Haywire = dare i numeri, impazzire. C’è un solo motivo per vedere questo thriller, scritto da Lem Dobbs e diretto da un regista diseguale che, almeno in Italia, spacca in due i cinecritici o sedicenti tali: quelli che lo stimano e quelli che lo ritengono un bluff, un falso d’autore. Si chiama Gina Carano, famosa in USA come campionessa di M.M.A. (Mixed Martial Arts). Il suo personaggio ha un cognome preso dal titolo originale ( Citizen Kane ) di uno dei più apprezzati film nella storia del cinema USA. Quel che fa, e quanti ne ammazza, è situato in un microcosmo astratto e teorico abitato da fantasmi, “fatto di astrazioni e geometrie, che nasce dalle macerie di un genere per ribadire che il cinema è innanzitutto il rapporto di un corpo con lo spazio che lo circonda” (G. Calzoni).
Su sceneggiatura di Aaron Sorkin, dal libro di Walter Isaacson, Boyle prende un talento straordinario e potente come Fassbender, si focalizza su 3 momenti chiave nella carriera di Jobs (distinti da 3 formati diversi 16, 35mm e digitale), passando per i backstage delle presentazioni di 3 suoi prodotti di diversa fortuna in 3 momenti della sua ascesa: il primo Macintosh nel 1984, il NeXT dell’88 e l’iMac del 1998, per fare, a modo suo, il ritratto di un personaggio geniale e discusso che si barcamena tra i conflitti con la figlia Lisa e con la madre della ragazzina Chrisann Brennan, e con i problemi dell’ultimo minuto, con Steve Wozniak, suo partner fin dagli inizi, John Sculley, CEO della Apple, e Andy Hertzfeld, ingegnere del software. Madre svizzera e padre siriano, adottato in California appena nato dai coniugi Jobs di fede luterana, abbandona l’università dopo il primo semestre. Informatico, produttore cinematografico, imprenditore e inventore, fondatore di Apple Inc., arcifamoso nel mondo per aver inventato Macintosh, iMac, iPod, iPhone e iPad. Accusato di essere presuntuoso, arrogante, anticonformista, manipolatore, con una vita privata burrascosa e complicata, muore di cancro a 56 anni.
Per guadagnare tanto e molto in fretta, avvocato texano entra in affari con i narcos messicani. Vorrebbe fare una rapida transazione, intascare e chiuderla, ma non ha previsto che ignoti rubino il carico, e il potente e spietato boss Reiner non ha intenzione di lasciarlo andare. Scritto dall’80enne Cormac McCarthy, narratore influenzato da Saul Bellow e qui anche produttore, è un film in cui il pessimismo prevale: fallibili, inutili, malvagi, innocenti, sono tutti vittime della storia di cui sono i principali artefici. “C’è così poco cinema in The Counselor da generare una paradossale purezza espressiva… Scott trova una limpidezza di sguardo mai posseduta…” (Roberto Manassero).
Un ragazzo viene abbandonato da un padre violento e insensibile, mentre la madre si suicida: con lui resterà solo un pupazzo di neve, inquietante presagio di orrore e infelicità. Un poliziotto della Omicidi, celebre per i casi impossibili risolti con successo, riceve un messaggio scritto da un certo “uomo di neve”, che ha tutta l’aria di una minaccia incombente. Capita spesso che le aspettative createsi attorno a un film siano tali da generare una delusione a visione avvenuta. Tuttavia accade assai di rado che la sproporzione tra attese e risultato raggiunga i livelli di L’uomo di neve di Tomas Alfredson.
Sulla carta la trasposizione dal best seller di Jo Nesbo sembrava avere tutto: un cast eccellente, tanto nei protagonisti che nei comprimari; un regista dal curriculum immacolato; un’ambientazione suggestiva. Nei fatti bastano pochi frame di un incipit destabilizzante per lasciar intendere che qualcosa non è andato per il verso giusto.
La macchina da presa sembra da subito incerta, priva di una guida salda: i molti primi piani e il montaggio enfatico sembrano suggerire una scelta stilistica, ma la qualità delle scene successive, come l’auto vista da dietro, lanciata a rotta di collo sul ghiaccio, o la morte della matrigna, desta sgomento. Uno sconforto che diviene certezza, man mano che la storia si dipana. Le difficoltà e i ripensamenti che hanno caratterizzato L’uomo di neve – la direzione in un primo momento era affidata a Martin Scorsese, poi a Morten Tyldum, prima di arrivare, diniego dopo diniego, ad Alfredson – emergono con la chiarezza cristallina di una sceneggiatura riscritta troppe volte, forse transitata da troppe mani. Alfredson, irriconoscibile, si adagia ben presto su una routine da mystery convenzionale, che abbandona il “come” per dedicarsi esclusivamente al “cosa”: a tenere desto l’interesse del giallista interiore, che alberga in ognuno di noi, rimane solo l’identità dell’assassino. Ma anche questa è intuibile con poco sforzo già a metà film: il profilo psicologico e le fattezze dell’assassino lasciano infatti pochi dubbi in merito, complice qualche inquadratura di troppo del killer di spalle.
Con il lento incedere dei cavalli al passo, il regista-musicista John Maclean realizza il suo primo lungometraggio e lo veste con i costumi del vecchio western. Jay Cavendish (Kodi Smith-McPhee) è uno smilzo sedicenne scozzese, ingenuo e senza peccato, deciso a raggiungere il lontano West per ritrovare la sua bella Rose Ross (Caren Pistorius). In questo viaggio d’iniziazione è affiancato da Silas Selleck (Michael Fassbender), un cowboy fuorilegge, senza rimorsi e senza passato, taciturno con il ragazzo, ma eloquente voce narrante, che si offre come guida protettiva in cambio di pochi soldi.
Girando la 7ª versione cinematografica del più truce dramma di Shakespeare, il giovane regista australiano, al suo 3° LM, ha accuratamente evitato il confronto interpretativo con mostri sacri quali O. Welles, A. Kurosawa e R. Polanski, rimanendo fedele al testo shakespeariano, riprodotto nei dialoghi, e puntando tutte le sue carte sulla forma e sull’uso ben temperato della cinetecnologia: messinscena suggestiva e potente, ma anche storicamente realistica, e dunque sobria, che rende al meglio, con squisita raffinatezza estetica, i lunari e nebbiosi paesaggi, gli edifici (scenografia di Lauren Briggs-Miller, Nick Dent, Rebecca Milton, Marco Anton Restivo) e i costumi (di Jacqueline Durran), le selvagge e cruente battaglie della Scozia medievale. Decisive la fotografia di Adam Arkapaw, di vivida cupezza e la musica celtica di Jed Kurzel. Ma l’acqua della vita – in questo caso meglio sarebbe dire della morte – gli è infusa dalle intense interpretazioni di Fassbender e Cotillard, che si trasformano in posseduti dal male, e dall’altissimo livello di tutti gli altri attori, non per caso figli della grande tradizione teatrale inglese di impronta shakespeariana.
Stati Uniti, 1841. Solomon Northup è un musicista nero e un uomo libero nello stato di New York. Ingannato da chi credeva amico, viene drogato e venduto come schiavo a un ricco proprietario del Sud agrario e schiavista. Strappato alla sua vita, alla moglie e ai suoi bambini, Solomon infila un incubo lungo dodici anni provando sulla propria pelle la crudeltà degli uomini e la tragedia della sua gente. A colpi di frusta e di padroni vigliaccamente deboli o dannatamente degeneri, Solomon avanzerà nel cuore oscuro della storia americana provando a restare vivo e a riprendersi il suo nome.
Irlanda del Nord, 1981. Il Primo Ministro Margaret Thatcher ha abolito lo statuto speciale di prigioniero politico e considera ogni carcerato paramilitare della resistenza irlandese alla stregua di un criminale comune. I detenuti appartenenti all’IRA danno perciò il via, nella prigione di Maze, allo sciopero “della coperta” e a quello dell’igiene, cui segue una dura repressione da parte delle forze dell’ordine. Il primo marzo, Bobby Sands, leader del movimento, decreta allora l’inizio di uno sciopero totale della fame. Il britannico Steve McQueen ha con l’immagine un rapporto estremamente fisico, che qui porta all’estremo, dal fisico al fisiologico, poiché le armi della contestazioni sono dapprima i rifiuti del corpo e poi il corpo stesso, ultima risorsa a disposizione e ultimo baluardo di libertà: quella di poter scegliere di disporre di sé, della propria vita e della sua fine.
Scritto dall’inglese Christopher Hampton a partire dalla sua pièce The Talking Cure , a sua volta ispirata al libro di John Kerr A Most Dangerous Method . Qual è il pericolo? Nel 1909, arrivando nel porto di New York, l’austriaco Sigmund Freud (1856-1939) domanda al suo allievo e collega svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961): “Lo sanno che gli stiamo portando la peste?” Zurigo, 1904. Il 29enne Jung ha iniziato la sua carriera di psichiatra, ispirata al lavoro di Freud. Applica il metodo della psicoanalisi o “terapia della parola” su Sabina Spielrein, colta ragazza russa, affetta da una grave forma di isteria aggressiva. Comincia con un carteggio, poi un forte legame professionale con Freud che vede in Jung il suo erede intellettuale e gli chiede di prendere in cura Otto Gross, tossicodipendente e fiero nemico della monogamia. Impressionato da Gross e/o forse vittima di un transfert mal realizzato, Jung diventa l’amante di Sabina. Dilaniato dai sensi di colpa (ha moglie e un figlio piccolo), rompe con la paziente e poi col maestro. Intanto la Spielrein passa in cura da Freud. (Diventerà anche lei psicoanalista). È lei il cardine emotivo del dramma in atto che da un certo punto di vista è un mélo : innamoramenti, tradimenti, affrancamenti, addii, fughe, mogli gelose, padri che ripudiano, reputazioni a rischio. Ma è un mélo asciugato, in linea col lucido rigore logico di Cronenberg. Le sole lacrime visibili scendono dagli occhi di Sabina, scossa ma anche umiliata dal godimento sessuale. Un trio di attori infallibili. Fotografia di Peter Suschitzky. Musica di Howard Shore. Costumi di Denise Cronenberg.
1905. Angel è una ragazza orfana che vive con la madre che gestisce un negozio di drogheria nella Londra operaia. Angel ha una passione: scrivere. I suoi romanzi sono… ricchi di colpi di scena e si alimentano di una vita da lei soltanto immaginata. Un giorno riesce a trovare un editore e da quel momento per lei tutto cambia. Ogni suo nuovo libro vende copie su copie e la ricchezza diventa per lei così tangibile da consentirle di comprare la dimora dei suoi sogni “Paradise”. La sua però è letteratura popolare così come “popolari” sono i suoi gusti nell’arredare il suo “castello”. Tutto procede per il meglio finché non si innamora, ricambiata, di un pittore che vede il mondo esattamente al contrario: grigio e spento.
Un’insegnante di asilo, Jenny, e il suo ragazzo Steve, scappano insieme per un romantico weekend sul lago. La situazione è perfetta: il lago è isolato dalla confusione e circondato dal bosco. Un gruppo do ragazzini, però, arriva a rovinare l’idillio vandalizzando l’auto della coppia e lasciandoli a piedi. Nel confrontarsi col gruppetto di teppisti, Steve sta male e Jenny è costretta a scappar in città in cerca di aiuto. Nel superare il bosco, sarà forzata in un inseguimento cane-gatto tra gli alberi dalla gang di ragazzini, fintanto che, esausta e distrutta, in città si scontrerà con i genitori stessi dei ragazzi che hanno causato il suo incubo.
Brandon ha un problema di dipendenza dal sesso che gli impedisce di condurre una relazione sentimentale sana e lo imprigiona in una spirale di varie altre dipendenze. Nulla traspare all’esterno: Brandon ha un appartamento elegante, un buon lavoro ed è un uomo affascinante che non ha difficoltà a piacere alle donne. Al suo interno, però, è un inferno di pulsioni compulsive. Va ancora peggio alla sorella Sissy, bella e sexy, ma più giovane e fragile, la quale passa da una dipendenza affettiva ad un’altra ed è sempre più incapace di badare a se stessa o di controllarsi. Dopo aver colpito indelebilmente gli occhi di chi ha visto il suo primo film, Hunger, colpevolmente non distribuito in Italia, il videoartista britannico Steve McQueen richiama con sé Michael Fassbender come protagonista di Shame, un film che è altrettanto politico, nelle intenzioni, per quanto non lo sia esplicitamente nel soggetto (com’era invece per la vicenda di Bobby Sands).
Jon è un impiegato che sogna di diventare un musicista, ma fatica a trovare un suo “stile”. La svolta arriva quando ha la fortuna di sostituire il tastierista di una band, gli Soronprfbs, che suona musica sperimentale. I componenti del gruppo sono tipi molto particolari, soprattutto il leader, Frank, musicista di talento che indossa costantemente una maschera di cartapesta. Il personaggio del protagonista è liberamente ispirato al comico inglese Chris Sievey, raccontato nel libro autobiografico di Jon Ronson. Mettendo in contrapposizione Jon e gli altri membri della band, Abrahamson affronta il tema delle fragilità psicologica ed emotiva dell’artista, ma parla anche delle conseguenze del successo, di talenti “maledetti”, di musica rock e social network. Le gag e gli avvenimenti, spesso insensati, di personaggi fuori dall’ordinario ne fanno una piacevole commedia surreale e bizzarra.