Sceneggiato con O. Stone da un romanzo di Robert Daley: un capitano della polizia di New York, pluridecorato in guerra, è trasferito a Chinatown dove ha per avversario il giovane boss di una potente famiglia cinese. Convulso, teso, un po’ isterico film d’azione sotto il segno della morte violenta, è l’ibrido frutto di compromesso tra un regista di indubbio talento visionario e un produttore (Dino De Laurentiis) che, a modo suo, è un autore. Film irrealistico, dev’essere visto e giudicato sul piano del fantastico sociale.
Sin City è una città nera, dove la notte non tramonta mai, abitata da una schiera di personaggi più cupi della notte stessa. Tutti cattivi, ognuno a modo suo: Marv, tenero bestione con un talento creativo per la sofferenza altrui; Kevin, ragazzo emotivo che ritrova la serenità divenendo uno spietato divoratore di esseri umani; la sua abietta guida spirituale il cardinale Roark, padrone della città; Dwight, fascinoso criminale che asseconda il suo destino e dispensa morte a piene mani; Gail, sua amata e regina delle prostitute che governano la città vecchia, donne che danno grande piacere, se si paga bene e si sta alle regole, o grande dolore, se si va oltre il seminato; un bastardo giallo, che violenta e mangia bambine impunito, coperto dal mostro suo padre che è anche Senatore della città, e contrastato solo da Hartigan, uno sbirro sul viale del tramonto disposto ad una carneficina per fermarlo e salvare Nancy, timida ballerina di lap dance. Esseri che hanno poco di umano, anime nere che anneriscono il già nero skyline della città del peccato. E in mezzo a tutto questo nero, ogni gesto fuori dal piano regolatore che la morte stessa sembra attuare, brilla di un vivido accecante: il grande cuore rosso di Goldie, il sangue scarlatto versato in olocausto e quello giallo per la catarsi di Hartigan, occhi verdi, azzurri e d’oro che sono l’unica traccia di un’anima dietro le armi. Dopo alcuni mezzi e mal riusciti adattamenti da lui supervisionati, Frank Miller si decide finalmente a mettere il suo nome a corredo di una sua storia trasposta dal fumetto alla pellicola. Per chi conosce Miller, questa è la fine di un’attesa durata vent’anni; per chi non sa chi sia, perché magari pensa che i fumetti siano roba da bambini, basti dire che Frank Miller è, semplicemente, indiscutibilmente, il re del noir degli ultimi venti anni, a prescindere da ogni disciplina artistica, artigianale o d’intrattenimento che si voglia considerare. Se questo film fosse uscito nel 1991, quando cioè è nato, con stile molto cinematografico, sulle pagine della Dark Horse Comics, oggi il linguaggio cinematografico sarebbe diverso da come lo conosciamo: per esempio, non sarebbe affatto doveroso fare una citazione dietro l’altra, ma si racconterebbero storie che iniziano coi titoli di testa e finiscono coi titoli di coda. Oggi Miller, che da qualche anno non sforna più capolavori di carta, si è fatto dei compagni di merende: Tarantino e Rodriguez, due tipi in gamba che sanno benissimo quanto grande sia il debito che hanno col maestro. Dal primo si è fatto spiegare un po’ di marketing, dal secondo come si accende la macchina da presa, ha ripescato uno dei tanti suoi soggetti eccelsi del passato e ne ha fatto un film magnifico. Se la prossima volta il signor Miller avrà il coraggio di fare tutto da solo, e avrà premura di scrivere come sa fare, potremmo davvero trovarci di fronte ad un nuovo Anno Zero del cinema d’azione. Altro che Pulp Fiction…
Quentin Tarantino, come «Special Guest Director», ha diretto la sequenza in macchina con Jackie Boy (Benicio del Toro) dell’episodio Un’abbuffata di morte per la simbolica cifra di 1 dollaro, restituendo un favore all’amico Rodriguez, che aveva composto alcune musiche per il suo Kill Bill per la stessa cifra.
New York, 1955. Harold Angel è uno scalcinato investigatore privato. Un inquietante personaggio gli commissiona un’indagine molto particolare: scoprire se Johnny Favourite, cantante ricoverato anni prima in ospedale e sofferente di una grave amnesia, sia vivo o morto. La pellicola, scritta e diretta da Alan Parker, si basa su un racconto di William Hjortsberg. Le sfumature cupe e le dinamiche classiche del noir sono i toni scelti dal regista per questa detection-story al limite fra thriller e horror. Mickey Rourke, con le sue cicatrici, l’aria trascurata, la sigaretta sempre accesa, lascia di sé una traccia splendente e maledetta, sorniona e sfatta. Impossibile da dimenticare nel film, e nell’immaginario del cinema. Come memorabile è Lisa Bonet nel ruolo di Epiphany Proudfoot.
Nina è una ballerina del New York City Ballet che sogna il ruolo della vita e un amore che spezzi l’incantesimo di un’adolescenza mai finita. Incalzata da una madre frustrata, si sottopone a un allenamento estenuante sotto lo sguardo esigente di Thomas Leroy. Coreografo appassionato e deciso a farne una fulgida stella, Leroy le assegna la parte della protagonista nella sua versione rinnovata del “Lago dei cigni”. Sul palcoscenico Nina sarà Odette, principessa trasformata in cigno dal sortilegio del mago Rothbard, da cui potrà scioglierla soltanto il giuramento di un eterno amore.
La vita di San Francesco d’Assisi raccontata in un Medioevo di fango, sangue e sporcizia, dall’inquieta cattolica Liliana Cavani. Mickey Rourke è un santo più atletico che ispirato.
Negli anni ’80 Randy “The Ram” Robinson era un eroe del pro wrestling all’apice della carriera. L’incontro con il rivale Ayatollah, sconfitto il 6 aprile 1989, sarebbe rimasto per sempre nella storia dello spettacolare sport. Tuttavia, venti anni dopo “l’ariete” porta sul corpo i segni della lotta. Appesantito e decaduto, lavora part time in un grande magazzino e pratica il wrestling nelle palestre dei licei, ogni fine settimana, per la gioia dei (pochi) fan che gli sono rimasti. Il fallimento e la distruzione fisica sono temi che Darren Aronofsky aveva già esplorato in passato ma nel narrare la ballata del lottatore errante, trova il modo per estenderli a una sfera più ampia. Il personaggio di The Ram (interpretato da un Mickey Rourke in stato di grazia) rappresenta infatti l’essenza stessa del fallimento.
Sean Penn, al suo terzo lungometraggio, dimostra la stoffa dell’abile confezionatore di film di buon livello capaci (ed è già molto) di tenere desta l’attenzione dello spettatore. Il film si ispira al romanzo omonimo dello scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt, anche se ben poco resta dello spirito tipicamente centroeuropeo di un autore che affermava la prevalenza del ‘gioco’ sul ‘messaggio’. L’ispettore di polizia Jerry Black è giunto al giorno della pensione. Arriva però la notizia del ritrovamento del cadavere straziato di una bambina e Black si offre per l’avvio delle indagini. Queste hanno breve durata perché il presunto colpevole viene catturato e sembra ‘firmare’ la propria confessione sottraendo una pistola a un poliziotto e sparandosi in bocca. Il caso è chiuso ma Black non è convinto: ha promesso solennemente alla madre di prendere l’assassino. Riesce così a scoprire un’area in cui il killer di bambine (tutte con le stesse caratteristiche) ha agito negli ultimi anni. Vi si installa rilevando un piccolo negozio di articoli vari e ottenendo la fiducia della barista locale che ha una figlia che per età e caratteristiche fisiche assomiglia alle uccise. Jerry è fermamente deciso a tutelare la piccola ma anche a prendere il killer. Penn gira con grande tatto anche se manca quel salto di qualità che è proprio dei grandi registi.
Un film ad altissima carica sensuale girato con la tecnica e i tempi del videoclip: Mickey e Kim si incontrano, si piacciono, si sbizzarriscono in frenetiche acrobazie erotiche per un periodo, appunto, di nove settimane e mezzo. Poi, per entrambi, il rientro nella normalità. Un film patinato, raffinato e furbetto, da gustare e rivivere a casa: sono entrate nella leggenda, ormai, le sequenze del ghiaccio, delle ciliegie, del miele e dello spogliarello di Kim Basinger in contro luce al suono della voce roca di Joe Cocker. Perfettamente in ruolo i due protagonisti, ottima la scelta delle musiche che ne ritmano e sottolineano le fatiche, splendida (e un po’ ruffiana) la fotografia.
Dopo 18 anni in una prigione di massima sicurezza, Earl Copen è un carcerato modello: influente, temuto e rispettato dai compagni di cui sbriga le pratiche, in ottimi rapporti con le guardie. Con Ron Decker, borghese 20enne ultimo arrivato con una condanna per spaccio di droga, instaura un affettuoso rapporto platonico di tipo paterno e con lui studia un piano di evasione. 2° film dell’attore S. Buscemi, è scritto, con John Stepling, da Edward Bunker che l’ha tratto da un proprio romanzo e che ha la piccola parte del detenuto Buzzard. Film carcerario, soltanto in apparenza in linea con il repertorio retorico del genere, dà poco spazio all’azione: è la storia dell’incontro tra due solitudini, non quella di un’educazione. Diretto in modo neutrale, è un film d’attori.
Johnny, un rapinatore dal volto e dal corpo deformi, rimane ferito nel corso di una rapina alla banca che ha visto anche morire il suo miglior amico, tradito da due complici mascalzoni. Rinchiuso in galera, Johnny non ha altro scopo che la vendetta. E continua ad averlo anche quando il chirurgo del carcere (convinto che a un bell’aspetto corrisponde anche un animo buono), lo rifà completamente con un’operazione di plastica, trasformandolo in un fusto fascinoso.
Due focosi amanti decidono di far fuori l’ingombrante e ricco marito di lei. 1° film di Kasdan, sceneggiatore che ha visto molto cinema e che cerca di recuperarlo, filtrandolo e riscrivendolo. Non si sa dove comincia il ricalco e dove finisce l’omaggio a La fiamma del peccato di Wilder. Uno dei più ardenti film erotici degli anni ’80. Esordio di K. Turner.
Nella Tulsa (Oklahoma) degli anni ’60 il sedicenne Rusty (Dillon) vive col padre, avvocato fallito e alcolizzato (un Hopper da Oscar), e sogna di diventare come il fratello maggiore (Rourke), leader del quartiere, eroe solitario a cavallo della sua moto. Seguito ideale di I ragazzi della 56ª strada e anch’esso tratto dal romanzo di Susan Eloise Hinton, vale il doppio. Il cuore dell’azione è nel rapporto tra i due fratelli e, a far da contrappunto, nel loro rapporto col padre e nell’assenza della madre, fuggita dieci anni prima. Coppola ha citato Ejzenštejn e il cinema espressionista tedesco, ma il suo film rimanda soprattutto a Welles, per l’uso del grandangolo, del panfocus, delle carrellate avvolgenti, per quel barocchismo sfrenato e visionario che colloca Welles nella linea espressionistica della storia del cinema. Qui quel barocchismo espressionistico è forse di maniera, ma di alto livello. Splendida fotografia in bianco e nero di Stephen H. Burum. Il titolo originale si riferisce ai “pesci tuono”: quei pesci siamesi che attaccano i loro simili e che, come dice il fratello di Rusty, “non combatterebbero se fossero nel fiume, se avessero più spazio”. La metafora è chiara.
Mickey Rourke rifà le intemperanze alcoliche di Charles Bukowski, lo stravagante scrittore di Los Angeles che passò molti anni ciondolando nei bar come un barbone (finché il successo letterario corresse, ma fino a un certo punto, le sue abitudini). Qui è raccontata la sua storia d’amore con l’anima gemella, una bella donna anche lei ormai schiava dell’alcol. Rourke è bravo, ma alla lunga annoia. Come il film