Una grintosa telecronista (Fonda) e il suo cameraman (Douglas) sono testimoni di un guasto tecnico nella centrale nucleare di Harrisburg (California) che potrebbe provocare un’esplosione atomica. Le autorità vorrebbero insabbiare la notizia, ma un ingegnere (Lemmon) si sacrifica per la verità. Scritto dal regista con Mike Gray e T.A. Cook e prodotto da M. Douglas, è un efficace thriller con messaggio antinucleare incorporato, che da più parti (nordamericane) fu accusato di isteria, allarmismo, ma che si rivelò più realistico e profetico del previsto. Un premio a Cannes per Lemmon. Senza commento musicale.
Fox, un agente di borsa desideroso di far carriera, ottiene il denaro di Gekko, potente finanziere, per speculazioni borsistiche. Resosi conto che Gekko si sta servendo di lui per loschi traffici, lo smaschera. Non è una critica del capitalismo in quanto tale, ma del capitalismo cattivo e dei suoi eccessi speculativi. A livello descrittivo ha, specialmente nella 1ª parte, grinta, forza, ritmo. Si sente che Stone parla di quel che conosce bene: il film è dedicato alla memoria del padre, agente di borsa. Oscar per Douglas nell’anno dell’ Ultimo imperatore.
Poliziotto di S. Francisco è morbosamente attratto da una scrittrice sospettata di un omicidio commesso durante un amplesso. Thriller erotico in forma di giallo ( whodunit ) di imbecillità costernante e di svergognata disonestà nell’accanita ricerca dello choc. Verhoeven e il suo strapagato sceneggiatore Joe Eszterhas (3 milioni di dollari!) mimetizzano i loro intenti mercantili, e la misoginia, con pomposi alibi tematici. Celeberrima la scena dell’interrogatorio in cui la fatale Stone, senza slip, accavalla le gambe. È tutto dire. M. Douglas, spesso con le brache abbassate, sembra la copia carbone del padre Kirk nelle sue peggiori interpretazioni.
Tom Sanders è un alto dirigente di una azienda elettronica. Quando si prospetta una sua promozione viene scavalcato da una donna, Meredith Johson, che è stata una sua vecchia fiamma. La donna lo attira nel suo ufficio e tenta di sedurlo. Sanders sembra cedere, ma poi respinge quello che è un vero e proprio assalto alla baionetta. La donna giura vendetta. A sorpresa lo accusa di averla violentata. Sanders è messo in minoranza e si affida a un avvocato. Una registrazione scagiona l’uomo, ma Sanders scopre che nulla era casuale in quel tentativo di seduzione da parte di Meredith… Tratto da un abile romanzo del prolifico Michael Crichton, il film di Levinson non delude le aspettative di chi ha il solo scopo di abbandonarsi al piacere di assistere a un plot stimolamte, eseguito con abilità.
La bella scrittrice di romanzi rosa Joan Wilder (Turner) si trova coinvolta con l’avventuriero Jack Colton (Douglas) nella caccia ad una mitica e preziosissima pietra verde tra i mille pericoli della giungla colombiana. Tra spietati e grotteschi militari sudamericani, gangster pasticcioni e famelici coccodrilli, i due troveranno lo smeraldo e l’amore. Film di buon intrattenimento, dove l’avventura e l’azione sono in perfetto equilibrio con l’ironia delle situazioni e la simpatia dei personaggi (che incontreremo di nuovo nel sequel Il gioiello del Nilo).
Dopo la strana morte di un’amica, chirurgo in sottana decide di indagare sull’ospedale in cui è avvenuto il decesso. Sospetta che molti pazienti vengano deliberatamente mantenuti in coma per essere usati per il trapianto degli organi. Molti guai. Dal romanzo di Robin Cook, sceneggiato da Crichton, un giallo fantamedico di un realismo accentuato che tiene lo spettatore inchiodato alla poltrona fino all’ultimo minuto. Brevi apparizioni di Tom Selleck ed Ed Harris.
Un avvocato mette in guardia un cliente raccontandogli la storia di due coniugi che, all’inizio, sembrano i più felici di questo mondo, ma finiscono con l’odiarsi e desiderare la morte dell’altro. Danny De Vito, che ha sempre raggiunto appena la sufficienza come attore, dimostra con questo film che si può fare di una commedia un capolavoro, Allendocet. Già il titolo originale occhieggia ironicamente alla guerra delle due rose e di conflitto sanguinario si tratta veramente. Fino al termine della prima parte si crede di essere nel bel mezzo di una commedia hollywoodiana, anche se le carte in tavola sono già un po’ mischiate, ma ci si accorge ben presto che i due si odiano davvero e il finale non è per nulla consolatorio. Le migliori interpretazioni della carriera di Douglas e della Turner. Non adatto a chi crede nella famiglia e al lieto fine.
È la storia d’amore tra Scott Thorson, pianista eclettico e barocco, e un ragazzo gay di 18 anni strapazzato dalla vita e risucchiato da un uomo in un sogno a occhi aperti che alla fine diventa incubo. Basandosi sull’autobiografia di Thorson, Soderbergh si affida al talento dei suoi interpreti: Douglas ottimo nell’interpretare un’icona gay che ha sempre voluto dissimulare la sua natura, e Damon perfettamente calato nella parte. Lustrini, Rolls Royce, tanto kitsch e molta musica per un film che negli USA è stato presentato solo dal canale televisivo HBO che lo ha prodotto, mentre nel resto del mondo è uscito nei cinema.
Haywire = dare i numeri, impazzire. C’è un solo motivo per vedere questo thriller, scritto da Lem Dobbs e diretto da un regista diseguale che, almeno in Italia, spacca in due i cinecritici o sedicenti tali: quelli che lo stimano e quelli che lo ritengono un bluff, un falso d’autore. Si chiama Gina Carano, famosa in USA come campionessa di M.M.A. (Mixed Martial Arts). Il suo personaggio ha un cognome preso dal titolo originale ( Citizen Kane ) di uno dei più apprezzati film nella storia del cinema USA. Quel che fa, e quanti ne ammazza, è situato in un microcosmo astratto e teorico abitato da fantasmi, “fatto di astrazioni e geometrie, che nasce dalle macerie di un genere per ribadire che il cinema è innanzitutto il rapporto di un corpo con lo spazio che lo circonda” (G. Calzoni).
Nick (arcigno agente di polizia newyorkese intepretato da Michael Douglas) viene coinvolto insieme al giovane collega Charlie (Andy Garcia) in un caso più grande di lui. Dagli States l’azione si sposta in Giappone ad Osaka, per indagare sulla mafia locale nota come Yakuza. Nonostante la frizione tra i metodi nipponici e dei due yankee, la sinergia darà i suoi frutti. Ma Osaka non è New York. Tra tutti i moderni maestri del cinema, Ridley Scott è sicuramente il più discontinuo. Sarà forse per compensare l’enorme peso specifico di alcune pietre miliari come Blade Runner – citato non a caso come vedremo – ma il regista inglese formatosi sui set degli spot televisivi, ama spesso rilassarsi con film disimpegnati. È il caso di questo poliziesco in cui il regista rispolvera dal baule il suo debole per il mondo nipponico confessato nel suddetto film. Sono numerose le sequenze in cui il ricordo latente della futuristica Los Angeles giapponese trova compiacenti autocitazioni. Nelle insegne pubblicitarie, nelle luci al neon, nell’etereo crepuscolo, e addirittura in sequenze palesemente narcisistiche, in cui l’affamato Douglas reincarna Harrison Ford nell’impacciato uso di bachette e scodellina. Ma la condizione meticcia è ribaltata: è il Giappone che si è “contaminato” di Occidente, la pioggia sporca appunto. La mano del miglior Scott risalta nella fotografia – splendida la luce mattutina in apertura – nell’azione e nel dinamismo. Ma la trama, un po’ ballerina nel suo sviluppo, non lascia tracce indelebili nella sua filmografia. Sparatorie magiche che causano esplosioni atomiche di autovetture, fughe rocambolesche in moto, gli ingredienti dei plasticosi action movie anni Ottanta ci sono tutti. Ricco di nomi importanti il contributo musicale: colonna sonora di Hans Zimmer (da qui in poi inseparabile braccio destro) prodotta da David Paich, impreziosita da nomi illustri come Iggy Pop. Ben assortita la coppia Douglas-Garcia. Ma lo Scott migliore viaggia su ben altri binari.
Javier Rodriguez e Manolo Sanchez sno due poliziotti impegnati a contrastare il traffico di droga sul confine tra Stati Uniti e Messico. Il loro capo è il generale Salazar, il principale nemico dei cartelli della droga. Ogni giorno i due sono tentati di appropriarsi di parte dei carichi sequestrati e di arricchirsi. Javier è il più resistente alle pressioni. Intanto negli Stati Uniti il giudice della Corte Suprema dell’Ohio, Robert Wakefield, viene incaricato dal Presidente di coordinare un’efficace attività antidroga con i partner messicani. A casa però Robert e la consorte debbono assistere impotenti al precipitare nell’abisso della dipendenza della figlia sedicenne. Carlos Ayala, un trafficante ricco di coperture, rischia di venire incastrato in fase processuale da un testimone eccellente. Steven Soderbergh non abbandona il cinema di denuncia, ma questa volta sceglie la strada del film di genere a vicende incrociate. Si avvale della forte presenza scenica di un Benicio del Toro capace di esprimere dolore e sicurezza insieme con un semplice movimento delle labbra. La coppia Douglas/Zeta-Jones non conferisce particolare glamour a un film corale e ricco di colpi di scena che è meglio non svelare. Il rischio della ‘morale’ emerge in particolare nella parte finale, ma Soderbergh riesce comunque a far passare con chiarezza (quella chiarezza che mancava a Out of Sight) il messaggio
Ricchissimo e potente consulente finanziario (M. Douglas) a San Francisco riceve in regalo dal fratello (S. Penn), alla vigilia del suo 48° compleanno, la tessera d’iscrizione a un club che organizza giochi personalizzati per animare esistenze monotone. Si mette in contatto con il club e si trova a vivere un incubo, una vita a rischio continuo. Il “gioco” ( game ) è riuscito: suspense, intensità, mistero, sorprese, disavventure ansiogene, invenzioni di regia. Ma riuscito il film non lo è: c’è un eccesso di ingegnosità di intrigo che diventa stravaganza gratuita, senza contare la madornale sproporzione tra i mezzi e il fine. Il difetto, insomma, è nel manico, nella sceneggiatura di John Brancato e Michael Ferris. Tutto è truccato in questa metafora del cinema.
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