca vanamente di mettere ordine. Si distingue, comunque, dalla stereotipata spettacolarità hollywoodiana per un’insolita nota filoaraba, non priva di accenti ironici, al servizio del protagonista
Nello scrivere la sceneggiatura il regista John Milius si basa su fatti veramente accaduti – il rapimento da parte del bandito marocchino Raizuli di Ion Perdicaris, un americano espatriato a Tangeri – ma tramuta il soggetto in una donna vedova e madre di due figlie arricchisce la storia con un attacco degli Americani al palazzo del pascià di Tangeri. Sean Connery – che ottiene la parte per la quale sono in lizza anche Omar Sharif e Anthony Quinn – interpreta un capo ribelle berbero che all’inizio del ventesimo secolo rapisce Eden Pedecaris (Candice Bergen) e prole per ottenere la morte del sultano. La pellicola si aggiudica due nomination all’Oscar come Migliore colonna sonora originale (di Jerry Goldsmith) e Miglior suono.
Durante la guerra dei Trent’anni, un professore trova rifugio in un piccolo villaggio di montagna scampato miracolosamente alla distruzione. S’illude, stabilendovi un clima di pace e di solidarietà, di risparmiare il paesino dalle violenze della guerra.
Durante la prima guerra mondiale Yurij Andrèevic Živago (Sharif), medico e poeta sposato con la cugina Tonja (Chaplin), si innamora al fronte della crocerossina Lara Antipov (Christie). Nel 1917, scoppiata la rivoluzione bolscevica, si rifugia con moglie e figlio in un villaggio degli Urali dove incontra di nuovo Lara e ne diventa l’amante. La guerra civile li separa per due anni. Mentre Tonja con due figli è riparata all’estero, Živago si ricongiunge con Lara, ma le vicende politiche li dividono ancora. Muore a Mosca, povero e solo. Prodotto da Carlo Ponti e dallo stesso regista, girato in Spagna, Finlandia e Canada, è tratto dall’omonimo romanzo che a Boris Leonidovič Pasternak, scrittore russo di origine ebraica, valse una notorietà internazionale e il Nobel per la letteratura nel 1958. Pubblicato per la 1ª volta in Italia nel 1957 dall’editore Feltrinelli (31 edizioni entro il dicembre 1958), suscitò una dura reazione da parte della critica di regime, fu diffuso clandestinamente nell’URSS, gli costò l’espulsione dall’Unione degli scrittori e la forzata rinuncia al Nobel. Adattato e sfrondato dall’inglese Robert Bolt, il film di D. Lean, grande accademico della regia, è gonfio, inamidato e inerte, con la neve in Panavision al posto della sabbia di Lawrence d’Arabia. Da guardare con ammirazione, specialmente nei campi lunghi e lunghissimi e nelle scene di massa, ma non da ascoltare quando la cinepresa si avvicina ai personaggi. L’avere privilegiato in modo quasi svergognato la dimensione sentimentale, a scapito degli altri aspetti del romanzo, è il suo irrimediabile limite, ma spiega perché ha fatto piangere milioni di spettatori, compresi i soci dell’Academy. Famose e sciroppose le musiche del francese Maurice Jarre (più che un Leitmotiv, il “tema di Lara” è un tormentone), premiate con 1 Oscar insieme con sceneggiatura, fotografia (Frederick A. Young), scenografia e arredamento (Dario Simoni, John Box e Terry Marsh) e costumi (Phyllis Dalton)
Dal romanzo di Emeric Pressburger: vent’anni dopo la guerra civile, un combattente repubblicano, esule in Francia, ritorna in Spagna per uccidere un brutale capo di polizia. Film d’azione che pretende di diffondere messaggi sull’etica, la morte, il destino. Il tono predicatorio dilaga. Peck fuori parte.
È un western che si trasforma in un “eastern”. Secondo lo sceneggiatore John Fusco, esperto di storia della frontiera, Frank T. Hopkins è realmente esistito. Pony express disgustato dal massacro dei pellerossa a Wounded Knee cui partecipò di striscio come scout, il mezzosangue Hopkins si rifugia nell’alcol e nel circo di Buffalo Bill a fare da attrazione in sella al suo amato mustang Hidalgo finché accetta di partecipare a “Oceano di fuoco”, corsa di resistenza per tremila miglia attraverso i deserti della penisola arabica, unico cavaliere occidentale contro i concorrenti beduini. Frutto della postmoderna contaminazione dei generi che contraddistingue la Hollywood del 2000, rafforzato dagli effetti speciali dell’Industrial Light & Magic, è un film avventuroso che mira all’epica, ma scivola spesso nell’oleografia turistica o nell’anemia narrativa o negli stereotipi del già visto (e rivisto). Monocorde ma simpatico Mortensen di padre danese. Il cavallo si chiama in realtà T.J. e durante le riprese ebbe 4 controfigure. Gli altri personaggi – sceicco Sharif compreso – fanno tappezzeria. Prodotto dalla Disney, è adatto ai ragazzini come antidoto ai videogiochi truculenti.
Varsavia, durante la seconda guerra mondiale. Un integerrimo maggiore della polizia militare tedesca scopre che il colpevole dell’assassinio di una prostituta è Tanz, un generale nazista.
Un film di William Wyler. Con Walter Pidgeon, Anne Francis, Barbra Streisand, Omar Sharif.Musicale, durata 169′ min. – USA 1968. MYMONETRO Funny Girl valutazione media: 3,33 su 5 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Da una commedia di Isobel Lennart: Fanny Brice, una sgraziata ragazza ebrea dell’East Side povero di New York, diventa una star di Broadway, ma perde il marito. Musical un po’ pachidermico, ma notevole per alcuni numeri musicali, diretti in parte da Herbert Ross, per la sfarzosa confezione (fotografia di H. Stradling, musiche di Jule Styne), per l’interpretazione della Streisand che vinse un Oscar su 6 nomination. Ma il ritratto di F. Brice (1891-1951) è degno di W. Wyler. Seguito da Funny Lady. View full article »